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Antigone le forme del potere e gli abbandonati da Dio e dagli uomini intorno al “Contro Antigone” di Eva Cantarella (seconda parte)

 
di Margherita Losacco
tratto da Le Parole e Le Cose
 
Di seguito, Eva Cantarella ricostruisce i profili dei personaggi della tragedia, ripercorrendone il testo. Anzitutto Antigone, nel suo legame con Polinice, con Ismene, con Emone, e con la polis e le sue leggi. Poi Creonte, che Cantarella rilegge in quanto uomo di governo, non necessariamente tiranno, a partire dalle sue dichiarazioni programmatiche, dal vero e proprio discorso politico che inizia al v. 182, nel quale spiega i principi di giustizia ai quali si atterrà: la prevalenza delle ragioni della polis sui legami familiari; la necessità di essere giusti nel privato prima ancora che nella cosa pubblica. Da questo discorso programmatico, scrive Cantarella, Creonte emerge come «buon governante»[19], a dispetto della sua inevitabile, connaturata misoginia, che lo rende l’idealtipo del maschio greco nel rapporto fra i generi. E ancora Emone, eroe romantico avanti lettera; Ismene, che Cantarella, contro una intera e vasta tradizione vulgata, rilegge non come doppio negativo di Antigone, incapace di essere all’altezza della sorella, ma come esempio di amore fraterno, intelligenza, equilibrio, di rispetto del bene comune: dalle parole di Ismene, quando dichiara di non poter agire contro la polis, contro la città (vv. 78-79), traspare il senso politico, civico della sua figura.
 
Il capitolo IV, Sofocle e Atene, è forse il capitolo centrale del libro, il passaggio che dà senso all’intera riflessione Contro Antigone. In esso, Eva Cantarella ricostruisce la figura, il profilo politico di Sofocle – che non fu un tragediografo di mestiere, nauralmente, ma fu uomo politico, stratego con Pericle e dopo la morte di Pericle. Rivestì cariche politiche del massimo rilievo per tutto il corso della sua vita, verosimilmente da posizioni moderatamente conservatrici all’interno dell’entourage pericleo, o dentro la sua sfera di influenza. E ben dopo la morte di Pericle, 84enne, fu fra i probuli che instaurarono l’oligarchia dei Quattrocento. Nel 458, con l’Orestea – unica trilogia superstite – Eschilo mette in scena la nascita dell’Areopago, primo tribunale ateniese: giudici imparziali avrebbero giudicato i fatti di sangue, e posto un argine alla cultura della vendetta individuale e particolare. Nel 442, con l’Antigone, Sofocle oppone all’ordine delle leggi la scelta individualista e antipolitica di Antigone: forse a significare agli Ateniesi «i rischi – scrive Cantarella – insiti nell’anteporre gli obiettivi individuali a quelli della polis»[20]. L’egoismo sociale, appunto.
 
Le tragedie greche consentono livelli plurimi di lettura e di interpretazione: e questa lettura di Eva Cantarella (nel cap. IV in particolare) arricchisce la riflessione dei moderni sull’Antigone. Anzitutto perché ne inscrive il significato non dentro una astratta opposizione ideale, ma dentro la politicità intrinseca della tragedia greca, senza la quale ogni interpretazione del teatro greco antico rischia di risultare pericolosamente monca. E mi permetto qui di aggiungere un dettaglio. Nell’epitafio di Pericle per i caduti nei primi anni della guerra del Peloponneso (430), che possediamo nella ricostruzione di Tucidide (II 34-47), Pericle ricorda ai cittadini che Atene, «culla della Grecia», si fonda sul rispetto delle leggi: scritte e non scritte. È un passaggio capitale (II 37, 3), da leggere in parallelo con l’ Antigone (e con l’Aiace):
 
nella vita pubblica il timore ci impone di evitare col massimo rigore di agire illegalmente, piuttosto che in ubbidienza ai magistrati in carica e alle leggi; soprattutto alle leggi disposte in favore delle vittime di un’ingiustizia e a quelle che, anche se non sono scritte, per comune consenso minacciano l’infamia[21].
 
E qui, nella sintonia fra il Pericle tucidideo (l’unico che abbiamo) e il testo dell’Antigone, si ricostruisce bene come il teatro di Sofocle sia, come ha scritto Luciano Canfora, «un altro dei tramiti attraverso i quali i valori maturati nel livello più alto, sia pure attraverso quei colossali burattini che sono i personaggi del mito, vengono trasmessi alla comunità: è uno dei canali dell’educazione politica dell’Atene periclea»[22]. Nei tormentati anni Quaranta del V secolo, contenuti e valori della democrazia ateniese – la riflessione sulle leggi e sulla polis, sulla forza dell’uomo piena di risorse e di rischi, del suo pensiero e della sua energia costruttrice e creatrice, dell’uomo che ha trovato scampo a malattie immedicabili, e solo viene sconfitto dalla morte – vengono trasmessi agli Ateniesi attraverso il teatro, luogo della formazione delle coscienze nella città antica: come nel celebre primo stasimo dell’Antigone. Ed è dunque tanto più plausibile che l’Antigone sia il luogo di una riflessione, anche aporetica, sul senso e sul significato del rispetto delle leggi, le leggi scritte e le leggi non scritte.
 
V-VI
 
Dal personaggio al mito e Il mito oggi sono gli ultimi due capitoli del libro di Eva Cantarella. E alle moderne ricezioni e reincarnazioni del mito di Antigone vorrei aggiungerne una non individuale, ma collettiva, che è raccontata nel libro dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo Naufraghi senza volto[23]. Il suo laboratorio, LABANOF, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense, a partire dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (368 morti accertati, 20 dispersi, tutti eritrei o etiopi), lavora per dare un nome e un volto ai morti senza nome e senza volto dei naufragi del Mediterraneo. Nel leggere il libro di Cristina Cattaneo, tornano alla mente la richiesta di Priamo ad Achille, nell’Iliade (XXIV 468-620), per ottenere la restituzione del corpo di Ettore; la parvenza di sepoltura data a Polinice da Antigone; il verso dell’Elena di Euripide, quando, nell’incastro di equivoci e finzioni di questa tragedia, Elena chiede a Teoclimeno di poter seppellire il marito morto (o che, meglio, nella singolare tragedia costituita dall’Elena si finge morto: vv. 1239-1243):
 
Elena:. Il mio povero marito, lo voglio seppellire.
Teoclimeno [re dell’Egitto]: Ma come? Vuoi seppellire uno che non c’è? O vuoi destinare un sarcofago a un’ombra?
Elena: Tra i Greci, c’è un’abitudine (νόμος) se uno è scomparso in mare…
Teoclimeno: Quale?
Elena: Di seppellirli in sudari di vesti vuote[24].
Elena chiede di dare sepoltura a un telo, a una veste vuota di corpo: si seppellisce perfino il corpo che non c’è.
 
Per i migranti, osserva Cristina Cattaneo, in un mondo assai più complesso dell’Atene del V secolo, poter seppellire un corpo è necessario, si deve «non solo per rispetto, per tutelare la loro dignità e per salvaguardare la salute (non solo mentale) di quelli che si lasciano dietro»[25]. Ma anche per permettere – a livello penale, civile, amministrativo – ai vivi di continuare a vivere e a esercitare i propri diritti di cittadini.
 
L’Antigone è forse il testo del corpus letterario greco superstite che ha conosciuto la fortuna più ampia, i riusi più frequenti e più vasti, la ricezione più ininterrotta e vivace dal Romanticismo in poi. È un testo intorno al quale è difficile dire, anche solo pensare qualcosa di nuovo (che è poi, o dovrebbe essere, il senso ultimo della ricerca scientifica). Eppure, a questo testo quant’altri mai letto, commentato, riusato Eva Cantarella restituisce, se possibile, complessità e spessore nuovi: sollecita a riflettere su questioni eterne; getta luce – come in una moderna scenografia teatrale – su figure finora marginali e comprimarie (come Emone, come Ismene). E legge in una luce nuova e sorprendente Creonte, permettendoci in tal modo di ripensare il potere e le sue infinite, mutevoli, difficili forme e conseguenze.
 
Queste riflessioni hanno avuto origine nell’incontro di studi sul saggio Contro Antigone di Eva Cantarella che ha avuto luogo presso l’Ateneo Veneto (Venezia) il 20 marzo 2025, nell’ambito delle Letture Cafoscarine di Diritto e Società.

La campionessa di cui non sentirete parlare oggi

di Michele Pelacci
tratto da Ultimo Uomo del 14 luglio 2025
 
Durante l’ultimo arrivo in salita del Giro d’Italia femminile 2025, un drone riprende un ragazzino che corre. Non è facilissimo capire cosa stia succedendo, per chi non ha mai visto una gara di ciclismo: ci sono tutto sommato poche persone, una di queste si sta dannando l’anima spingendo sui pedali, e un’altra la sta incitando a gran voce urlando: «Vai zia!».
È un video straniante, come solo certi arrivi in montagna sanno essere. Il Monte Nerone, sull’Appennino umbro-marchigiano, è una salita quasi trascurata dal ciclismo professionistico: l’unico precedente passaggio quassù fu durante il Giro d’Italia maschile del 2009, l’ultima edizione senza le Alpi nell’ultima settimana.
L’ultimo tornante della salita è una lunga curva verso sinistra. Sembra infinito per la ciclista, ma il ragazzino vola correndo sull’erba incitando la zia. Sua zia è la campionessa in carica e incredibilmente sta ribaltando la corsa: un giorno dopo avremo la certezza che una ciclista italiana, Elisa Longo Borghini, ha vinto il suo secondo Giro d’Italia consecutivo. E se pensate che sia cosa di poco conto, sappiate che l’ultimo italiano ad aver vinto il Giro maschile per due volte consecutive fu Franco Balmamion tra 1962 e 1963.
In un momento storico in cui il ciclismo italiano maschile fatica a produrre corridori da corse a tappe, e campioni in generale, tra le donne si parla sempre troppo poco di una 33enne ossolana dalle qualità fuori scala. Se Longo Borghini ha nuovamente vinto la seconda corsa a tappe più importante del panorama ciclistico femminile dopo il Tour de France Femmes è soprattutto grazie ad una capacità sorprendente di saper pedalare forte ovunque, su qualunque terreno e in ogni circostanza.
C’è una statistica che spiega bene la poliedricità di Longo Borghini. Nelle ultime undici tappe del Giro d’Italia Women (questo è il nome ufficiale della corsa, ci torniamo), le otto di quest’anno più le ultime tre dell’anno scorso, la ciclista di Ornavasso è sempre finita in top 10. Undici tappe di tutti i tipi: durissimi arrivi in salita, cronometro, tappe vallonate aperte a ogni tipo di soluzione, frazioni di media montagna. Ma anche tappe che dovevano essere volate e invece non lo sono state, oppure tappe che la squadra di Longo Borghini ha fatto in modo che non fossero volate. Nell’edizione appena conclusa non è così assurdo affermare che Longo Borghini non fosse la più forte né a cronometro (Reusser) né in salita (Gigante), eppure nessuna è riuscita a sfruttare come lei le pieghe di una corsa.
L’esempio perfetto è la settima tappa di quest’anno, quella con arrivo sul Monte Nerone, per l’appunto. Alla partenza da Fermignano, Longo Borghini deve recuperare 16 secondi in classifica generale a Marlen Reusser. Non sono tanti, ma la svizzera in Maglia Rosa si è dimostrata estremamente solida: sul muro di Monte Porzio, nella frazione precedente con arrivo a Terre Roveresche, è riuscita ad annullare un attacco di Longo Borghini con facilità.
La settima è una frazione molto dura, piena di su e giù al confine tra Marche e Umbria. Dopo quasi quattro ore di gara e oltre 120 chilometri, ciò che rimane del gruppo Maglia Rosa si lancia in discesa da Acquanera verso Piobbico. Le telecamere sulle motociclette faticano ad andare più forte delle atlete, ma una cosa la colgono subito: Silvia Persico sta scendendo a rotta di collo, e sulla sua ruota c’è la capitana Longo Borghini.
Persico è molto forte e, crossista qual è, guida divinamente la bicicletta. Mancano una manciata di chilometri all’attacco della salita di Monte Nerone, eppure la cinquantina di metri guadagnati suggeriscono alle due di proseguire nell’azione. Reusser mette le compagne di squadra a tirare, ma la Movistar non è uno squadrone e il gap aumenta.
È Scarponi con Nibali al Giro 2016 verso Sant’Anna di Vinadio, è Van Aert con Vingegaard a Hautacam 2022: Persico finisce per lanciare Longo Borghini verso la vetta. Quando finisce il suo lavoro (secondo i dati pubblicati da lei stessa su Strava, mai Persico aveva prodotto una potenza tale per 20 minuti), a Longo Borghini mancano dieci chilometri di salita. Nel momento più importante, la sei volte campionessa d’Italia su strada alza il proprio livello.
Il grande sforzo profuso nel falsopiano prima della salita e sulle prime rampe del Monte Nerone non permette a Longo Borghini di chiudere in crescendo. La seconda parte di salita è quella più dura (7,6 km all’8,2% medio) e chi riesce a fare la differenza è l’australiana Sarah Gigante, scalatrice pura che già aveva vinto qualche giorno prima a Pianezze. A Longo Borghini però interessa la Maglia Rosa, e quella sì che riesce a conquistarla. «Ho fatto casino, come sempre», scherza dopo la tappa. Quando le chiedono se ha mai pensato di poter fallire lungo la salita, Longo Borghini è serissima: «No. Oggi nella mia testa c’era solo… staccarle tutte, una per una».
Anche l’ultima tappa è molto dura, col circuito dei Mondiali di Imola 2020 e quattro passaggi sulle pendenze infide di Cima Gallisterna. In gruppo, però, le gambe di tutte sono troppo stanche per fare la differenza. Longo Borghini si difende bene e porta a casa la corsa, ma il vero capolavoro risale ad alcuni giorni prima, durante la Mirano-Monselice. Nemmeno 300 metri di dislivello su un percorso lungo 120 chilometri. Drittoni nella pianura veneta in una tappa di trasferimento: tante atlete hanno già la testa alle prossime tappe, non Longo Borghini.
Circa a metà frazione, per superare il piccolo centro abitato di Pontelongo, il gruppo si allunga in fila indiana a causa di alcune curve a gomito consecutive. Segue poi un tratto di strada completamente dritto di circa sette chilometri lungo il fiume Bacchiglione: Longo Borghini fiuta l’odore del sangue e si mette davanti a menare. C’è poco vento, ma il posizionamento in gruppo è fondamentale e alcune rivali in classifica generale, come Gigante, Niedermaier e Rooijakkers, rimangono sorprese. Al traguardo avranno quasi due minuti di ritardo.
Otto tappe, quelle di quest’anno, che Longo Borghini ha speso all’attacco e alla ricerca di colpi a sorpresa, sono l’esatto opposto della corsa che si è ritrovata a condurre dodici mesi fa al Giro d’Italia femminile. Nell’edizione 2024, infatti, Longo Borghini vince la crono d’apertura a Brescia e fin da subito deve difendere un vantaggio di circa mezzo minuto su Lotte Kopecky. Molto più scattista, la belga fa incetta di secondi bonus e si presenta alla tappa regina del Blockhaus con solo tre secondi di svantaggio. È una tappa sotto un caldo abruzzese infernale, al termine della quale, tirando fuori energie da chissà dove, Longo Borghini riesce a tenere la ruota di Kopecky.
Una volta in salita che va oltre il concetto di “resistere”.
Nella tappa finale all’Aquila, Longo Borghini ammaestra Kopecky su un percorso mosso e insidioso, e addirittura nel finale la attacca. La durezza mentale e la poliedricità di Longo Borghini spezzano uno dei più grandi talenti del ciclismo femminile degli ultimi vent’anni. Il lato autoironico e dialettale di Elisa non può che commentare: «Sono grama».
Già dopo la vittoria del suo secondo Giro delle Fiandre, nove anni dopo il primo, scrivevamo che Longo Borghini non è celebrata quanto meriterebbe, che "raramente viene citata tra gli eroi moderni dello sport italiano". Da quel giorno ha semplicemente continuato a vincere: classiche in Belgio e in Italia, corse a tappe, campionati nazionali. Ha cambiato squadra, dopo sei anni in quella che oggi si chiama Lidl-Trek. Ora corre per la UAE Team ADQ, di cui è la capitana indiscussa, e sotto la sua guida Persico si è ritrovata e la classe 2002 Eleonora Camilla Gasparrini sta crescendo alla grande.
Insomma, mai come quest’anno il Giro d’Italia femminile sarebbe dovuto essere una notizia grossa. Intanto perché, sottolinea il giornalista Simone Carpanini di bici.pro, che ha seguito la corsa in loco, "quest’anno le big c’erano quasi tutte. Mancavano Vollering, Niewiadoma e Balsamo, per il resto era presente il top del ciclismo femminile mondiale". E poi perché, racconta Stefano Zago, inviato al Giro femminile per Alvento, «da parte delle atlete e delle squadre c’è moltissima voglia di raccontarsi. Non manca certo la disponibilità loro, semplicemente tanti media scelgono, più o meno legittimamente, di raccontare altro». In questa edizione, per esempio, la vittoria di Jonathan Milan che ha interrotto il digiuno dei ciclisti italiani al Tour de France nella giornata del Monte Nerone. Oppure la vittoria di Jannik Sinner a Wimbledon nella giornata di Imola, quella che ha consacrato Longo Borghini come pluri-vincitrice della corsa.
«Eravamo pochi», prosegue Zago, uno dei pochissimi giornalisti che hanno seguito il Giro d’Italia Women 2025 nella sua interezza. «Mi ha colpito molto che Elisa Longo Borghini, venerdì scorso alla conferenza stampa pre-gara, ci abbia ringraziato perché eravamo tanti secondo lei. Ha detto qualcosa tipo: “Guardate che mi sono trovata a fare conferenze stampa con letteralmente due giornalisti”, eppure ti posso garantire che non eravamo tantissimi».
Se nel ciclismo maschile non si fa che parlare del dominio di Tadej Pogačar, con l’opinione diffusa che sia nocivo allo spettacolo e all’incertezza nei finali di corsa, nel ciclismo femminile è piuttosto evidente che di scontato non ci sia nulla, anzi. Da due edizioni il Giro femminile è una corsa aperta, avvincente, che riesce a regalare ogni giorno storie incredibili: perché non riesce ad attrarre più persone?
Per provare a rispondere facciamo un passo indietro. Il Giro d’Italia Women si chiama così dal 2024, quando l’organizzazione della corsa è passata a RCS Sport (la stessa società che organizza il Giro d’Italia maschile, tra le altre). Da allora la sua crescita «è ben visibile» afferma Zago. «Dalla comunicazione al villaggio di partenza, dalla gestione dei percorsi di gara alla sicurezza durante la corsa. C’è stata una crescita complessiva notevole, anche perché c’è più possibilità di investimenti».
Solo dall’anno prossimo avverrà un agognato spostamento nel calendario: il Giro femminile non sarà più concomitante col Tour de France maschile. Nonostante le tappe del Giro femminile finissero verso le 14:30 e quelle del Tour circa tre ore più tardi, la magnitudo della corsa francese è mille volte superiore: anche un evento secondario al Tour maschile, come possono essere il ritiro di Filippo Ganna o un Mathieu van der Poel in fuga, catalizza molte più attenzioni di qualsiasi feel-good story che possa uscire dal Giro femminile.
Uno dei modi in cui il Tour de France Femmes è immediatamente riuscito a piazzarsi al vertice delle corse a tappe più importanti del calendario femminile è pensarsi come importante. Non come “una delle tante corse”, ma come l’evento con la “E” maiuscola della stagione. È un tratto difficile da spiegare e quantificare, ma un evento importante, per esempio, va sulle salite importanti. Al primo anno il Tour de France Femmes propone un arrivo sterrato sulla Planche des Belles Filles; dodici mesi dopo la montagna mitica dei Pirenei, il Tourmalet. L’anno scorso addirittura l’Alpe d’Huez, quest’anno sono inserite nel percorso altre due mitiche salite alpine come la Madeleine e lo Joux-Plane.
Troppo spesso, invece, il Giro “relega” i suoi arrivi in salita su montagne sperdute con poca storia ciclistica: l’edizione 2020 fu decisa tra i monti della Daunia, in provincia di Foggia. Per l’edizione del 2025 si parlava di un ritorno sul Mortirolo, invece la tappa con arrivo all’Aprica è stata piuttosto demineralizzata. Inoltre, a diversi tifosi che hanno seguito il Giro femminile da casa non è piaciuto il fatto che la Cima Alfonsina Strada (ovvero la quota più alta toccata in gara, quest’anno il Passo del Tonale) fosse piazzata nei primissimi chilometri della terza tappa, cioè quando la diretta non era ancora iniziata né su Rai Sport né su Eurosport.
La direttrice di corsa del Giro femminile, Giusy Virelli, in un’intervista a Cycling News ha elencato come possibilità per il futuro l’aggiunta di tappe (oltre le otto attuali) ed eventuali partenze dall’estero. RCS Sport, che organizzerà il Giro femminile almeno fino al 2027, quest’anno ha fatto rinascere la Milano-Sanremo femminile, col merito di farla partire da una grande città come Genova.
Tante cose ancora si potrebbero scrivere su questa corsa a tappe: non è stata nemmeno citata finora, per esempio, Lorena Wiebes. Vincendo due tappe e andando in fuga a ogni occasione buona, la campionessa d’Europa in carica ha dimostrato di essere molto più che una semplice velocista. D’altra parte, però, va anche detto che Lotte Kopecky e Marianne Vos si sono ritirate anzitempo in vista del Tour de France Femmes, che comincia tra circa due settimane.
Come ha scritto su Instagram Ashleigh Moolman, una delle atlete più vincenti degli ultimi anni, nonostante tutti i suoi difetti "c’è qualcosa del Giro che è difficile spiegare a parole". Dopo alcuni anni di assenza, Moolman è tornata a quest’ultima edizione senza grandi ambizioni (ha pur sempre 39 anni ormai), definendosi eccitata "per ciò che il Giro rappresenta. Il ciclismo femminile è cambiato. Il Giro è cresciuto. Ed è speciale tornare ad una corsa che ha contribuito a formarmi".