Fritiof Capra, il fisico hippie che voleva cambiare la scienza

 di Roberto Paura
tratto da Lucy sulla Cultura del 7 settembre 2025 

Nella metà degli anni Settanta il numero di iscritti ai corsi di laurea in fisica all’Università della California a Santa Barbara aveva toccato un minimo storico. Tra i giovani covava una forte disaffezione nei confronti di una disciplina considerata troppo tecnocratica ed elitaria, strettamente intrecciata con il complesso militare-industriale che alimentava le guerre imperialiste dell’America di Nixon e Ford. Per cercare di convincere i giovani a tornare a studiare fisica, il dipartimento dell’università pensò allora di far circolare una brochure che parlasse la loro stessa lingua: “La fisica è ben più di un mero studio tecnico. È parte della totalità della nostra esperienza umana. L’influenza e le interconnessioni che la fisica ha avuto sulla nostra storia, le nostre religioni, sulle nostre filosofie, sui nostri linguaggi e letterature sono ampie e profonde. La fisica è per chiunque desideri ricreare, comprendendole e apprezzandole, quelle scoperte che conferiscono unità e meraviglia all’apparente complessità del nostro universo fisico”.

Era un linguaggio ben diverso da quell’approccio condensato nel celebre detto zitto e calcola! che si respirava nei dipartimenti di fisica americani nel secondo dopoguerra. Era d’altronde terminata l’epoca d’oro dei padri della meccanica quantistica, con i suoi strascichi irrisolti sul senso paradossale della realtà dei quanti che non trovavano più spazio nei laboratori impegnati a sostenere gli sforzi di una superpotenza che doveva contemporaneamente costruire razzi sempre più veloci, computer sempre più grandi, bombe atomiche sempre più distruttive. Ma era un linguaggio che i giovani hippie di quegli anni potevano capire, perché sui loro comodini molto spesso faceva mostra di sé una copia – forse regalata, forse prestata, talvolta rubata – di un libro di un fisico austriaco di nome Fritjof Capra: Il Tao della fisica.

Era un libro che riportava in auge quelle interconnessioni tra fisica quantistica e misticismo orientale che erano state già notate nella prima metà del Novecento da uomini come Niels Bohr, Wolfgang Pauli e Werner Heisenberg, intellettuali a trecentosessanta gradi dotati di vastissima cultura, che leggevano le Upanishad o (come nel caso di Oppenheimer) la Bhagavad Gita. Utilizzando citazioni dal buddhismo, dall’induismo e dall’I Ching, nel suo libro Capra sosteneva che la meccanica quantistica rivela “un’essenziale interconnessione dell’universo”, trasformando l’apparente complessità della nuova fisica in un’esperienza accessibile ai giovani dell’età dell’Acquario; tanto più che il libro si apriva con la descrizione di un’esperienza mistica sperimentata sulle rive dell’oceano una sera di fine estate, in cui l’universo apparve a Capra come una cascata di energia, con le particelle impegnate in una danza cosmica che gli si rivelò come “la danza di Shiva, il Dio dei Danzatori adorato dagli Indù”. Era, chiaramente, la descrizione di un trip allucinogeno, qualcosa che gli studenti delle università californiane di quegli anni conoscevano molto bene.

Quell’esperienza aveva in effetti delle coordinate spazio-temporali precise: estate 1969, spiaggia di Santa Cruz. A quell’epoca Fritjof Capra, nato nel 1939, aveva trent’anni. L’anno precedente aveva assistito in presa diretta al Maggio francese, mentre si trovava a Parigi con una borsa di post-dottorato. Tra i caffè parigini aveva incontrato un professore di fisica dell’Università della California a Santa Cruz in sabbatico, che lo aveva invitato a recarsi da lui una volta completato il post-doc. Ma incontrò anche un giovane fisico suo coetaneo, in quel periodo docente a contratto a San Diego mentre completava il dottorato, che, in perenne stato di allucinazione, sproloquiava sui rapporto tra meccanica quantistica e poteri psichici: Jack Sarfatti, questo il suo nome, stava scrivendo in quel periodo con due colleghi, Bob Toben e Fred Alan Wolf, un libro che sarebbe uscito nel 1974, un anno prima di quello di Capra: Space-Time and Beyond, che lo storico della scienza David Kaiser definisce “uno strano ibrido” che consisteva “di cento pagine di fumetti abbozzati da Toben a mo’ di guida New Age per scettici, seguite da pagine di fitte appendici scientifiche con citazioni prese da fonti predilette di Wolf e Sarfatti, come il fisico Eugene Wigner e John Wheeler”. Fu comunque un successo che vendette 50.000 copie solo nella prima edizione e spianò la strada a una pletora di testi del genere, di cui Il Tao della fisica sarebbe diventato l’emblema.

A differenza di Sarfatti, Toben e Wolf, profondamente imbevuti di controcultura americana, Capra era cresciuto in un ambiente radicalmente diverso. Aveva trascorso gran parte dei primi dodici anni della sua vita in una fattoria nell’Austria meridionale di proprietà di sua nonna, che diede ospitalità a numerosi profughi dell’Europa centrale durante la Seconda guerra mondiale. In quella sorta di comune ante-litteram, Capra sperimentò questioni di cui in seguito avrebbe scritto estesamente: “consapevolezza ecologica, riciclaggio, sostenibilità, senso della comunità”, come racconta in Le relazioni della vita. Poi, quando aveva dodici anni, si trasferì con i genitori a Innsbruck. Nella biblioteca dei genitori – poetessa, drammaturga e critica letteraria la madre, avvocato ma anche filosofo dilettante il padre – il giovane Fritjof scoprirà, insieme ai testi dei grandi filosofi dell’Occidente, anche libri sull’induismo e il buddismo, acquisendo familiarità con le religioni orientali. Negli anni Cinquanta, da Innsbruck la famiglia Capra si spostava per le vacanze estive in Italia, dove avvennero i primi contatti con la figura di Leonardo da Vinci, in seguito diventato nume tutelare e, soprattutto, modello di Capra. All’Università di Innsbruck si iscrisse a matematica e fisica, ispirato dal suo insegnante di matematica del liceo. Si spostò poi a Vienna, dove nel 1966 conseguì il dottorato in Fisica teorica.

In quegli anni una lettura in particolare rappresentò per lui un’epifania: si tratta del libro più personale di Werner Heisenberg, Fisica e filosofia (1958), nel quale il padre della meccanica quantistica suggeriva “l’esistenza d’una certa relazione fra le idee filosofiche dell’Estremo Oriente e la sostanza filosofica della teoria dei quanta”, ma soprattutto attribuiva la colpa dell’incapacità di comprendere i paradossi della meccanica quantistica all’“ingenuo modo materialistico di pensare” dell’Europa del primo Novecento, basato sul dualismo cartesiano. Per Heisenberg, l’interpretazione cosiddetta di Copenaghen della meccanica quantistica, che assegna un ruolo fondamentale all’osservatore nel processo di riduzione quantistico (il cosiddetto “collasso della funzione d’onda”, quando la nuvola di valori alternativi in sovrapposizione degli osservabili di un sistema quantistico si riduce a un singolo stato all’atto della misurazione), cessa di essere paradossale se si abbandona la “netta separazione fra il mondo e l’Io” postulata da Descartes ed ereditata della meccanica newtoniana. Per Capra si trattò di una rivelazione. In effetti, la filosofia e le religioni orientali sono non-dualistiche e affermano la possibilità di accedere attraverso esperienze di “consapevolezza non-duale” alla sperimentazione di una realtà unitaria che soggiace a tutte le cose e di cui tutto – inclusa la coscienza umana – sono espressione. In seguito all’esperienza mistica del ’69, Capra si convinse di aver avuto una visione sensibile di quella realtà nascosta. Certamente fu l’effetto delle esperienze intense di quei primi anni californiani, nei quali, come ammise, “abbracciai senza riserve la controcultura, lessi libri sul misticismo orientale, praticai la meditazione e sperimentai sostanze psichedeliche”. 

Finita l’orgia New Age, Capra rimase senza visto e senza posto di lavoro e dovette ritornare in Europa, sperando in una borsa all’Imperial College di Londra di cui aveva conosciuto il direttore e sbarcando nel mentre il lunario con lezioni private. Negli States aveva toccato tuttavia con mano il grande boom dell’editoria, con la diffusione dei paperback. Tutti avevano qualcosa da scrivere e per ogni storia si poteva trovare un editore disposto a investire. Se ci stavano riuscendo Sarfatti e i suoi compagni, perché non anche lui? Tanto più che un libro sulla fisica teorica scritto nel linguaggio New Age poteva non solo rappresentare un successo commerciale ma, nell’America di quegli anni, anche un passe-partout per una cattedra universitaria, rispetto all’ingessato mondo europeo. Solo che scrivere un libro richiede tempo, e di anticipi manco a parlarne. La salvezza giunse, di nuovo, dalla California. All’Università di Berkeley il fisico Geoffrey Chew, che aveva studiato con Enrico Fermi, guidava la divisione teorica del Lawrence Berkeley Laboratory nello sviluppo di un approccio promettente per la gravità quantistica, la teoria della matrice S. Capra era rimasto affascinato dal principio soggiacente della matrice S, il modello bootstrap, che risolveva d’incanto il problema delle particelle fondamentali alla base dell’interazione forte postulandone la non esistenza, o meglio proponendo che tutte quelle finora scoperte fossero in realtà particelle fondamentali, sulla base del principio che la realtà fisica fondamentale può reggersi da sé come uno stivale che viene tenuto sollevato per i lacci (da cui il nome del principio). Per la verità, nei primi anni Settanta la teoria della matrice S era già stata quasi del tutto soppiantata dalla cromodinamica quantistica, che spiegava invece l’interazione forte con l’esistenza di quelle particelle fondamentali che chiamiamo quark e gluoni. Ma Capra si lasciò trascinare dai parallelismi tra le teorie di Chew e i principi buddisti e gli scrisse in merito. Chew, per la verità, non rimase molto colpito dalle lettere di Capra, ma le inoltrò a due suoi dottorandi impegnati nell’esplorazione di idee radicali, George Weissmann e Elizabeth Rauscher. Weissmann, in particolare, aveva avuto un’esperienza mistica nel 1974 in seguito alla morte del padre, e da allora si era dedicato allo studio del buddismo, trovando collegamenti con i suoi studi di fisica in testi come Tempo, spazio e conoscenza: una nuova visione della realtà di Tarthang Tulku, dedicato al pensiero tibetano. 

Entusiasti di Capra, Weissmann e Rauscher convinsero Chew a chiamarlo a Berkeley come professore associato senza stipendio. Non era probabilmente ciò che Capra sperava, ma era meglio essere squattrinato nella California di quegli anni che a Londra e soprattutto c’era la speranza di trovare un editore interessato. In effetti la Shambhala Press, nata nel 1970 proprio a Berkeley e specializzata in libri sul misticismo orientale e la spiritualità, intuì il valore del libro di Capra. Fu così che, nel 1975, Il Tao della fisica esordì nelle librerie. La prima tiratura, già ragguardevole (20.000 copie), andò esaurita in poco più di un anno. Tra i lettori entusiasti della prima ora figurava Philip K. Dick, all’epoca in pieno trip dopo l’esperienza mistico-psichedelica del febbraio-marzo 1974, durante la quale si era convinto di essere entrato in contatto con un’intelligenza aliena, VALIS. Come spiegherà nei suoi appunti privati (poi pubblicato con il titolo L’Esegesi), nel Tao della fisica Dick trovò le conferme di aver sperimentato una “perturbazione nel campo della realtà” simile a quella esperita dal fisico austriaco nel ’69. Ma il libro di Capra superò rapidamente i ristretti confini della controcultura californiana: quando, nel 1977, la Bantam lanciò l’edizione tascabile, la tiratura fu di 150.000 copie, esaurite in meno di un anno. Nel 1983 superò il mezzo milione di vendite e in seguito, tradotto in oltre ventitré lingue, ha sfondato da tempo la quota del milione e continua a essere un long-seller in tutto il mondo. 

Il Tao della fisica ha soprattutto dato il via a una stagione d’oro del “misticismo quantistico”, proseguita con libri come La danza dei Maestri Wu Li di Gary Zukav (1979) e Mysticism and the New Physics (1981) di Michael Talbot. Ma, anche dopo la fine dell’età dell’Acquario, l’impronta del libro non è mai venuta meno. Quando tenne per la prima volta una conferenza al CERN per presentare le conclusioni del suo libro, la platea rimase piuttosto fredda; ciò nonostante il fatto che Capra fosse stato sollecitato e incoraggiato a scrivere il suo libro da Victor Weiskopf, che del CERN era stato direttore. Ma è emblematico che, quando nel 2004 all’interno del complesso ginevrino è stata posta una statua di Shiva, donata dal governo indiano per celebrare la collaborazione tra l’India e il CERN, il cartello esplicativo presentava citazioni dal Tao della fisica spiegando il parallelismo tra la danza di Shiva e il dualismo onda-particella della meccanica quantistica. Libri come La pienezza del vuoto (2016) dell’astrofisico americano di origini vietnamite Trinh Xuan Thuan e Zen e multiversi (titolo originale Cosmological Koans, 2019) di Anthony Aguirre, cosmologo all’Università della California a Santa Cruz, dimostrano quanto ancora diffusa sia l’idea che la concezione della realtà del misticismo orientale possa aiutare a risolvere i paradossi della fisica contemporanea, al di là delle derive pseudoscientifiche che l’opera di Capra ha sicuramente alimentato (si pensi ai libri di Deepak Chopra sulla mente quantistica, o a quelli del fisico induista Amit Goswami con titoli come Guida quantistica all’illuminazione).

Quanto a Capra, il suo intuito lo aveva spinto a comprendere tra i primi che le nuove concezioni della meccanica quantistica emerse a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e a cui aveva dedicato Il Tao della fisica non rappresentavano solo un ulteriore tassello nella storia della fisica, ma un aspetto di una più ampia e ancora non sufficientemente studiata rivoluzione scientifica, che coerentemente con le tesi di Thomas Kuhn emerse con l’accumulo di anomalie all’interno del quadro esplicativo della scienza e richiedeva un mutamento nella concezione del mondo per poter essere accolta. Il cosiddetto Teorema di Bell, proposto per la prima volta nel 1964, dimostrava matematicamente l’insostenibilità delle cosiddette “teorie a variabili nascoste” per spiegare i paradossi dell’entanglement, confermando che quella “spettrale azione a distanza” alla base della meccanica quantistica che tanto aveva inorridito Einstein non sarebbe scomparsa con la scoperta di teorie più profonde, ma era destinata a restare parte integrante della nostra visione della realtà. L’entusiasmo dei fisici hippie per l’entanglement si spiegava in parte col fatto che, come nel caso di Sarfatti e Wolf, la correlazione a distanza poteva rappresentare una spiegazione per i fenomeni psi tanto di moda in quegli anni (non mancarono a Berkeley esperimenti di telepatia e telecinesi fondati sull’entanglement), ma più profondamente con la consapevolezza che queste nuove scoperte creavano una cesura con la vecchia fisica e lasciavano campo libero a una nuova e più smaliziata generazione di scienziati priva dei pregiudizi provenienti dall’eredità cartesiana della scienza occidentale. Di quel mutamento della concezione del mondo Capra decise di farsi interprete con un’intensissima opera di divulgazione del nuovo quadro della realtà: teoria del caos, sistemi complessi, dinamica dei sistemi, ecologia profonda dovevano definire per Capra un “punto di svolta”, come intitolò il suo secondo best-seller apparso nel 1982. La controcultura di cui era stato protagonista nel decennio precedente veniva reinterpretata come avanguardia di una concezione “olistica” della realtà, in grado di superare il pernicioso dualismo cartesiano. La “nuova fisica” ne rappresentava la versione fondamentale. Ma che dire della biologia? Il punto di svolta del titolo del secondo libro di Capra aveva anche, se si vuole, un significato autobiografico: sanciva il passaggio dalla fisica (che l’autore avrebbe definitivamente abbandonato in termini di carriera alla fine degli anni Ottanta) alle scienze della vita, anch’esse affette, a suo dire, dal problema del dualismo cartesiano e dall’accumularsi di una serie di problemi frutto dell’approccio riduzionistico della biologia molecolare. Il “determinismo genetico” che alimentò il grande Progetto Genoma, nella speranza che decifrando il codice della vita fosse possibile comprendere tutti i segreti del corpo umano, fu in effetti un grande abbaglio collettivo, di cui ancora scontiamo gli effetti. “La visione meccanicistica dell’organismo umano ha incoraggiato un approccio ingegneristico alla salute, in cui la malattia si riduce a un guasto meccanico e la terapia medica a manipolazione tecnica”, scrive Capra. A lungo ignorata come frutto della deriva New Age, la concezione alternativa di una salute integrata che tenga conto degli effetti della devastazione ambientale, dello sfruttamento animale e dello stress sociale sulla salute umana solo in anni recenti ha visto la sua consacrazione con l’affermarsi del paradigma One Health. 

Il punto di svolta non era esclusivamente frutto di Capra. Parti del libro su temi quali psicologia, economia e medicina furono scritte da quattro “consiglieri” che l’autore aveva scovato attraverso lunghe interviste e scambi di opinioni: lo psichiatra Stanislav Grof, l’economista Hazel Henderson, l’antropologa Margaret Lock, l’oncologo Oscar Carl Simonton. Il gruppo si riuniva all’Elmwood Institute, pretenzioso nome dietro il quale si nascondeva nient’altro che l’appartamento di Capra nel quartiere di Elmwood a Berkeley. Finanziato inizialmente con i proventi dei diritti d’autore dei suoi libri, l’Elmwood Institute divenne poi nel 1994 il Centro per l’Eco-alfabetizzazione, sancendo il passaggio a una nuova fase della carriera di Capra, quella dell’attivista ambientalista. Frutto di questa nuova fase fu La rete della vita (1996), opera più sistematica perché fondata sull’applicazione dei princìpi del pensiero sistemico a tutti i campi della realtà, in particolare a quello della biologia e dell’ecologia. Il pensiero sistemico, che aveva avuto tra i suoi pionieri la tectologia di Aleksandr Bogdanov, gli studi sulla biosfera di Vladimir Vernadsky e quelli sulla cibernetica di Norbert Wiener nella prima metà del Novecento, si affermò tra gli anni Sessanta e Settanta come paradigma alla base della teoria dei sistemi complessi. La visione della fisica fondamentale che Capra aveva promosso nel Tao della fisica era, in essenza, una visione sistemica, che interpretava l’universo in termini di interazioni e soprattutto non necessitava di una concezione gerarchica delle particelle come nell’attuale modello standard. Lo stesso principio poteva essere esteso ad altri ambiti della scienza. Il pensiero sistemico, con la sua concezione olistica, rappresentava per Capra quel mutamento di paradigma secondo l’accezione di Kuhn con cui rivoluzionare la scienza dopo il “punto di svolta”. Non più una concezione riduzionista in cui la mente può essere compresa solo a partire dai neuroni, il corpo umano partendo dai geni, le molecole scomponendole in atomi e gli atomi in particelle fondamentali, ma una visione sistemica in cui le “proprietà delle parti non sono proprietà intrinseche, ma si possono comprendere solo nel contesto di un insieme più ampio”. Gli esseri viventi, ma anche gli ecosistemi, e lo stesso pianeta Terra secondo l’ipotesi Gaia di James Lovelock, sono sistemi (non entità) fondati sull’auto-organizzazione, sono autopoietici, come le particelle secondo il principio del bootstrap descritto nel Tao della fisica. Non sono spiegabili attraverso la scomposizione nei loro mattoni fondamentali, ma tramite il concetto di emergenza, tipico dei sistemi complessi: la vita e la coscienza sono, da questo punto di vista, fenomeni che emergono dall’auto-organizzazione dei diversi componenti soggiacenti e dalle loro relazioni. I sistemi complessi, a loro volta, possono essere studiati solo attraverso i princìpi della dinamica non lineare e della teoria del caos, che sono di tipo qualitativo e non quantitativo. Soprattutto, non sono deterministici nel senso tradizionale del termine: estremamente sensibili alle condizioni iniziali, non possiamo prevederne l’evoluzione sul lungo termine, ma solo descriverne il comportamento istante per istante.

Mentre era impegnato a promuovere la visione de La rete della vita, nel 1997 Capra conobbe il biochimico Pier Luigi Luisi, chimico normalista, in seguito in forze all’ETH di Zurigo. I due erano spiriti molto affini. Nella metà degli anni Ottanta Luisi aveva fondato la settimana internazionale di Cortona dedicata al tema Science and the Wholeness of Life, un evento che ancora oggi ogni anno coinvolge intellettuali e scienziate/i da mezzo mondo a supporto di una concezione integrale della vita. Capra, che pure era andato fino in Tibet ad ascoltare lezioni sull’unità delle scienze, non ne aveva ancora sentito parlare. Ben presto iniziò un fitto scambio di idee (“spesso tramite una raffica di fax”) che condusse a un’importante collaborazione, il cui frutto è la vasta opera di sintesi The Systems View of Life (“Vita e Natura. Una visione sistemica”, 2014). Opera imponente, vera e propria summa del pensiero di Fritjof Capra e della sua visione del pensiero sistemico, quasi 800 pagine che spaziano dalla fisica alla cibernetica, dalla medicina alle neuroscienze, dalla spiritualità all’economia.

Che il pensiero sistemico abbia portato in effetti a importanti mutamenti di paradigma, è indubbio. Rachel Carson lo applicò alla comprensione degli effetti devastanti dell’industria chimica sulla biosfera. I coniugi Donella e Dennis Meadows lo applicarono con successo allo studio della dinamica sociale sul lungo termine, dimostrando l’insostenibilità di una crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite e aprendo così la strada al paradigma dello sviluppo sostenibile. Gregory Bateson lo utilizzò per riformare la teoria della mente e Stuart Kauffman lo applicò all’evoluzionismo. Sebbene si tratti ancora di visioni minoritarie, le catastrofiche conseguenze di una mancata conversione della civiltà antropica all’ecologia profonda e allo sviluppo sostenibile dimostrano quanto i teorici del pensiero sistemico avessero avuto la giusta intuizione, e quanto l’attaccamento al riduzionismo risulti problematico. Al tempo stesso, però, Fritjof Capra non ha reso le cose semplici. Dal Tao della fisica in poi non ha mai perso il gusto per la silloge, per la giustapposizione di teorie e concetti provenienti spesso da contesti molto diversi al fine di fornire una visione unitaria del sapere spesso troppo semplicistica. Se lo scopo è quello divulgativo, raramente i lettori e le lettrici di Capra – o il suo uditorio durante i convegni – hanno provato a spingersi più in fondo e si sono accontentati di restare al livello superficiale del vasto affresco unitario della realtà fornito da Capra. Lo stesso effetto ha prodotto Il Tao della fisica su milioni di lettrici e lettori che hanno creduto di riuscire a comprendere la meccanica quantistica a partire dalle ardite metafore di Capra. Il risultato è, paradossalmente, che il tema della complessità nelle scienze è ancora oggi altamente esposto al rischio di semplificazioni grossolane, allontanando da questo settore gli scienziati più rigorosi che temono di vedersi attribuire l’ambigua etichetta di “complessologi”.

Un esempio di questo rischio di semplificazione risale al 2013, quando tra le tracce per gli esami di maturità in Italia uscì un estratto da La rete della vita: “Tutti gli organismi microscopici sono prove viventi del fatto che le pratiche distruttive a lungo andare falliscono. Alla fine gli aggressori distruggono sempre se stessi, lasciando il posto ad altri individui che sanno come cooperare e progredire. La vita non è quindi solo una lotta di competizione, ma anche un trionfo di cooperazione e creatività. Di fatto, dalla creazione delle prime cellule nucleate, l’evoluzione ha proceduto attraverso accordi di cooperazione e di coevoluzione sempre più intricati”. Preso in sé, questo estratto è facilmente fraintendibile. Chi non conoscesse le diverse teorie dell’evoluzione, dal “gene egoista” di Dawkins alla sociobiologia di E.O. Wilson, passando per la simbiogenesi di Lynn Margulis, a cui l’autore fa qui riferimento (la cellula eucariote frutto della cooperazione simbiotica tra antichi batteri), finirebbe per usare il brano – e commentarlo, come fecero molti maturandi nel 2013 – attribuendo un intento finalistico all’evoluzione.

Lo stesso rischio si verifica ogni qualvolta la complessità del pensiero sistemico viene ridotta a uso e consumo di platee di manager d’impresa, consulenti strategici e coach arrembanti, a cui spesso Fritjof Capra si è rivolto in questi anni. È proprio la deriva che il pensiero sistemico – nato come armamentario concettuale per l’analisi dei sistemi complessi nella scienza – ha sofferto in questi anni, finendo per essere liquidato dalla comunità scientifica come un “vecchio chiacchiericcio inutile, privo di qualsiasi potere esplicativo” (così Roger Brent, direttore del Molecular Sciences Institute a Berkeley, in un profilo di Capra su «Nature») per essere recuperato come dottrina di management organizzativo, ad aver molto ridotto la portata rivoluzionaria del pensiero di Fritjof Capra.

Sarà anche per questo che, a partire dagli inizi del Duemila, la sua attenzione si è spostata apparentemente su altri versanti. Dopo aver speso dieci anni a studiare gli scritti scientifici di Leonardo da Vinci, Capra si è convinto che Leonardo, più che Galileo, vada considerato il vero antesignano della rivoluzione scientifica, perché in grado di comprendere la stretta interconnessione tra sistemi biologici e apparati tecnologici, offrendo una concezione organicistica della scienza, diversa da quella meccanicistica che sarebbe emersa due secoli dopo. Da qui una serie di scritti di successo, forse alimentati anche dalla popolarità del Codice Da Vinci: dopotutto, il libro di Dan Brown (2003) e il film di Ron Howard (2006) precedono di pochissimo The Science of Leonardo (2007). Nella sua figura poliedrica, autentico “uomo universale”, Fritjof Capra ha intravisto l’idealizzazione del “pensatore sistemico”, al punto da farne un antesignano persino dell’ipotesi Gaia di Lovelock. E certamente deve avervi visto anche il rappresentante di un’epoca, quel Rinascimento dove l’unità della conoscenza non era stata ancora intaccata dal dualismo cartesiano, che per tutta la vita Fritjof Capra ha sperato di veder rinascere: l’epoca solare, come la chiamò nell’ultimo capitolo del Punto di svolta, o forse quell’età dell’Acquario attesa dai pensatori della controcultura in grado di ripristinarei “l’armonioso interrelarsi delle cose che osserviamo in natura” per tornare a “esperire la globalità della natura e attingere l’arte di vivere in armonia con essa”, che era giusto l’auspicio con cui si chiudeva Il Tao della fisica.