Zucche vuote. L’imbecillimento della mente americana, e non solo americana
Tratto da Linkiesta del 19 novembre 2025 La
sovrabbondanza di contenuti in pillole, l’infodump permanente dei social e la
proliferazione di riassuntini riducono la qualità del ragionamento. In un mondo
in cui meme, algoritmi e politica premiano la semplificazione estrema, la
conoscenza e la competenza scivolano in fondo alle nostre priorità Per tutto il
secolo scorso, l’Occidente ha vissuto nel terrore che ogni nuova invenzione
potesse rincretinire le persone. Dalle lampadine al rock and roll, dai fumetti
ai videogiochi, tutto era potenzialmente causa di instupidimento. Eppure, per
decenni, i risultati dei test d’intelligenza hanno raccontato un’altra storia:
i punteggi medi del quoziente intellettivo negli Stati Uniti, e in generale nei
Paesi sviluppati, aumentava di circa tre punti ogni decennio. È il cosiddetto
Effetto Flynn, una specie di aggiornamento software collettivo dovuto al
progresso scientifico, tecnologico, sociale: migliore istruzione, lavori
concettuali, mass media che spingevano al pensiero astratto. In buona sostanza,
diventavamo tutti più abili a classificare, generalizzare, comprendere e
risolvere problemi. I dati sembravano suggerire che niente, nemmeno
l’invenzione dei chatbot per i compiti o l’inarrestabile ascesa dei podcast,
avrebbe potuto fermare questa crescita cognitiva. Ma la storia riserva sempre
delle sorprese. Oggi il costante
e graduale upgrade del cervello sembra essersi inceppato. Nel 2023, la
ricercatrice Elizabeth Dworak ha deciso di controllare l’andamento dei test del
quoziente intellettivo negli anni precedenti. Si aspettava l’ennesima conferma
del copione. E invece: «Mi sentivo come in “Don’t Look Up”», ha detto. Il suo
database, fatto di 394.378 test tra il 2006 e il 2018, mostra una discesa netta
in tre categorie cruciali: i test psicometrici che misurano il pensiero
logico-deduttivo, il riconoscimento di pattern in serie di lettere e numeri, e
la risoluzione dei problemi attraverso il linguaggio. «Il mondo è più
stupido, e ce ne siamo accorti tutti», scrive Lane Brown sul New York Magazine, in una
cover story molto ironica, ma dal retrogusto amaro. In copertina, sul nuovo
numero della rivista, c’è una figura stilizzata, testa aperta e completamente
vuota, come un salvadanaio rotto o un vaso mentale dimenticato al sole. In
rosso, enorme e ingombrante, la scritta “The Stupiding of the American Mind”,
citazione parodica del saggio “The Closing of the American Mind” di Allan
Bloom. L’articolo si intitola “A Theory of Dumb” e lascia poco spazio
all’immaginazione. Forse non stiamo diventando solo più superficiali, più
distratti, più irritabili. Forse stiamo proprio diventando più stupidi – il
perimetro di analisi in questo caso sono gli Stati Uniti, ma il discorso si può
ampliare almeno all’Occidente e a tutti i Paesi sviluppati. Brown prova a
dare voce a un’ansia collettiva: quella sensazione strisciante che
l’imbecillimento sia inevitabile. Lo studio di Dworak è un punto di partenza
inquietante, ma è necessario fare un paio di distinguo. In primo luogo, i
punteggi non sono diminuiti in tutte le categorie. In secondo luogo, i suoi
dati provenivano da test online volontari, quindi, dice, «qualcuno potrebbe
averlo fatto in autobus». Terzo e più importante, sottolinea Dworak, «non
possiamo scientificamente dire che le persone stanno diventando più stupide, ma
solo che i punteggi in queste categorie stanno diminuendo». Questo perché il QI
è sempre stato un indicatore approssimativo dell’intelligenza, si potrebbe dire
che è solo un riflesso di determinate abitudini mentali che vengono premiate o
scoraggiate dalla società. Per questo i parametri vengono aggiornati e
normalizzati ogni dieci anni circa e il suo significato è da sempre oggetto di
dibattito tra gli statistici. Però qualcosa
c’è. Ad esempio negli Stati Uniti gli American College Testing – Act, un esame
di ammissione universitaria richiesto da molte università – sono ai minimi da
trent’anni, gli adolescenti sono incapaci di recuperare le competenze
pre-pandemiche, e un quarto degli adulti americani ha capacità di lettura e
comprensione del testo minime. E gli esempi potrebbero proseguire più o meno
all’infinito. Un recente sondaggio mostra come il numero di americani che
leggono per piacere sia diminuito del quaranta per cento negli ultimi due
decenni. Colpa, secondo
il New York Magazine, di una cultura che premia routine, intrattenimento e
abitudini che chiedono sempre meno ai nostri cervelli. «Forse non è tanto che
il nostro software cognitivo sia stato declassato, quanto che abbiamo
disattivato i nostri firewall», si legge nella cover story. «Tutti nel mondo
sviluppato ora hanno accesso Airdrop alla mente di tutti gli altri. Se stiamo
diventando più stupidi, è probabile che ci siamo resi così a vicenda». La dimensione
sociale e l’interazione con altre persone sono un aspetto chiave di questa
storia. La specie umana ha sviluppato cervelli ottimizzati per gruppi di 20-50
individui. Ora ognuno di noi è esposto alle idee, alle emozioni e alle idiozie
di centinaia di sconosciuti in ogni momento. Non molto tempo
fa, gli idioti tra noi erano liberi di pensare in silenzio, senza un modo
semplice per condividerli. Nel peggiore dei casi, una persona si limitava a
mettersi in imbarazzo di fronte alla propria famiglia o nello spogliatoio del
calcetto o al bar. Le cattive idee restavano incagliate nella loro stessa
palude. Poi sono
arrivati internet, i social e i telefoni sempre connessi. Questi non sono
direttamente la causa dell’imbecillimento globale. Ma se ogni essere umano –
più o meno – ha a disposizione l’equivalente di una propria tipografia,
stazione radio e rete televisiva allora gli effetti possono essere nefasti.
«Ora, anche chi non ha nulla di utile da dire può dire al mondo intero
esattamente, o più spesso vagamente, cosa pensa», scrive Lane Brown nel suo
articolo. «Per essere chiari, questa non è nostalgia di un’epoca in cui si
sentivano meno voci. L’ampliamento del dialogo è stato, per certi versi,
positivo: più prospettive, più responsabilità, ecc. Ma il rovescio della medaglia
è che possiamo vedere l’intera distribuzione del pensiero umano in un unico
scorrimento infinito, e a quanto pare la mediana è più bassa di quanto avremmo
mai potuto immaginare. In teoria, questa è la democratizzazione
dell’espressione. In pratica, sembra una lobotomia collettiva e molto
partecipata». La situazione si
complica quando Brown introduce la parabola dell’informazione compressa: per
sopravvivere nell’ecosistema digitale, ogni contenuto deve essere ridotto,
distillato, semplificato. C’è sempre un podcaster che riassume l’aneddoto più
interessante di un’intervista, un tiktoker che spiega il Medio Oriente in
trenta secondi secondi, un tweet con lo screenshot della sintesi minima di un
articolo lungo. Ogni passaggio distorce il significato originale, e banalizza
il pensiero. Per paradosso – ma era inevitabile – è successo anche con lo
stesso studio di Dworak: era stata molto cauta nel diffondere i risultati, poi
un sito ne ha ripreso il tema centrale con un titolo clickbait e Tucker Carlson
in tv ne ha stravolto ulteriormente il senso. La prima conseguenza è che Dworak
si è trovata a difendersi da migliaia di critiche sui social. I media
protagonisti del secolo scorso – libri, film, tv, giornali – richiedevano la
nostra attenzione e la nostra immaginazione, mostravano il mondo nella sua
enorme complessità e richiedevano una certa dose di sforzo intellettuale.
Mentre i media di oggi fanno quasi l’opposto: rimpiccioliscono la nostra
visione del mondo, insistono sull’idea che tutto sia più semplice di quanto non
sia in realtà. A giugno, il
Reuters Institute ha scritto che i social media sono diventati la principale
fonte di informazione degli americani, superando per la prima volta i canali
tradizionali, mentre TikTok è una fonte di notizie affidabile per il
diciassette per cento delle persone in tutto il mondo. Come se non bastasse,
spesso sono le istituzioni a inquinare il dibattito: l’attuale presidente degli
Stati Uniti, Donald Trump, ne è una dimostrazione. A perderci siamo
tutti noi. «È difficile sfuggire a questo ciclo», scrive ancora il New York
Magazine. «Anche i media tradizionali si sono uniti alla corsa per comprimere e
rielaborare. C’è meno informazione e più commenti sull’informazione, e a volte
solo commenti su quei commenti». È il decadimento dei giornali di cui, su
queste pagine, ha parlatopiù e piùvolte Guia
Soncini. All’equazione
bisognerebbe aggiungere anche l’impatto dei moderni modelli linguistici (Llm),
cioè l’intelligenza artificiale come ChatGpt. Questa si nutre di contenuti che
trova in rete, e se questi sono sempre più banali e piatti allora i modelli
linguistici produrranno risposte sempre meno profonde e complesse. È un
capitolo enorme e ha effetti potenzialmente ancora peggiori sulla
decomposizione cerebrale di cui stiamo parlando. Per questo,
forse, l’unico approccio possibile è quello adottato da Lane Brown in coda al
suo articolo. Una specie di resa all’imbecillimento collettivo. Una nuova
consapevolezza. Non è solo che stiamo diventando più sciocchi, è che stiamo
imparando a vivere in un ecosistema che non richiede, e forse non tollera,
altro.