Per questo torna particolarmente utile Nostalgoritmo. Politica della nostalgia (Edizioni Tlon, 2024) del sociologo americano Grafton Tanner, nel quale la nostalgia viene analizzata nella sua estensione sociale in un contesto epocale in cui il futuro sembra scomparire e la nostalgia può essere un rifugio rassicurante ma anche un pericoloso strumento di manipolazione. La nostalgia, secondo Tanner, è “l’emozione che definisce il nostro tempo”, una fase storica che ha inizio con l’attacco alle Twin Towers, nella quale in tutto il mondo una “dolente fame di passato” domina il presente.
Nostalgoritmo è un’analisi molto articolata dell’evoluzione della nozione di nostalgia, di come diversi e numerosi studiosi abbiano messo a fuoco la necessità e anche l’urgenza di tematizzarla. L’osservatorio privilegiato di Tanner (che rende sempre esplicita la sua prospettiva militante) è quello statunitense, cioè un paese dove le “dinamiche nostalgiche”, diciamo così, si sono rivelate particolarmente insidiose per la potenza che l’economia e la politica possono esprimere per il proprio tornaconto. “Su Internet c’è rabbia da vendere – scrive l’autore –, l’angoscia è ovunque e la paura alimenta la politica, ma la nostalgia le eclissa tutte. I leader politici non fanno che promettere un ritorno al passato, quando le cose erano più semplici, meno instabili. Le aziende che operano nel settore dei media invadono le piattaforme di streaming con remake e reboot. Stili obsoleti vengono costantemente riconfezionati, reinventati e riadattati per soddisfare le esigenze del presente. Più ci addentriamo nel futuro, più la nostalgia sembra crescere” (p.13).
Tanner si
sofferma sulla storia americana della Guerra di Secessione, sulla nostalgia di
un mondo che fu armonia, per taluni, e pura oppressione, per gli altri, e che i
nostalgici negarono con la campagna della cosiddetta “Causa persa” in cui
furono erette numerose statue a ricordare gli schiavisti più celebri. Oppure
sulla forza dei soldati americani nelle guerre, uomini che hanno saputo
resistere alla nostalgia per proteggere la patria; ancora oggi (anche grazie
all’industria del militainment) si consente allo Stato di non dover
ricorrere alla coscrizione obbligatoria per avere a disposizione i militari.
L’aspetto di “nostalgia riflessiva” appare più evidente quando la nostalgia
diventa un’arma di difesa contro i moderni “nonluoghi” visti come invasive
cancellazioni di identità e memoria. Autogrill, centri commerciali, non sono
che bolle del nulla mercantile dove gli uomini inevitabilmente stanno in una
sterile eguaglianza.
C’è Il presente nel passato (seconda parte del libro): la forza dell’”Industria della nostalgia” capace di creare mondi finzionali che fungono da scudo contro un presente disgregato. Essere sempre giovani, perché no, in un mondo, come diceva Vladimir Nabokov, “in cui tutto è come deve essere, niente cambierà mai, nessuno mai morirà” (p.142). Quindi una nostalgia per un passato che non c’è stato. Serie tv e film in quantità: un esempio Forrest Gump del 1994, un film, dice Tanner, “che fondamentalmente neutralizza l’intera seconda metà del xx secolo, sussumendo ogni momento storico, piccolo o tumultuoso, sotto un’ideologia semplicistica di responsabilità individuale: Forrest Gump è un attore razionale, il centro dell’universo, e tutto è al servizio suo e del suo destino.” L’individuo neoliberista “che parte dal passato e viaggia verso il futuro, per inseguire l’angelo della storia e riordinare il cumulo di rovine”. (p.125) Ricordate American graffiti, Guerre stellari, Jurassic Park, Happy Days, Ritorno al futuro, basta un titolo per toccare la corda nostalgica. Era tutto “a fin di bene”, commerciale. Sarà un caso che la Disney abbia voluto prolungare i suoi diritti di copyright il più possibile?, si chiede Tanner. E non si può sfuggire a tutto ciò, prosegue, al contrario “disconnettersi per aumentare la produttività è proprio il gesto nostalgico che il capitalismo vuole che tu faccia. […] La fuga totale è probabilmente impossibile per la persona media e, nella misura in cui è possibile, può incoraggiare la passività in un momento in cui abbiamo bisogno che coloro che sono giustamente critici nei confronti della società rimangano e ci aiutino a combattere per il futuro” (p.194).
C’è Il passato nel futuro (terza e ultima parte del libro): È quando “prevedere il futuro con i dati del passato non fa altro che ripetere il passato”. L’uso degli algoritmi consente di profilare l’utenza lavorando con le ricorrenze dell’uso individuale. Se io ascolto un certo genere di jazz le piattaforme mi propongono quel genere di jazz, cioè un mio “passato” da cui magari sarei interessato a uscire per scoprire qualcosa di nuovo. Ridotto all’osso questo è il nostro status di utenti in rete e i gestori così non fanno che perpetuare usi e costumi culturali. Ma per fortuna “gli esseri umani non possono essere ridotti a dati. E nemmeno la cultura e la storia”, dice Tanner. Pensiamo in modo computazionale, crediamo che i problemi si possano risolvere grazie al mero calcolo (ecco il Nostalgoritmo), ma “in quanto esseri umani, operiamo in modo molto diverso dagli algoritmi, che rimangono «fermi nel tempo» e non possono evolvere come può fare il processo decisionale umano.” Il risvolto politico appare evidente: “poiché le aziende che si affidano a rigidi algoritmi per prendere decisioni sono più interessate al profitto che all’equità, i loro modelli di futuro rischiano di perpetuare ingiustamente lo status quo di sfruttamento che privilegia il libero mercato, non le persone. […] Man mano che il lavoro umano viene aumentato, o sostituito del tutto, dai bot [un algoritmo programmato per eseguire determinati compiti, n.d.r.], la società diventerà probabilmente più precaria e i vecchi pregiudizi si diffonderanno nel presente. Chi ha nostalgia dell’essere umano in un’epoca in cui viene sostituito o trattato come un dato, deve organizzarsi contro gli algoritmi” (pp.221-223).
C’è un Diritto alla nostalgia (così titola la conclusione del libro): è il tema più forte in assoluto poiché la nostalgia è finalmente liberata dalla sua eterna connotazione di debolezza umana. “La nostalgia si configura come una sorta di fuga, una pausa necessaria dall’ansia dell’Antropocene”. Non dimentichiamo che Tanner osserva la società nord-americana dove il neoliberismo mostra il suo volto più duro, dove alle persone “viene detto in quali bagni non possono entrare, quanti soldi possono guadagnare, cosa possono permettersi di fare. Sono gravati dai debiti, perseguitati per il loro orientamento sessuale, costretti dall’ambiente in cui vivono, obbligati a lavorare secondo un orologio senza lancette. Vengono istruiti a privatizzare la loro salute, a cercare aiuto solo da se stessi e a temere chi non somiglia loro” (p.274). Non possiamo più semplicemente dividere la società tra reazionari innamorati del passato e radicali che guardano al futuro. «Una realtà così com’era quando essa non esiste più; restituirla è impossibile», dice Tanner (con Milan Kundera).
Noi abbiamo diritto a una nuova nostalgia, la chiamerei post-nostalgia, che ci aiuti a “generare futuri” in una “visione collettiva ed egualitaria”, prima che qualcuno molto più potente ci arrivi al posto nostro, sottolinea Tanner e conclude: “Se stiamo già guardando al passato, dobbiamo al futuro il compito di scrutare oltre l’orizzonte, cercare le regioni remote del passato dove i visionari si rintanavano ai margini, sussurrando sogni di un mondo migliore e disegnando piani per realizzarlo. In fondo a quegli interstizi nascosti troverai il futuro” (pp.296-297).
Il tema è sul tavolo, e i punti di vista sono sicuramente molteplici: come sarà la nostalgia in Cina, in India, in Giappone, in Africa, in Ucraina, in Russia, a Tel Aviv, a Gaza…e in Italia? Penso che “Il lumicino acceso della nostalgia per uno stare al mondo placido e felice” possa diventare un utile magnete che attira ciò che è più funzionale a un futuro liberato (almeno) dal profitto individuale come valore supremo.
C’è un passo in Grandi speranze (1861) di Charles Dickens, a me particolarmente caro, in cui Pip, il piccolo protagonista, descrive il momento di quando lascia il suo villaggio con tutta la sua vita precedente dentro per andare verso il suo futuro pieno di aspettative:
“Fischiettavo, e camminando non pensai più ad altro. Nel villaggio regnavano una grande tranquillità e un gran silenzio, e una leggera nebbiolina si alzava adagio, come per lasciarmi intravedere il mondo: ed ero stato così piccolo ed innocente lì, mentre lontano era tutto così sconosciuto e grandioso, che tutto a un tratto col cuore gonfio e con un singhiozzo scoppiai in lacrime. Ero vicino al cartello indicatore in fondo al villaggio, vi appoggiai la mano sopra e dissi: “Addio, o mio caro, caro amico!” (Grandi speranze, trad. it. di Caesara Mazzola, Mondadori 1991, p.210).
Con la pregnanza sentimentale di Pip come propellente fondamentale credo si possa e si deva andare avanti.
C’è Il presente nel passato (seconda parte del libro): la forza dell’”Industria della nostalgia” capace di creare mondi finzionali che fungono da scudo contro un presente disgregato. Essere sempre giovani, perché no, in un mondo, come diceva Vladimir Nabokov, “in cui tutto è come deve essere, niente cambierà mai, nessuno mai morirà” (p.142). Quindi una nostalgia per un passato che non c’è stato. Serie tv e film in quantità: un esempio Forrest Gump del 1994, un film, dice Tanner, “che fondamentalmente neutralizza l’intera seconda metà del xx secolo, sussumendo ogni momento storico, piccolo o tumultuoso, sotto un’ideologia semplicistica di responsabilità individuale: Forrest Gump è un attore razionale, il centro dell’universo, e tutto è al servizio suo e del suo destino.” L’individuo neoliberista “che parte dal passato e viaggia verso il futuro, per inseguire l’angelo della storia e riordinare il cumulo di rovine”. (p.125) Ricordate American graffiti, Guerre stellari, Jurassic Park, Happy Days, Ritorno al futuro, basta un titolo per toccare la corda nostalgica. Era tutto “a fin di bene”, commerciale. Sarà un caso che la Disney abbia voluto prolungare i suoi diritti di copyright il più possibile?, si chiede Tanner. E non si può sfuggire a tutto ciò, prosegue, al contrario “disconnettersi per aumentare la produttività è proprio il gesto nostalgico che il capitalismo vuole che tu faccia. […] La fuga totale è probabilmente impossibile per la persona media e, nella misura in cui è possibile, può incoraggiare la passività in un momento in cui abbiamo bisogno che coloro che sono giustamente critici nei confronti della società rimangano e ci aiutino a combattere per il futuro” (p.194).
C’è Il passato nel futuro (terza e ultima parte del libro): È quando “prevedere il futuro con i dati del passato non fa altro che ripetere il passato”. L’uso degli algoritmi consente di profilare l’utenza lavorando con le ricorrenze dell’uso individuale. Se io ascolto un certo genere di jazz le piattaforme mi propongono quel genere di jazz, cioè un mio “passato” da cui magari sarei interessato a uscire per scoprire qualcosa di nuovo. Ridotto all’osso questo è il nostro status di utenti in rete e i gestori così non fanno che perpetuare usi e costumi culturali. Ma per fortuna “gli esseri umani non possono essere ridotti a dati. E nemmeno la cultura e la storia”, dice Tanner. Pensiamo in modo computazionale, crediamo che i problemi si possano risolvere grazie al mero calcolo (ecco il Nostalgoritmo), ma “in quanto esseri umani, operiamo in modo molto diverso dagli algoritmi, che rimangono «fermi nel tempo» e non possono evolvere come può fare il processo decisionale umano.” Il risvolto politico appare evidente: “poiché le aziende che si affidano a rigidi algoritmi per prendere decisioni sono più interessate al profitto che all’equità, i loro modelli di futuro rischiano di perpetuare ingiustamente lo status quo di sfruttamento che privilegia il libero mercato, non le persone. […] Man mano che il lavoro umano viene aumentato, o sostituito del tutto, dai bot [un algoritmo programmato per eseguire determinati compiti, n.d.r.], la società diventerà probabilmente più precaria e i vecchi pregiudizi si diffonderanno nel presente. Chi ha nostalgia dell’essere umano in un’epoca in cui viene sostituito o trattato come un dato, deve organizzarsi contro gli algoritmi” (pp.221-223).
C’è un Diritto alla nostalgia (così titola la conclusione del libro): è il tema più forte in assoluto poiché la nostalgia è finalmente liberata dalla sua eterna connotazione di debolezza umana. “La nostalgia si configura come una sorta di fuga, una pausa necessaria dall’ansia dell’Antropocene”. Non dimentichiamo che Tanner osserva la società nord-americana dove il neoliberismo mostra il suo volto più duro, dove alle persone “viene detto in quali bagni non possono entrare, quanti soldi possono guadagnare, cosa possono permettersi di fare. Sono gravati dai debiti, perseguitati per il loro orientamento sessuale, costretti dall’ambiente in cui vivono, obbligati a lavorare secondo un orologio senza lancette. Vengono istruiti a privatizzare la loro salute, a cercare aiuto solo da se stessi e a temere chi non somiglia loro” (p.274). Non possiamo più semplicemente dividere la società tra reazionari innamorati del passato e radicali che guardano al futuro. «Una realtà così com’era quando essa non esiste più; restituirla è impossibile», dice Tanner (con Milan Kundera).
Noi abbiamo diritto a una nuova nostalgia, la chiamerei post-nostalgia, che ci aiuti a “generare futuri” in una “visione collettiva ed egualitaria”, prima che qualcuno molto più potente ci arrivi al posto nostro, sottolinea Tanner e conclude: “Se stiamo già guardando al passato, dobbiamo al futuro il compito di scrutare oltre l’orizzonte, cercare le regioni remote del passato dove i visionari si rintanavano ai margini, sussurrando sogni di un mondo migliore e disegnando piani per realizzarlo. In fondo a quegli interstizi nascosti troverai il futuro” (pp.296-297).
Il tema è sul tavolo, e i punti di vista sono sicuramente molteplici: come sarà la nostalgia in Cina, in India, in Giappone, in Africa, in Ucraina, in Russia, a Tel Aviv, a Gaza…e in Italia? Penso che “Il lumicino acceso della nostalgia per uno stare al mondo placido e felice” possa diventare un utile magnete che attira ciò che è più funzionale a un futuro liberato (almeno) dal profitto individuale come valore supremo.
C’è un passo in Grandi speranze (1861) di Charles Dickens, a me particolarmente caro, in cui Pip, il piccolo protagonista, descrive il momento di quando lascia il suo villaggio con tutta la sua vita precedente dentro per andare verso il suo futuro pieno di aspettative:
“Fischiettavo, e camminando non pensai più ad altro. Nel villaggio regnavano una grande tranquillità e un gran silenzio, e una leggera nebbiolina si alzava adagio, come per lasciarmi intravedere il mondo: ed ero stato così piccolo ed innocente lì, mentre lontano era tutto così sconosciuto e grandioso, che tutto a un tratto col cuore gonfio e con un singhiozzo scoppiai in lacrime. Ero vicino al cartello indicatore in fondo al villaggio, vi appoggiai la mano sopra e dissi: “Addio, o mio caro, caro amico!” (Grandi speranze, trad. it. di Caesara Mazzola, Mondadori 1991, p.210).
Con la pregnanza sentimentale di Pip come propellente fondamentale credo si possa e si deva andare avanti.