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L’immaginazione è una forma di attenzione. Cosa ci ha lasciato Elsa Morante

tratto da Lucy sulla Cultura del 25 Novembre 2025
di Emanuele Dattilo

A quarant'anni dalla sua scomparsa, leggere Elsa Morante è ancora un'esperienza folgorante che suscita una reazione intensa. E non solo per la sua scrittura, i suoi personaggi, il dramma della Storia da cui sono travolti gli abitanti delle sue opere. C'è qualcosa di più profondo e perturbante ancora, che ha a che fare con una visione della realtà diversa da quella di tutti gli altri.
Chiunque apra una pagina di Elsa Morante è obbligato sempre, quasi fisiologicamente, anche suo malgrado, a una reazione. Può essere la sensazione di ritornare a casa, o una riappropriazione dello sguardo, come quando si trovano finalmente le lenti giuste: ecco, ora vedo, ricordo che cos’è vedere. Ma può anche essere un effetto di lieve sospetto, o addirittura di rifiuto, per una lingua così originale e insieme naturale, senza maquillages né artifici, semplice senza essere facile, diversa da tutte le altre sue contemporanee. E sempre diversa da se stessa, in ogni libro. 
Questo effetto così potente, credo, è dato dal fatto che Elsa Morante non è soltanto scrittore o poeta – come lei stessa amava provocatoriamente rubricarsi, riservando ad altri il titolo di poetessi – ma è anche qualcosa di più: in Elsa Morante c’è sempre una corrente sotterranea che attraversa la scrittura, una lava incandescente che scorre tra le sue pagine, dai racconti giovanili fino ad Aracoeli. È a questa corrente che ogni volta reagiamo. È qualcosa che vorrei chiamare qui, provvisoriamente, pensiero – ma ognuno lo chiami pure come preferisce. Che cos’è il pensiero? Non lo stanco rimuginare della testa, quello che secondo qualcuno non occorre fare troppo perché bisogna vivere, quello contrapposto alle emozioni e ai sentimenti (come se questi fossero, invece, la verità ultima). No: il pensiero è quella attitudine naturale verso il mondo, in cui non ci accontentiamo di conoscere le cose intorno a noi, ma vogliamo anche essere ciò che vediamo e conosciamo. È qualcosa che unisce la mente e il corpo, il dentro e il fuori, le idee che abbiamo e i modi in cui viviamo. Non un’unità raggiunta (non torneremo mai all’Eden), ma qualcosa che si manifesta anzitutto come una impazienza, una certa mobilità, un’insofferenza verso ogni posizione data – e che tuttavia prende ogni volta posizione. In questo carattere noetico, interessato più alla realtà che alle categorie per definirla, credo risieda una delle più preziose virtù di Elsa Morante, ciò che la rende ancora inafferrabile.
Dunque sì, Elsa Morante ha scritto senz’altro romanzi, racconti, poesie, articoli, favole, filastrocche. Ma niente sarebbe più ingiusto, nei suoi confronti, che giudicarla da un punto di vista solo letterario, ignorando così i presupposti più urgenti di ogni sua pagina. Come sarebbe anche sbagliato, credo, considerarla del tutto fuori dalla letteratura, seguendo così una tentazione che mi pare abbia molti esponenti, per cui Morante è ridotta a schermo delle migliori proiezioni della buona coscienza civile: militante di volta in volta anarchica, femminista eterodossa, comunista senza partito, animalista partecipe dei dolori del mondo; o anche infine, più modestamente, zia affabulatrice un po’ matta, ma geniale depositaria di una sapienza amorosa. Ma davvero Elsa Morante è questo? È un’immagine comoda per alcune restituzioni televisive o documentarie, per certe biografie, ma totalmente addomesticata, scolarizzata, priva di spigoli. Nulla, credo, lei avrebbe detestato di più di questa immagine civile rassicurante. Morante non è Ida, la protagonista de La Storiamater dolorosa che piange l’ininterrotto scandalo della tragedia storica. E non è riducibile neanche alla scanzonata ribellione anarchica de Il mondo salvato dai ragazzini, al sessantotto. In Elsa Morante ci sono anche Spinoza e Simone Weil, c’è una potente immaginazione metafisica mescolata a una sostanza originaria fantastica, più selvatica e irriducibile a ogni intenzione pedagogica. Che cos’è allora?
Una dei doni più preziosi che si ricevono dalla lettura di Elsa Morante è una certa libertà dai criteri e dalle definizioni. Ciò non significa, naturalmente, che non bisogna giudicare affatto. Tutti continuamente giudichiamo, siamo portati dalla nostra intelligenza e dal nostro cuore a rendere ragione di ciò che vediamo. Ma questi giudizi sono veri solo se sono di volta in volta in rapporto, direbbe Spinoza, a una certa potenza di agire. Ovvero se nascono da un certo rapporto o frizione immediata con le cose stesse, e non con i nomi, con le categorie, con i criteri, come molto spesso accade. È ciò che rende così penose molte discussioni letterarie: come definiamo un saggista? E che cos’è il romanzo? Quando la poesia è poesia? Qual è lo stato della letteratura italiana odierna? È più attuale Gadda o Moravia? Difficilmente si può immaginare quale sterminio interiore bisogna aver subito per svolgere simili discussioni, sui giornali o altrove.
Ecco, Elsa Morante rappresenta semplicemente l’esatto opposto di tutto ciò. Il suo è un deciso rifiuto della cultura in quanto tale, di tutto l’apparato che definisce sistematicamente le cose, offuscando la loro più ricca vitale possibilità. Basti la sua definizione di scrittore, in Pro o contro la bomba atomica: “un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura”. O il suo testo sul romanzo, dove la definizione che viene data del romanzo è talmente plastica, libera, così agile e larga, da poter includere al suo interno anche la Bhāgavad-Gīta. O il pezzo sul Beato Angelico, dove ci viene descritto, quasi avvenisse davanti ai nostri occhi, il miracolo insondabile, la nascita della luce. Perfino Piazza Navona, lungi dall’essere uno spazio urbano con un perimetro definito, diventa per lei un’immagine sensibile del bene.
È questo, anche, a rendere così preziosa Elsa Morante, la corrente da cui la sua scrittura prende linfa, il suo pensiero. E se si guarda al pensiero, entrambe le definizioni – quella puramente letteraria e quella più rozzamente politica – decadono. Non che in Elsa Morante non vi siano interessi estetici, o che non vi fosse consapevolezza della propria statura letteraria – ma il suo interesse principale, come non ha mai smesso di ripetere, è la Realtà, ovvero la restituzione del mondo nella sua integrità incorrotta. Così in Elsa Morante è presente senz’altro una potente vocazione politica, che le ha fatto prendere sempre posizione sui problemi più urgenti dell’attualità, dal caso Braibanti alle Brigate Rosse. Il suo sguardo è partecipe al mondo, alla storia e alla tragedia umana – ma questo sguardo è ogni volta rigenerato poeticamente, inseparabile dalle parole con cui viene ogni volta enunciato. Questo, il fatto che il pensiero venga ogni volta generato nelle parole, è la prova della verità.
Rappresenta la capacità di rimettere ogni volta in discussione tutto, senza fissarsi in un luogo preciso e identificabile. È un doppio sguardo: all’Isola e alla Storia. Chi guarda alla Storia senza vedere l’Isola, chi condanna il male solo perché è incapace di immaginare il bene, costui è complice del male che condanna, è infetto dalla stessa irrealtà. La bomba atomica – o Gaza – non sono il male, ma un effetto del male e della disintegrazione, ovvero dell’incapacità di fare esperienza sensibile del bene. Tutti ne siamo complici. Chi guarda all’Isola senza vedere la Storia, si condanna alla irrealtà letteraria, all’estetismo, all’impotenza del pensiero.
Si comprende facilmente, allora, come per afferrare l’integrità della realtà occorra semplicemente essere integri e reali, ossia non cedere alle tentazioni che ci vogliono ogni volta definire, spezzettandoci e amputandoci con i più diversi mezzi, contagiandoci di irrealtà. Lo sforzo che Elsa Morante chiede ai suoi lettori è anzitutto questo: il coraggio di vedere, di vedere direttamente ciò che si vede, senza schermi o infingimenti, sperimentando così una forma della presenza meno irreale e disintegrata. Questo è il reagente che le sue pagine contengono, ciò a cui non possiamo non reagire. E per fare questo, per vedere, si intende, non servono soltanto gli occhi. Anche perché la realtà non è semplicemente la realtà nuda e cruda, il principio di realtà. È un esercizio molto peculiare di attenzione, in cui più si restringe il fuoco dello sguardo verso ciò che c’è, più l’orizzonte si amplifica e si dilata. La veggenza poetica che Elsa Morante insegna, l’immaginazione, è una forma di attenzione. 

Emanuele Dattilo è filosofo. Il suo ultimo libro è La vita che vive (Neri Pozza, 2022).

Il mio piede destro

tratto da Lucy sulla cultura del 4 Dicembre 2025
di Valerio Magrelli

Acciacchi, incidenti, operazioni, farmaci, omeopatia, medici: quello che un corpo subisce negli anni ha delle conseguenze a volte inaspettate.
A17 anni ero un pezzo pregiato, voglio dire ambito dal mercato farmaceutico. Infatti, caso pressoché unico nell’Italia del boom, non avevo assunto neanche una aspirina in vita mia. Figlio di una pediatra omeopata, ero stato coltivato a dosi uniche, arnica e belladonna. Terreno vergine, insomma. I risultati, tutto sommato, erano buoni, a parte il fatto che, per guarire dal morbillo, impiegai più di sei mesi. 
Tuttavia, sempre a 17 anni, venni cacciato dall’Eden, e per di più senza compagna. Ho dedicato a queste vicende il mio primo libro in prosa, Nel condominio di carne, quindi non mi soffermerò sui dettagli. Dico soltanto che la mia motocicletta era ferma a un passaggio a livello e venne investita in pieno da una Ford Taunus che procedeva contromano. Il che mi consente di parlare della madre di mia madre, in quanto vedo in lei il tratto distintivo del mio intero destino. Questa da me amatissima signora, ormai ottantenne, era solita accompagnare le sue amiche coetanee nell’annuale viaggio verso Lourdes. La sua, però, era una situazione particolare, in quanto, unica tra tutte le compagne, godeva di ottima salute. Godeva, dicevo, fino al momento in cui, giunta davanti alla famosa scalinata del santuario, scivolò malamente rompendosi una gamba, per poi morire. Ecco, credo che per certi versi sia questo lo stemma araldico in cui riconosco molti dei miei incidenti, ovvero un’inquietante commistione di paradosso e verità: io investito da fermo (quando tutti ti dicono di non correre, “mi raccomando”), lei, al contrario, ferita sul luogo prediletto della salvezza e della salvazione (“liberaci dal male”). 
Ahimè, quell’incidente ebbe ripercussioni fatali sul mio rapporto con l’omeopatia. Infatti, a causa di una discussione con il mio medico, mi trasformai in un talebano della farmaceutica hard. Ma la beffa era in agguato. Un giorno, colpito da una colica renale, piombai in un pronto soccorso urlando ed esigendo la precedenza assoluta su tutti gli altri, peraltro agonizzanti. Quando alla fine il medico di guardia mi visitò, pensò bene di consigliarmi qualche cura alternativa, aggiungendo: “Hai mai provato l’omeopatia?” Chiusa questa stagione (cui devo, tra l’altro, la mia prima esperienza cinematografica, come ho spiegato in un libro su Fellini), torniamo alla gestione quotidiana del mio fisico. Miopia, e dunque collirio, terribili verruche contratte in piscina, e dunque punture ustionante-repellenti, tre denti del giudizio inclusi nell’osso mascellare, e dunque anestesia totale. Mi fermo un attimo su quest’ultimo argomento, poiché nell’occasione mi risvegliai, perfettamente immobile, aware, a metà operazione – vedi il poemetto consacrato all’orrore col titolo L’anti-Mazur.
L’awareness, o consapevolezza intraoperatoria, si verifica quando un paziente è cosciente durante un intervento in anestesia generale, senza riuscire a muoversi. La percentuale di eventi del genere è considerata rara, stimata intorno allo 0,1-0,2% o 1 su 19.000 pazienti in anestesia generale”. Beh, qui devo ammettere di aver fatto la mia porca figura: quasi uno su ventimila!
(L’età incipiente e soprattutto incontinente mi induce a una tardiva confessione deontologica: una quarantina d’anni fa, aiutai uno scrittore inedito a pubblicare la sua raccolta presso un’importante casa editrice di cui ero consulente. Pochi mesi dopo, questi stroncò un mio libro, accanendosi in particolare sulle pagine dell’Anti-Mazur. Per certi versi, anche incontrare persone del genere è stata una forma di lunga malattia. To be continued).
Strano, però; io vanto ben 14 operazioni in anestesia generale, e in questo campo mi vedo come un generale russo della seconda guerra mondiale, col petto in fuori piastrellato di medaglie e onorificenze. Tuttavia, ho patito sofferenze talvolta anche maggiori senza ricorrere a una simile protezione. Tra queste, voglio e devo ricordare almeno l’atroce incontro con la piorrea. Riporto dal mio Condominio: “Ma bisognava correre ai ripari, e dovetti affrontare il ricovero. La sua denominazione era leziosa, qualcosa tipo radotagetricotagecuretage. E tuttavia sapevo che il nome serviva soltanto a mascherare la brutale irruzione delle cesoie. Perché si trattava né più né meno che di potare la vigna purpurea delle mie gengive. Edward mani di forbice fa provviste fra i denti. E via, zic zac, a sfoltire e profilare quei merletti di sangue e filamenti. Ora sì, che le bianche scogliere di Dover si ergono candide per scintillare al sole, le pareti smaltate. Le vedi da lontano, che salutano il viaggiatore. Adieu!”
La dentatura fu suddivisa in otto settori, tra alto e basso, destra e sinistra, dentro e fuori: il margine delle gengive venne ritagliato in quattro lunghe giornate, proprio alla stregua di una campagna militare. Tra l’una e l’altra di queste, un unico dolore ininterrotto, inaudito, io steso a letto al buio per quasi una settimana. Questo per dire come il parametro dell’anestesia generale non sia affatto affidabile. E torno alla spaventosa crisi che accompagnò il mio primo attacco di colica, quando, rinnegando l’omeopatia per la prima volta, mi trasformai in Valerio l’Apostata. Uscii da quelle pene grazie a un dottore che arrivò a suggerirmi l’ingestione di 6 bottiglie d’acqua oligominerale ogni giorno. Anche qui c’è una diramazione di racconti, che si apre a Roma, con una prova generale del direttore d’orchestra Leonard Bernstein.
Andai a teatro invitato all’ultimo momento da un amico, dopo aver già bevuto i soliti due litri mattutini, e confesso che dovetti fuggire dopo l’inizio del secondo tempo, per arrivare rumorosamente a un gabinetto e liberarmi di quell’intollerabile liquido. Ancora: ricordo che poco dopo andai a sciare con due bottiglie di Ferrarelle nello zaino, bottiglie (in vetro) che regolarmente infrangevo. Insomma un Tartarino di Tarascona sulle Dolomiti. Per fortuna, tutto andò per il meglio e finalmente espulsi il calcolo, come poi altri. Non posso però tacere dello sgomento che afferrò il mio oculista, dopo una visita successiva di qualche mese alla liberazione dai materiali litici. Non riusciva a capacitarsi: quale catastrofe si era abbattuta sul fondo della mia retina? Chiedeva, chiedeva, e io niente. Finché mi ricordai dei miei spropositi idraulici, scoprendo che, senza saperlo, avevo sottoposto gli occhi a una pressione terribile. In breve, i due bulbi mi stavano per scoppiare… La cosa mi colpì talmente, che composi una poesia mai pubblicata in raccolta, e che mi fa piacere riproporre:
 
Storia dell’acqua
L’occhio è un tamburo che sotto la pressione
si tende. È la ranocchia che prova a farsi bue,
mongolfiera, pneumatico, zampogna.
Vista-vescica,
le lenti degli occhiali
cederanno alla spinta dei tuoi flutti,
gli argini smotteranno e straripando
il fiume dello sguardo
spazzerà pietre e immagini
per allagare il mondo.
 
Siamo in chiusura e non ho ancora detto nulla del mio piede destro. Il mio piede sinistro (My Left Foot. The Story of Christy Brown) è un film del 1989 diretto da Jim Sheridan, che racconta la vita di uno scrittore e pittore irlandese, Christy Brown (interpretato da Daniel Day-Lewis), nato con un handicap fisico molto grave: l’unica parte del corpo che era in grado di controllare era il piede sinistro, e proprio con quello iniziò a scrivere e dipingere. La mia storia, a ogni modo, è completamente diversa. Tutto comincia con la gamba sinistra, che nel corso del tempo va incontro a quattro distinti interventi chirurgici. Uscito dall’ultimo, mi faccio visitare dal mio, ormai amico, ortopedico, che riesce ancora una volta a sbalordirmi (l’occasione precedente fu quando, all’uscita da una operazione particolarmente cruenta, esclamò sorridente: “Questo è il lavoro che più mi piace fare. Macelleria messicana”). Riuscì a sbalordirmi perché mi disse che, se la gamba sinistra era finalmente a posto, ora iniziava il problema vero e proprio, costituito dal mio piede destro. Infatti, dopo un quarantennio di sovraccarico, quel mio pezzo di corpo aveva ceduto definitivamente. Era da buttare. E allora? Allora bisognava procedere prima a un intervento riparativo, poi a uno distruttivo. Non so quale dei due mi spaventasse maggiormente. Ripara, distruggi… Ma non si poteva distruggere direttamente (adoro le scorciatoie)? Sì, però non ne valeva la pena. Nel frattempo avrei usato un austero bastone e soprattutto immani plantari.
Morale della favola, non ho ancora deciso: amputare o non amputare? Ho preso tempo, sono passati due anni, e ho deciso di affidarmi a un giovane fisioterapista, che a forza di esercizi mi ha fatto passare il dolore. Dunque, come il protagonista di Blade Runner che fugge insieme alla sua amata replicante, potrei davvero dire del mio piede: “Non sapevo per quanto tempo saremmo stati insieme. Ma chi è che lo sa?”
 
Valerio Magrelli è poeta, scrittore, francesista, traduttore e critico letterario. Il suo ultimo libro è Exfanzia (Einaudi, 2022).