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Saggi di naturali esperienze.


Un leggendario racconto storico narra che durante l’assedio delle truppe romane guidate da Marco Claudio Marcello all’odierna Siracusa, nel 212 a.C., Archimede abbia usato contro la flotta di Roma un sistema di specchi che, concentrando la radiazione solare in un sol punto, ne procurasse la combustione.
Sulla veridicità dell’episodio esistono molti dubbi, ma ciò nonostante, numerosi sono stati i tentativi, anche in epoca recente, di riproduzione degli effetti degli specchi ustori per dimostrarne la fondatezza. I tentativi fino ad oggi realizzati non hanno dato risultati incontrovertibilmente positivi. Ma il punto non è arricchire di un aneddoto la già leggendaria vita di Archimede, che trovò la morte proprio nell’assedio di Siracusa, bensì fornire un piccolo spunto su uno dei problemi fondamentali della scienza: la sua diffusione, il suo racconto. Perché un’esperienza o una teoria possa essere accettata dalla comunità scientifica, essa deve essere ripetibile e falsificabile e perché ciò possa avvenire – da parte di altri scienziati – l’esperienza e/o la teoria devono trovare una compiuta descrizione, possibilmente attraverso un sistema simbolico ed una sintassi, condivisi.
Il problema è piuttosto antico, come testimonia il fatto che anche l’Accademia del Cimento (prima associazione scientifica a utilizzare il metodo sperimentale galileiano in Europa, fondata a Firenze nel 1657), attraverso i resoconti del suo segretario Lorenzo Magalotti, si ponesse il problema di documentare con rigore le esperienze e le strumentazioni utilizzate nel proprio lavoro scientifico, svolto prevalentemente nel campo della fisica sperimentale. Questi resoconti di Lorenzo Magalotti, dal titolo Saggi di naturali esperienze (Sellerio, Palermo 2001) sono così finiti tra i miei libri randagi, in un momento della vita in cui ero particolarmente curioso delle scoperte della fisica e della loro narrazione. E non a caso ho scelto, per introdurre questo volumetto di non facile lettura, la leggenda degli specchi ustori di Archimede, perché – tra le tante esperienze descritte, una in particolare me ne richiamò la memoria per contrasto. Si tratta di un’esperienza intorno al ghiaccio naturale:
«Ci venne voglia di sperimentare se uno specchio concavo esposto ad una massa di 500 libbre di ghiaccio facesse alcun sensibil ripercuotimento di freddo in un gelosissimo termometro di 400 gradi, collocato nel fuoco della sua sfera. La verità è ch’ei cominciò subito a discendere, ma per la vicinanza del ghiaccio rimaneva dubbio qual freddo maggiormente lo raffreddasse, o il diretto o il riflesso. Questo si tolse via col coprir lo specchio, e (qualunque ne fosse la cagione) certa cosa è che l’acquarzente cominciò a risalire immediatamente. Con tutto ciò non ardiremmo affermar positivamente che ciò non potesse allora derivare da altro che dalla mancanza del riverbero dello specchio, non avendone noi prese tutte quelle riprove che sarebbe bisognato per ben assicurarsi dell’esperienza».
Un bell’esempio di prudenza nella ricerca e divulgazione scientifica.


Ivo Grillo