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Celeste di Porto

Celeste di Porto era una ragazza molto bella, anzi di una bellezza straordinaria, nata e cresciuta a Roma nel ghetto ebraico. Fin da piccola aveva lavorato, all’interno del ghetto, presso famiglie ebree, accettando ogni tipo di occupazione, anche la più umile e faticosa, per far fronte alla miseria. Non era una ragazza colta, non aveva potuto studiare, ma incoraggiata da un’indole forte e determinata sperava nel futuro al di là di ogni realistica considerazione. Divenne cameriera in un ristorante, frequentato dai fascisti, che la chiamavano “Stella” e la corteggiavano. Promessa in moglie ad un ebreo preferì una relazione con un militante fascista, e fu circondata da quel momento da critiche e pettegolezzi, che la ferirono e la allontanarono dalla comunità. Una ragazza spregiudicata, che non accettava un matrimonio combinato, e vedeva nelle relazioni una via di fuga dalla miseria non era compresa, e quanto i suoi correligionari la disprezzavano, tanto lei li riteneva un ostacolo alla sua libertà, che poi coincideva con la sua realizzazione. Stella subiva, ma pianificava il riscatto. Preferiva la frequentazione dei militi e poi, purtroppo, dei nazisti a partire dal 1943, che si servivano di ogni mezzo per svuotare il ghetto e “ripulire” Roma dagli ebrei. Ignorando volutamente le vessazioni che i tedeschi infliggevano ai suoi, Celeste ne cercava la protezione con insistenza. Quando i nazisti misero una taglia di 5.000 lire su ogni ebreo consegnato, Celeste divenne una collaboratrice efficiente, una giovane spia cinica e spietata. Le donne valevano di meno , solo 3.000 lire, e i bambini ancor di meno, 1.500. Dopo l’attentato di Via Rasella consegnò ai tedeschi ventisei ebrei, segnalando i loro nascondigli. A Roma operavano milizie di civili, che supportavano l’azione dei fascisti. Forse uno di questi privati delatori, tale Vincenzo Antonelli, un uomo cinico e spietato, l’aveva avviata al ruolo di delatrice, divenendone l’amante.Tra questi c’era anche suo fratello, che lei riuscì a salvare offrendo in cambio un conoscente, il pugile Bucefalo. Prima di essere condotto alle Fosse Ardeatine, il pugile sulla parete della cella che occupava a Regina Coeli incise questa scritta : "Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si nun arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste. Arivendicatemi". Eppure Celeste proteggeva le amiche d’infanzia e i familiari, avvisandoli delle retate. Poi Roma fu occupata dalle truppe anglo-americane, e Celeste fuggì, andò a Napoli. Prese il nome di Stella Martinelli, divenne prostituta in una casa di appuntamenti. Tra i clienti del bordello militari e privati cittadini cercò di sopravvivere. Poi, due ebrei la riconobbero: la sua bellezza non passava inosservata. Gli alleati la salvarono dal linciaggio della folla. Fuggì di nuovo, a Perugia, in un convento, conobbe un uomo, lo amò.Arrivarono i processi per crimini di guerra, il 5 marzo del 1947. Fu condannata a dodici anni di carcere. Ne avrebbe scontati sette, alle Mantellate, per effetto di una amnistia. Dopo un momento di crisi, l’annuncio di prendere i voti, il battesimo. Tornò a Roma e rischiò di nuovo il linciaggio, riconosciuta in un ristorante. Allora andò a Trento, a Milano, tornò a Roma per morire.  Celeste, nata nel 1925, morì nel 1981, a 56 anni.
La storia -e le immagini- di Celeste di Porto sono facilmente reperibili su internet, per dare un volto a persone e luoghi di una storia non abbastanza distante da noi. In Celeste era scattato il desiderio di identificarsi con il suo aguzzino, di stare dalla sua parte, anche aiutandolo, pur di conquistarsi spregiudicatamente la propria autonomia. Oppure era una forma di autoprotezione in una situazione insostenibile. Anche nei campi di concentramento capitava che dei prigionieri si identificassero con i mostri che li vessavano e li torturavano…e forsesviluppavano una aggressività che non potevano scaricare su altri, tranne che sui propri simili. Celeste era di una bellezza per così dire colpevole, di una allegria e di una energia ingombranti per una comunità rigidamente vincolata alla tradizione; il suo desiderio di vivere ed autodeterminarsi poneva problemi scomodi, tanto che dopo il processo risultò più semplice cancellarne la memoria. Una donna anticonformista, che tragicamente aveva scelto, più o meno consapevolmente, la parte sbagliata della storia, divenne nell’immaginario collettivo la “Pantera Nera” senza nulla concedere all’accertamento approfondito ed inequivocabile delle sue responsabilità.

Maria Colaizzo