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La scuola delle mortelle

Una contadina di Miano partorisce una mortella, un principe se ne innamora e questa diventa una bellissima fata; lui va lontano e la lascia nella mortella a cui attacca un campanello. Entrano nella camera del principe certe femmine cattive e gelose e, quando toccano la mortella, esce fuori la fata: l'ammazzano. Il principe torna, trova questa rovina, vuole morire di dolore; ma, ritrovata per strana vicenda la fata, fa morire le cortigiane e si prende la fata come moglie.

L'Istituto Fuà Fusinato  era in un edificio alto, grigio, somigliante ad una chiesa. La chiesa vera era adiacente, grigia anch'essa, preceduta da un modesto piazzale.

Nell'androne c'era una campanella di ferro alla parete. La suonava alla mattina il custode con ritmo frenetico. I gradini interminabili impegnavano non poco ogni giorno tanti bambini, anzi bambine, perché i maschi erano in un altro plesso non lontano.

L'ascesa faticosa nell'edificio in parte fatiscente conduceva ad aule remote, a terrazzi insospettabili, a finestre con grate, a corridoi lunghissimi e misteriosi. Nella parte interna, molti locali affacciavano su un vecchio giardino incolto, dal cui groviglio inestricabile si alzavano alberi dai tronchi esili e pallidi.

Quell'edificio un tempo aveva ospitato il Conservatorio di Matrone e Vergini nobili, che dal 1870 con Regio decreto era stato riconosciuto Ente Morale, con la denominazione di Real Istituto di Mondragone alle dipendenze del Ministero per la Pubblica Istruzione. Alla dicitura vergini e matrone  era stata sostituita quella di orfane e vedove di civile condizione, e l'Istituto era passato dalla fisionomia di ritiro di tipo conventuale a quella di collegio femminile con finalità educative e formative, destinato alle figlie del popolo. Nel 1915 era stato convitto per le orfane, poi scuola popolare operaia, asilo per i figli dei soldati chiamati al fronte. Nel 1942 l'Istituto si fuse con il Convento femminile di lavoro  del Carminiello  e, restaurato nel 1998, ospita attualmente il Museo del tessile e dell'abbigliamento per il Polo regionale della moda femminile. 

Il luogo nel passato era stato celebrato, ambito e conteso per la sua bellezza e per la salubrità dell'aria. Il poggio delle mortelle, a sud-ovest della collina di San Martino, si apriva sul mare in direzione di Posillipo. Generalmente, con una sola eccezione, si considera che il suo nome, sulla lezione del Celano, deriva dal fatto che vi erano boschi di mirti che noi chiamiamo mortelle, e le frondi di questi servivano per accomodare i cuoi. Nel Settecento piazzetta Mondragone corrispondeva alla piazza delle Mortelle. Dal Cinquecento in poi la zona era stata caratterizzata dalla presenza di conventi e ville di delizie. Di tutto il passato splendore, di tanta superba bellezza di quiete vedute e profumi di orti e giardini ero certo ignara bambina. Non potevo sapere che ogni mattina mi arrampicavo sul poggio celebrato da pittori e letterati. La mia casa materna si trovava e si trova tra Vico Santa Teresella degli Spagnoli e Giovanni Nicotera, sospesa tra il Poggio e Monte di Dio come una corda. Secentesca, aveva soffitti altissimi dalle travi incartate, dipinte, poi abbassati con delle tele, e prima dei lavori successivi al terremoto del 1980 recava ancora i segni della precedente struttura. Nel palazzo il pozzo, poi riempito e murato, con un sistema di carrucole aveva servito acqua a tutti i piani, le ampie cantine dovevano aver consentito svariati depositi, il portone di legno originale era chiodato...Il nonno raccontava di caminetti, tombe segrete e di un piccolo spirito assai impertinente, il munaciello  che, ne ero sicura, mi rubava e sporcava la gomma da cancellare e poteva rimanere acquattato per ore negli angoli degli altissimi soffitti ad osservare quello che facevamo. 

A scuola, in una delle ultime aule i banchi di legno con la pedana avevano il piano inclinato e scanalato, con i fori per gli antichi calamai. Ne restava uno solo, di vetro, sbrecciato, che veniva conteso dalle scolare e finiva per toccare a quella che arrivava per prima. In assenza della penna con il pennino, si poteva fingere di intingere la comune bic nell'inchiostro che non c'era, e tracciare elegantissime lettere sul quaderno nuovo. 

I grembiuli neri avevano tutti un colletto bianco. Il colletto faceva la differenza. Quelli con il merletto erano naturalmente i più ambiti.

Bisognava incartare i libri perché non si sciupassero. Le illustrazioni erano così rare che la pagina che ne portava una diventava indimenticabile, una festa, il circo.  La carta geografica alla parete a guardarla era una porta colorata che si poteva varcare strizzando gli occhi. I quaderni avevano la copertina nera ed il bordo rosso; sulla copertina applicavo con la colla (vasetto e pennello) una bella etichetta bianca per il nome e la classe; le pagine erano gialline, consistenti. L'astuccio delle matite era di legno, con l'apertura scorrevole. I pastelli Giotto di legno lisci e tondi scorrevano sul foglio rugoso da disegno e alloggiavano voluttuosamente tra le dita. La cartella era di pesante cuoio marrone. La preparavo la sera precedente e pretendevo di riporla ai piedi del letto, cosa che divertiva e forse inorgogliva mia madre. La prima educazione mi era stata impartita dalla nonna, a sua volta educata in casa, in tempi in cui alla donna non era necessariamente dovuta l'istruzione, da precettori privati. 

Al pomeriggio la scuola di cucito e di ricamo, che bucava teneri polpastrelli e macchiava di qualche gocciolina rossa le vecchie federe, e i racconti delle più grandi, che popolavano il giardino abbandonato di mostri e pipistrelli.

Strisciavano in fondo a quel giardino piante arbustive, con rami rossicci  o grigiastri, foglie ovali e puntute di un bel verde scuro. Qualche fiore solitario le rallegrava verso la fine dell'anno scolastico, con una specie di diadema disposto a raggiera sulle corolle bianche. Da quelle piante una volta era sbucata una forma femminile, soffice come una nuvola, che poi si era allungata verso la cima degli alberelli ed era svanita nel vento. Alla fine della lezione, quando la luce scemava, tutte le scolare rivolgevano uno sguardo timoroso, i nasini schiacciati contro i vetri dei finestroni, alla vegetazione sottostante, e sarebbe bastata una esclamazione a convincere tutte che il fantasma della fata era davvero lì, imprigionato tra le foglie.

La maestra era rotonda e sorridente, implacabile sull'ortografia, inarrestabile sulla poesia a memoria, armata di gesso e di bacchetta, penna rossa e registro sottile. 

Le  punizioni erano all'ordine del giorno, tra bacchettate e umiliazioni, ma a me, bambina di famiglia borghese, venivano risparmiate, né le madri dei castigati sembravano darsene pensiero.

Tante volte ho rivisto la Maestra accarezzare le bambine, ma non tutte: la sua mano evitava qualche testa, e qualche nuvoletta in movimento tra capelli non proprio puliti. Allora però mi chiedevo perché non amasse ognuna allo stesso modo...

I capelli di Nunzia ad esempio erano bellissimi, portati in due trecce nere e spesse, strette strette, mentre Angelica illuminava con discorsi da grande qualche spazio vuoto. Il suo profilo aspettava il mio sguardo quando mi giravo verso di lei. Sapeva sempre cosa scrivere. Sulle spalle le scendevano riccioli castani.

Il ricordo delle compagne si lega facilmente a quello della ricreazione, dei giochi, di qualche festicciola. Le compagne di condizione economica disagiata ricevevano per colazione un panino, un formaggino ed un quadretto di marmellata di mele cotogne, solida e profumata. A volte la mangiavo anch'io. Anche se non ne avevo bisogno, per via del cestino di cui quotidianamente mi riforniva mia madre. Mi sembrava però che quella colazione fosse più buona, e senza comprendere la distanza che mi separava da molte di loro finivo col ritenerle fortunate, e le guardavo con ammirazione. Anche perché loro, all'uscita da scuola, andavano via da sole ed io, invece, ero prelevata con sorridente puntualità da mia madre. Tra le limitazioni di cui soffrivo, c'era anche quella di non poter scendere a giocare, in strada, il gioco della palla lanciata contro il muro, in gare estenuanti in cui la cantilena dei numeri accompagnava i tiri,  di non potermi recare liberamente a casa di una compagna qualsiasi, ma di frequentarne solo alcune, selezionate in base all'abitazione ed al linguaggio. 

Trovavo infine estremamente interessanti quelle che parlavano di argomenti a me sconosciuti, di vacanze misere ma a mio parere bellissime, consistenti nell'andare a prendere il sole sugli scogli, a via Caracciolo, e nel fare il bagno nello spazio di mare antistante, che io osservavo da lontano e che mi pareva irraggiungibile.

Ci recavamo talvolta, al ritorno dalle feste di Carnevale, nella  chiesa  barocca di San Carlo alle Mortelle, secentesca, che doveva il suo nome ad un boschetto di alberi di mirto presente in quel luogo fino a tutto il Cinquecento. La sua costruzione, passata attraverso la peste ed un terremoto, era proseguita fino al Settecento. La facciata era elegante, tra nicchie e capitelli, l'interno mosso e illuminato dai marmi policromi.  Mi dispiacque scoprire che quell'edificio ospitale fosse stato eretto su un suolo tufaceo assai precario, e diciamo pure sul vuoto, quando, nel settembre del 2009, una voragine interessò  Chiesa e strada, inghiottì il bel pavimento, segnò di crepe come di rughe maligne la grande facciata.

Alla fine del quinto anno (per me il quarto, perché avevo iniziato la frequenza dalla seconda classe), una recita in teatro (quale? vorrei poterlo chiedere a mia madre) concluse in maniera mirabolante il percorso scolastico. Cantavo Va, pensiero  in un coro alquanto improvvisato, con grembiule fiocco e coccarda tricolore. Credo che non fossi troppo intonata, ma nessuno se ne accorse. Il vero congedo non coincise con quell'ultimo giorno di scuola, ma emerse lentamente nel corso dell'estate, e rese inquieti i pomeriggi estivi. Pezzi ancora seducenti della mia infanzia finivano sotto il parquet a spina di pesce che scendeva a coprire i vecchi pavimenti maiolicati, e mi tornava in mente il verso di una qualche poesia,  che parlava degli odori e dei sapori, sa di gesso la scuola. A tradimento mi prese un rimpianto che non si addolciva al pensiero della nuova scuola, ma anche di questo nessuno si accorse.

 

Maria Colaizzo

Tratto da “La Scuola Marginale” ed. Millerighe - 2015