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Questo settembre

Gli ultimi due pezzi pubblicati: “A Calitri, la nuova sede operativa di Madrigale per Lucia” di Emanuela Di Guglielmo e Maria Costagliola e “La teoria diventa pratica del fare insieme con Lucia Mastrodomenico” di Virginia Varriale, rappresentano il manifesto programmatico delle nuove attività dell’associazione Madrigale per Lucia.
 
Non è nostra intenzione abbandonare il lavoro sin qui svolto: i Premi per le scuole dedicati a Lucia (a Napoli e Calitri), o il lavoro del periodico che state consultando. Assolutamente no. Le nuove iniziative rappresentano il tentativo di aprire, dal settembre 2025, due nuove linee di attività: le mostre, fotografiche e di altri audiovisivi, da realizzare in Irpinia e non solo; il lavoro di riflessione teorica sulla “pratica del fare insieme” a partire dal sé e non dall’io.
 
Ricordiamo che ad ottobre si svolgeranno a Calitri e Lacedonia, in Irpinia, due manifestazioni dedicate a Lucia Mastrodomenico. Dopo la mostra, svolta a Calitri, nell’agosto 2024, ed in continuità con essa, Emanuela Di Guglielmo, Luisa Festa e Maria Costagliola daranno vita, con il contributo di tutti gli altri soci, a 2 eventi: - il primo per inaugurare la nuova sede operativa dell’Associazione, in via Nicolais, a Calitri, “uno spazio pensato, voluto e curato nei minimi dettagli, con l’intento di ricordare la inconfondibile bellezza e lo stile di Lucia. Un luogo d’incontro tra donne irpine napoletane e campane, dove la cultura, l’arte e la condivisione troveranno una casa viva ed accogliente”, scrivono Emanuela e Maria; - l’altro, a Lacedonia, mostra fotografica, per la cura particolare di Luisa.
 
A Napoli si terrà una manifestazione introduttiva su “la teoria diventa pratica del fare insieme”, tema centrale, dell’ultima fase del lavoro teorico/pratico di Lucia Mastrodomenico.
Riflessione che vedrà impegnate, Maria Vittoria Montemurro (che insieme a Lucia ed Angela Putino, anni or sono, ha organizzato i seminari teorico-pratici di via Tasso), Virginia Varriale che, recentemente, ha ripreso il tema.
Virginia ci ricorda, a partire dal pensiero di Lucia, che occorre: “trovare una capacità di relazione tra l’io e il tu che, da un lato, non deve cadere nell’egoità e, dall’altro, non deve perdersi nell’identità dell’altro. Non un io posto dinanzi all’altro/a per essere riconosciuto, ma un io che, partendo da sé, possa agire con l’altro/a”. Ed ancora: L’animalizzazione dell’uomo e l’umanizzazione dell’animale sono inclinazioni che continuano ad incrociarsi nell’essere umano, sebbene gli anelli evolutivi abbiano complicato il gioco e abbiano creato passaggi che sono nel mezzo, determinando un amalgamarsi dell’uno e dell’altro, in un intreccio difficilmente districabile.”, scrive Virginia Varriale in “Corpi come nuovi inizi a partire da sé”, pubblicato, sempre su questo periodico, il 4 luglio di quest’anno.
 
Iniziative concrete, in cui il lavoro culturale si fa materia. L’inscindibile legame tra teoria e prassi, viene ripreso, in un tempo, qual è quello attuale, che invita a non riflettere, che invita ad essere veloci ed artificiali, meglio con poca intelligenza.
Il tutto, ciò che è stato fatto e ciò che e riusciremo a fare, passa attraverso le persone. Donne e uomini in relazione, il cui impegno e la cui passione è substrato ineludibile, per la buona riuscita delle iniziative che, andremo a proporre, da questo settembre.
 
Roberto Landolfi

A Calitri la nuova sede operativa di “Madrigale per Lucia”

A Ottobre una festa per inaugurare la sede operativa dell’Associazione “Madrigale per Lucia”: un luogo di memoria, arte e comunità,
Nel cuore del centro storico di Calitri, lungo la suggestiva Via Nicolais, conosciuta come la “strada dell’associazionismo, degli intellettuali e politici calitrani” – dalla prima sede delle Donne per il Sociale al Circolo Aletrium, dal Prof. Donato Lucev a Vinicio Capossela –,  tra le casette colorate che ne fanno uno dei borghi più affascinanti dell’Irpinia, si aprirà un nuovo spazio carico di significato: la sede dell’Associazione Madrigale per Lucia, dedicata alla memoria di Lucia Mastrodomenico, scrittrice, giornalista e femminista nata proprio a Calitri e vissuta a Napoli.
Sarà uno spazio pensato, voluto e curato nei minimi dettagli, con l’intento di ricordare la inconfondibile bellezza e lo stile di Lucia. Un luogo di incontro tra donne irpine, napoletane e campane, dove la cultura, l’arte e la condivisione troveranno una casa viva e accogliente.
Sarà una festa di vicinato, a Ottobre, a segnare l’inizio di questa nuova avventura collettiva. Una festa dedicata a lei, al suo pensiero, alla sua sensibilità: ci saranno foto, testi, racconti, videoarte e momenti di condivisione per parlare di Lucia e con Lucia, nel luogo che aveva scelto come rifugio e punto d’approdo.
 
Lucia aveva compreso, con largo anticipo, il valore profondo del borgo di Calitri e del suo tessuto sociale. Amava il senso di comunità forte e radicato che si respira in quel posto, e fu proprio questo legame a spingerla a comprare e arredare con cura una casa nel centro storico.
Quella casa, ora sede operativa dell’associazione, diventerà spazio vivo di confronto, riflessione e ispirazione: “Non sarà un museo, ma una casa che respirerà, un luogo dove le parole e le idee continueranno a vivere, come avrebbe voluto Lucia.”
L’associazione vorrà essere un punto di riferimento per l’Irpinia, per le donne della Terra dell’Osso e per le amiche e gli amici napoletani, affronterà temi che furono cari a Lucia: la tutela dei diritti, senza tralasciare i doveri, il femminismo, il Sud, la cultura, la memoria. Non sarà solo un punto fisico, ma una fucina di visioni, scambi culturali e artistici, dove il pensiero femminile e meridiano potrà trovare espressione libera e profonda.
 
L’invito è per Sabato 18 ottobre, per stare insieme e inaugurare questo spazio nel modo più naturale: condividendo tempo, parole, pensieri.
Sarà una giornata aperta, semplice e intensa, proprio come Lucia avrebbe voluto.
Un’occasione per ritrovarsi tra le stanze della sua casa, oggi sede dell’associazione, per ascoltare, ricordare, raccontare e dare nuova voce al suo pensiero.

Perché questa casa non sarà solo un luogo fisico, ma un punto di incontro vivo, dove la memoria si farà dialogo, e il ricordo si trasformerà in presenza.
 
Domenica 19 Ottobre, ci si sposterà a Lacedonia al Mavi (Museo Antorpologico visivo Irpino), dove verrà inaugurata la mostra dedicata a Lucia, curata da Emanuela Di Guglielmo e Luisa Festa: un omaggio sentito e autentico a una figura che ha lasciato un segno indelebile nella vita di chi l'ha conosciuta e amata.
Sarà un tassello in più per continuare a camminare con lei e attraverso di lei, in un viaggio che intreccerà memoria, arte e comunità.
Un modo per tenere vivo il suo sguardo sul mondo, e per ritrovarci – ancora una volta – a parlare di ciò che conta, insieme a Lucia.
 
Emanuela Di Guglielmo  Maria Costagliola

via Nicolais, foto: Emanuela Di Guglielmo

via Nicolais, foto: Emanuela Di Guglielmo

via Nicolais, foto: Emanuela Di Guglielmo

via Nicolais, foto: Emanuela Di Guglielmo

 

Goffredo Fofi, un pessimista scontento di esserlo

tratti da Doppio Zero del 12 luglio 2025
 
 Gubbio-Palermo-Parigi-Torino-Napoli-Milano-Roma
di Alberto Saibene

Goffredo Fofi aveva una voce molto bella, senza inflessioni regionali, molto amata dagli ascoltatori della radio e da chi lo ascoltava in giro per l’Italia dove parlava a braccio, aiutandosi a volte con un foglietto pieno di appunti. Era nato a Gubbio nel 1937 da una grande famiglia mezzadrile ed era cresciuto solitario, finché gli accadimenti della Seconda guerra mondiale, la crudeltà nazista vista con gli occhi di un bambino, lo resero – è lui ad averlo affermato – per sempre nevrotico. 
Fu da subito un lettore onnivoro e un frequentatore di cinema che allora era uno spettacolo popolare e la prima informazione sugli usi del mondo in una nazione ancora rurale. L’incontro con Aldo Capitini, perugino, padre del pacifismo italiano, lo spinse a raggiungere Danilo Dolci in Sicilia. L’esperienza con Dolci, triestino trasferitosi nel Sud più diseredato, promotore degli ‘scioperi al contrario’ fu una scuola di vita, ma anche il primo confronto con una figura carismatica con cui finì col litigare. 
In Sicilia conobbe Angela Zucconi che lo invitò a Roma per frequentare il CEPAS, la scuola per assistenti sociali, finanziata da Adriano Olivetti. L’inquietudine, una delle caratteristiche principali del suo carattere, lo spinse a trasferirsi a Torino (molto bello è Strana gente, il diario del 1960, dove ci si stupisce del numero di persone interessanti con cui Fofi è già in rapporti: Silone, Ada Gobetti, Gigliola Venturi e tanti altri) dove prepara il suo primo libro L’immigrazione meridionale a Torino, rifiutato da Einaudi che procurò una dolorosa spaccatura all’interno della casa editrice, pubblicato poi da Feltrinelli nel 1964. È forse il libro più importante di Fofi, un’inchiesta in presa diretta (con testimonianze e statistiche) sulla nostra società nel momento della sua massima trasformazione. 
Il periodo successivo lo trascorse soprattutto a Parigi dove i genitori erano immigrati per lavoro e dove Fofi coglie la nouvelle vague in presa diretta. Si avvicina a “Positif”, la rivista rivale dei “Cahiers du Cinema”, dove diventa un critico cinematografico militante, importando poi in Italia un modo di scrivere di cinema da noi sconosciuto, collegando l’opera dei registi alla società. In Italia la sua tribuna diventano i ‘quaderni piacentini’, la rivista fondata nel 1962 a Piacenza da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi. Fofi, poi terzo direttore, è una sorta di ‘ministro degli esteri’ della rivista attirando nuovi collaboratori come Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni (scomparso nei giorni scorsi) e conoscendo Bianca Beccalli, Giovanni Jervis, Guido Viale, Vittorio Rieser, Carlo Donolo e dialogando con i più grandi Cesare Cases, Franco Fortini, Sebastiano Timpanaro, Giovanni Giudici, Renato Solmi e altri ancora. Il meglio della sinistra critica che aveva in Raniero Panzieri il suo punto di riferimento. 
La rubrica cinematografica di Fofi era tra le più lette anche per la virulenza, a volte, degli attacchi ai grandi registi italiani del momento (Antonioni, Fellini, Visconti). Almeno su Fellini, Fofi cambiò idea, ma il suo principale contributo alla conoscenza del nostro cinema, oltre alla capitale rivalutazione di Totò in un libro del 1968, scritto insieme a Franca Faldini, compagna dell’attore, fu la bellissima Avventurosa storia del cinema italiano, che uscì a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, sempre in collaborazione con la Faldini, una oral history del nostro cinema che è uno spaccato sulla società italiana dagli anni Trenta ai Settanta. 
In quel decennio Fofi transitò per Napoli, nel periodo di maggior presa dei movimenti post ‘68 (la sua area di riferimento era quella di Lotta Continua) dove partecipò all’esperimento della Mensa dei bambini proletari, occasione in cui fece amicizia con Fabrizia Ramondino, insieme a Elsa Morante e Annamaria Ortese, nel pantheon fofiano delle grandi scrittrici novecentesche. 
Nei primi anni Ottanta si trasferì a Milano, che già frequentava collaborando con la Feltrinelli e più tardi con la Garzanti (sono capitoli ancora da indagare i suoi contributi alla nostra migliore editoria, grande e piccola). Nella città lombarda fondò nel 1983 “Linea d’Ombra”, rivista che ha contribuito a rilanciare il discorso politico in un momento di fiacca, ma soprattutto a far conoscere scrittori extra europei o nordamericani, ad aprirsi al mondo dell’illustrazione, a cercare nuove forme di narrazione fuori dal romanzo (Kapuscinski, per fare un solo nome). Lo ricordo alle riunioni della rivista, nel soggiorno di Lia Sacerdote, dove per un momento chiudeva gli occhi prima di attaccare a parlare. 
Il rapporto con Milano fu tuttavia controverso perché la sua figura di outsider non fu mai riconosciuta dall’industria culturale, né dai grandi giornali. Fofi nel frattempo era diventato un polemista noto anche a una cerchia più ampia, pieno di amici ma anche di nemici che non sopportavano il suo ideologismo. I nemici non lo spaventavano, gli davano soprattutto fastidio “gli inutili”, chi scriveva libri ‘carini’ o dirigeva film ‘gradevoli’. Insomma aborriva il midcult, memore della lezione di Dwight MacDonald, additando ad esempio i non riconciliati di cui Carmelo Bene era l’alfiere. 
Stufatosi di ‘Linea d’Ombra’ fondò alla fine degli anni Novanta “Lo Straniero”, con sede a Roma ma punto di incontro di una nuova classe intellettuale che veniva da tutta Italia. Un luogo dove ritrovarsi erano i seminari di Cenci, ospiti di Franco Lorenzoni. Tra i tanti collaboratori è giusto almeno ricordare Alessandro Leogrande, giovane intellettuale tarantino, suo unico possibile erede, che morì a soli 40 anni, e Luca Rastello, giornalista-scrittore torinese, anche lui scomparso a poco più di cinquant’anni, che con Piove all’insù (2006) ha raccontato con straordinaria efficacia un pezzo di storia del nostro Paese. Sono moltissimi i libri firmati da Fofi e per cominciare a conoscerlo forse bisogna partire dall’antologia curata da Emiliano Morreale, Sono nato scemo, morirò cretino (2022) e, anche se poco incline all’autobiografismo, sono belle tante pagine Le nozze coi fichi secchi (1999) in cui narra gli anni dell’infanzia e della formazione.
Anche se aveva molto poco in comune con Benedetto Croce sono due le caratteristiche che li uniscono: un’inesausta capacità di lavoro e una ‘famiglia’ di amici sparsi per l’Italia e per il mondo. Le amicizie nate attraverso Goffredo sono innumerevoli. Continueremo nel suo ricordo.

Goffredo Fofi © Dario Nicoletti

L’eduzione impossibile
di Francesco M. Cataluccio

Se n'è andato anche Goffredo Fofi. Quell'anche, (mentre lo scrivevo ho sentito il suo sogghigno sul collo!), non gli sarebbe garbato. All'apparenza non apprezzava nulla, anche le cose che gli piacevano. Si indignava per tutto, e pure per se stesso, anche se sembrava avere un'alta stima di sé. 
Per questo è stato, a suo modo, un Maestro. Con lui dovevi stare sempre sulla difensiva, ma ti faceva comprendere l'altra faccia delle cose. 
Una figura importante e generosa, spesso sanamente incoerente, della cultura italiana del dopoguerra.
Si può essere stati spesso in disaccordo con lui, rimanere anche offesi dalle sue filippiche, ma nel trionfo della banalità e del conformismo dilaganti, la sua voce suonava viva e pungente, con toni che possono sembrare ingenui e apocalittici, come lo era quella di Pasolini.
Scrisse di lui Norberto Bobbio: "Ma Fofi è davvero un pessimista? Non direi. O almeno è un pessimista scontento di esserlo, che si sforza di non esserlo". Era un battitore libero. Un grande curioso.
È sempre stato profondamente irrequieto: dopo un po' si stufava di tutto, chiudeva, lasciava e cambiava città. Ma la sua passione era indiscutibile. Si è gettato a corpo morto in mille iniziative editoriali e sociali. Tra tutte le sue iniziative "Linea d'ombra", "Dove sta Zazà", “Lo straniero” sono state, secondo me, le più notevoli. Ma forse è un fatto generazionale: ci siamo formati su quelle pagine, abbiamo scoperto autori e mondi insospettabili.
Alla fine del secolo, Fofi tirò fuori dai suoi disordinati armadi dei testi scritti in passato e rimasti dimenticati nel vortice delle sue cento attività e iniziative. Testimonianza di questo travaglio intellettuale e politico, che non era mai disgiunto da un impegno pedagogico e da una costante attenzione al mondo dei ragazzi, sono il libro Strana gente. 1960: un diario tra sud e nord (Donzelli 1993) e La vera storia di Peter Pan (edizioni e/o 1994), che raccoglie alcune sceneggiature cinematografiche mai realizzate. Si tratta di alcune messe a fuoco di idee e situazioni del decennio 1968-1977, un "periodo tra il cane e il lupo", visto attraverso le lenti di un "educatore" legato all'esperienza dell'estrema sinistra:
"Vedevo il lavoro 'rivoluzionario' dell'educatore e a maggior ragione del rieducatore – e nella sostanza non ho cambiato idea – nel favorire la trasformazione di bambini e ragazzi giustamente 'disadattati' a un mondo di ingiustizie ('vagabondi' inefficaci, 'delinquenti' inefficaci) in cittadini attivi, coscienti, anticonformisti, ribelli ai valori borgesi, non 'integrati' e non complici di sistemi di sopraffazione e sfruttamento".
Sono testi "militanti" subordinati a una forte visione del mondo che lascia, volutamente, poco spazio a preoccupazioni di carattere artistico. Sono anche la testimonianza, lo ammetteva senza problemi Fofi nell'introduzione, del fallimento di un critico cinematografico che tenta di fare del cinema. Ma non il fallimento di un modo di vedere la realtà "dalla parte dei ragazzini", dei "personaggi di confine", di una sensibilità per i loro problemi ai quali gli errori politici della sinistra non hanno saputo dare risposte. Il testo più suggestivo era quello che dava il titolo al volume, del quale Fofi dice: "Purtroppo è l'unico dei soggetti di questo libro a non aver perso di attualità".
Lo spunto venne da un'ondata di suicidi di ragazzi che si verificò in Europa nell'estate del 1969, proprio mentre i giovani sembravano essere diventati un soggetto politico. Pietro, un ragazzino di Torino, si uccide e non si capisce perché, i suoi amici del biennio si interrogano, e rievocando episodi 'insignificanti' si avvicinano alla verità, a una verità: si è ucciso perché il mondo gli faceva paura, con la sua violenza palese e quella occulta, con i messaggi di morte e prepotenza che gli giungevano dai media, e di divisione e di odio che gli giungevano dalla scuola, dalla famiglia, dalla vita dei suoi, dalle manifestazioni e dagli scontri. Il film doveva esser girato nel corso di un anno, con un gruppo di ragazzi direttamente coinvolti nell'articolazione della storia stessa. Uccidersi per non diventare grandi o come i grandi (come il bambino di Germania anno zero di Rossellini, riferimento esplicito della storia di Fofi) è il senso più profondo che l'autore trae dalla storia di Peter Pan. Ma con un finale aperto, pieno di speranza nell'impegno dei ragazzi (il pessimismo, nel sessantotto, suonava fastidioso e scandaloso). Eppure ancor oggi Fofi, come la sua amica Elsa Morante, nonostante la realtà dimostri il contrario, vuol sperare che il mondo possa essere salvato dai ragazzini.
Nel libro Benché giovani. Crescere alla fine del secolo (edizioni e/o, 1993), Fofi si diceva d'accordo con l'idea che Peter Pan, il bambino che non vuol crescere, sia l'emblema di una umanità novecentesca cui di fatto si è impedito di crescere, "che la civiltà di massa del consumo e del consenso non vuol più che cresca perché se no che consumatore e che consenziente sarebbe?", ma non ritiene che il rifiuto di crescere sia un fatto del tutto negativo. Per Fofi la maturità è impossibile, sono impossibili la pienezza del vivere, il controllo del proprio destino e delle proprie scelte.
Tutto sommato Fofi rimase sempre legato alla visione politica della metà degli anni sessanta: "ci si impedisce di diventare adulti, e allora facciamo della nostra minorità una forza, consideriamo l'adolescenza come un valore, anzi come una classe, come un nuovo soggetto politico per età, diverso da quelli del passato che erano solo di classe e ceto". L'errore del movimento del sessantotto secondo lui è proprio quello di esser voluto diventare "adulto" di fronte alle prime difficoltà, "nella venerazione delle grandi barbe del marxismo-leninismo". Il buon educatoreLa vera storia di Peter Pan e Il periodo tra il cane e il lupo tentarono di rappresentare questo conflitto maturità/immaturità con i limiti e alcuni schematismi tipici di quel periodo, ma anche con molta lucidità e passione. Quei tre film non realizzati hanno, mi sembra, trovato una espressione artistica e un coerente messaggio ideologico, molti anni dopo, in un film che Fofi ha molto amato e sostenuto: Il ladro di bambini di Gianni Amelio.

Addio a Goffredo Fofi, storia di un ribelle radicale

Ci ha lasciato l’amatissimo collaboratore, l’intellettuale, il bastonatore, il critico letterario e cinematografico che ha segnato il 900.
 
di Cristina Battocletti
tratto da Il Sole 24 Ore del 11 luglio 2025


«Io alla lotta di classe ci credo!», esclamava quasi protestando Goffredo Fofi nel bel documentario di Felice Pesoli, Suole di vento, che ritraeva l’attivista e pensatore eugubino (guai a usare la parola intellettuale!) in tutta la sua inetichettabile irregolarità. La veemenza era dovuta alla consapevolezza che quella frase era per i più oggi uno slogan vuoto, mentre per lui, proletario per nascita e francescano laico per scelta, è stata una fede. Per questo saliva e scendeva in continuazione dai treni a portare la sua filosofia radicale dove lo invitano studenti, comunità, associazioni di qualsiasi tipo, purché libere. E in uno di questi suoi perenni viaggi tra Milano, Roma, Calabria, Salento, Napoli e presentazioni è inciampato e ha messo fine a una vita che tutti noi credevamo immortale. In fondo girava con il bastone da decenni pur camminando più veloce di un ragazzino.

Da «Quaderni rossi» a «Gli asini»
Con lui va via il Novecento e non è un modo di dire. Critico letterario e cinematografico, temutissimo per la sua ferocia dai Pasolini, dai Fellini e dagli Antonioni, sostenitore di nuovi talenti, «che poi impallino al tiro al piattello» si prendeva in giro, è stato soprattutto critico con la società. Scopritore di talenti letterari, agitatore di idee radicali, portatore di un pensiero “in movimento”, con cui ha riempito le riviste che ha contribuito a realizzare – «Quaderni rossi», «Quaderni piacentini», «Ombre rosse», «Positif» -, o ha creato – «Linea d’ombra», «Lo straniero», «Gli asini» – e molte pagine di questo giornale, ha raccomandato visioni e letture originali, marginali, disturbanti, sicuramente oppositive al narcisismo di massa, alla cultura dei baroni, contro cui ha fondato l’“università degli asini” per un sapere non convenzionale.

Vagabondo
Era un vagabondo e ha avuto tante case. Amava moltissimo però la sua casa romana spartanissima, al primo piano, dove a pranzo e a cena ospitava sempre ragazzi che ingaggiava in qualche impresa per combattere la sciatteria culturale, per portare avanti un’idea nuova di Paese, sincera, solidale, per tutti. Quella natale, Gubbio, dove vive ancora il resto della sua famiglia di origini contadine, che era così povera da costringere il padre a emigrare in Germania, da cui fuggì quando rischiava di essere assoldato dai nazisti. Tornato in Italia, portò il piccolo Goffredo a Roma a visitare le Fosse Ardeatine che l’eccidio è ancora fresco, piantando un seme antifascista nel figlio. Il bambino, rapito da una terribile paura della morte, guarì accompagnando avanti e indietro il prete dal cimitero come chierichetto.
Il cattolicesimo è un punto fermo fino all’adolescenza, da qui la sua simpatia per i preti di strada, gli “ultimi” di padre Turoldo e don Tonino Bello. Gubbio è anche la città dove si innamora del divertimento alla portata di tutti, il cinema, e soprattutto di Macario, Magnani (allora comica) e Totò e grazie a cui mette le fondamenta per teorizzare la grandezza artistica del principe de Curtis, su cui tutti poi lo avrebbero seguito.

L’esperienza con Danilo Dolci, Roma, Torino, Parigi
Diplomato maestro, parte per la Sicilia di Danilo Dolci, si occupa dei bambini, mette in pratica gli scioperi alla rovescia, dove si costruiscono strade, scuole, fogne invece di incrociare le braccia, e impara un modello di lotta e di organizzazione diverso da quello della politica. A Roma frequenta poi la scuola olivettiana per assistenti sociali e completa l’ossatura di intellettuale (ahi, di nuovo!) scomodo, pronto ad agire nei luoghi “caldi”. Prima a Torino, davanti ai cancelli della Fiat, poi a Parigi, dove si immerge in un consumo smodato di cinema; arriva, quindi, nella Milano operaia e nella Napoli della cultura orale e teatrale, passando per la Bologna del fumetto tra Pazienza e Mattotti. Infine, Roma. Molti gli incontri fondanti – Ada Gobetti, Elsa Morante, Carmelo Bene, Grazia Chierchi e Piergiorgio Bellocchio; molti i libri scritti dall’uomo dalle suole di vento, soprannome che Paul Verlaine usava per Arthur Rimbaud.
Cinque anni fa è uscito per La Nave di Teseo Il secolo dei giovani e il mito di James Dean, un excursus sulla volontà novecentesca di uccidere gli impeti ribellistici dei ragazzi. Sono tre attori per Fofi a squadernarne la retorica (alla Ronald Reagan): Montgomery Clift, Marlon Brando (Fofi ha dedicato un meraviglioso libro all’attore, ripubblicato da Castelvecchi nel 2014, a causa del quale chi scrive ha perso un aereo) e il James Dean de I ribelli senza causa di Nicholas Ray del ’55, che in Italia avrà per titolo Gioventù bruciata. Sono loro a dare negli anni Cinquanta ai coetanei, cui manca una causa comune per cui lottare, un senso di unità e fraternità attraverso un codice comunicativo collettivo, fatto di posture, modi di gesticolare e parlare, per far fronte alla solitudine dei genitori ossessionati dal consumismo.

Produzione sterminata
Goffredo ha avuto una produzione sterminata. Alcuni suoi libri fondamentali sono L’immigrazione meridionale a Torino (Feltrinelli, 1964), Totò. L’uomo e la maschera, a cura di e con Franca Faldini, (Feltrinelli 1977), L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di e con Franca Faldini (Feltrinelli, I, 1979, II, 1981), Marlon Brando, con Tony Thomas (Gremese Editore, 1982 e poi Castelvecchi), Storia del cinema (Garzanti), Più stelle che in cielo, nella revisione ampliata e riveduta (Cue Press), che scorre la storia del cinema, da Fred Astaire ad Alberto Sordi, da Maria Montez a Lucia Bosé, passando per l’imprescindibile Totò, che si impone a Fofi anche da morto. Nel momento in cui il critico si nega al telefono per l’ennesima presentazione, nella stanza accanto cade il quadro del principe. Fofi corre al telefono per confermare la sua presenza.
Il suo amico e allievo, Emiliano Morreale, ha fatto un lavoro magistrale, curando un’antologica di tutto ciò che aveva scritto e l’avevano intitolato Sono nato scemo e morirò cretino (minimum fax, 2022).
Goffredo aveva scritto ultimamente un libro su persone care morte troppo presto, Cari agli dèi (edizioni e/o, 2022). Lui giovane non è morto, aveva 88 anni. Ma mannaggia quanto ci mancherà.

Disparità di genere in Italia: dati, cause e possibili soluzioni

 
tratto da Etica.sgr del 7 marzo 2025 (ripreso dal quotidiano “Avvenire”)
 
La parità di genere è ancora lontana dall’essere raggiunta. Al ritmo attuale, si stima che verrà conseguita solo nel 2158, ben oltre gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. Secondo il Global Gender Gap Report 2024 del World Economic Forum, i Paesi più vicini alla parità sono l’Islanda (93,5%), la Finlandia (87,5%) e la Norvegia (87,5%). L’Italia, con il 70,3%, scivola all’87° posto, perdendo otto posizioni rispetto al 2023 e certificando un preoccupante arretramento: negli ultimi due anni, il Paese ha perso ben 24 posizioni.
Uno degli indicatori chiave della parità di genere è l’occupazione. In Italia, il tasso di impiego femminile si ferma al 52,5%, quasi 18 punti percentuali in meno rispetto a quello maschile (70,4%). Questo dato colloca il Paese tra gli ultimi in Europa per partecipazione femminile al lavoro, ben al di sotto della media UE del 70,2%. Inoltre, il tasso di disoccupazione femminile è quasi il doppio di quello maschile (8,4% contro 4,9%).
 
Disparità di genere nel lavoro: il divario tra Nord e Sud
Nel 2024, secondo l’INAPP, il 42% delle nuove assunzioni in Italia ha riguardato donne. Tuttavia, le lavoratrici sono più spesso impiegate con contratti precari: il part-time involontario interessa il 49,2% delle donne, contro il 27,3% degli uomini. Solo il 13,5% delle assunzioni femminili è a tempo indeterminato, una quota inferiore persino ai contratti stagionali (17,6%). Inoltre, il fenomeno del lavoro povero colpisce le donne tre volte di più rispetto agli uomini (18,5% contro 6,4%), con una forte concentrazione nei settori meno retribuiti, come istruzione e sanità.
La situazione è ancora più grave nel Sud Italia, dove il tasso di occupazione femminile scende sotto il 40%: nel Mezzogiorno, solo il 39% delle donne tra i 20 e i 64 anni lavora, rispetto al 67% nel Nord e al 62,6% nel Centro. La scarsa presenza di servizi per l’infanzia e la diffusione del lavoro precario penalizzano ulteriormente l’occupazione femminile.
 
Dimissioni post-partum: un fenomeno allarmante
Un altro indicatore della disparità di genere è il fenomeno delle dimissioni post-partum: una donna su cinque lascia il lavoro dopo la maternità. Le principali cause sono la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia (52%) e ragioni economiche (19%), legate ai costi elevati per l’assistenza ai figli. Il divario occupazionale tra uomini e donne (17,5%) cresce fino al 34% in presenza di un figlio minore.
L’istruzione rappresenta un fattore protettivo: il 91,5% delle donne con un alto livello di istruzione mantiene il proprio impiego dopo la maternità. Tuttavia, le difficoltà di conciliazione tra vita lavorativa e familiare sono aggravate da un gender pay gap del 10,7%, che sale al 27,3% nelle posizioni dirigenziali. Inoltre, solo il 31,5% dei membri dei CdA delle società quotate in borsa sono donne.


Più servizi e misure per la conciliazione lavoro-famiglia
Per colmare il divario di genere, sono necessarie politiche strutturali. L’aumento del congedo di paternità obbligatorio a 10 giorni e incentivi per l’assunzione di donne in condizioni di svantaggio sono passi importanti, ma insufficienti.

Congedo di paternità (2013-2022)

2013
Meno di 1 padre su 5 usufruisce del congedo (19,25%).
51.745 padri beneficiari.

2022
Più di 3 padri su 5 usufruiscono del congedo (64,02%).
172.797 padri beneficiari.

Differenze in base al numero di figli
+Primo figlio: 65,88% dei padri usufruisce del congedo.
Secondo o successivo figlio: 62,08% dei padri usufruisce del congedo.

Attualmente, il gender pay gap sulla retribuzione annua media in Italia raggiunge il 43%, ben oltre la media UE del 36,2%.
 
Un’altra sfida cruciale riguarda i servizi per la prima infanzia. Nel 2021/2022 erano attivi 13.518 nidi e servizi integrativi, con oltre 350.000 posti disponibili, ma solo il 48,8% era pubblico. Il numero insufficiente di strutture penalizza le famiglie, in particolare nel Sud Italia, dove la domanda resta insoddisfatta e le rette sono elevate.
Parità di genere, l’impegno di Etica Sgr
Etica Sgr si impegna attivamente nella promozione della parità di genere attraverso diverse iniziative. Nel 2020 ha lanciato, ad esempio, il bando “Semi di Futuro” per sostenere progetti di imprenditorialità femminile contro la violenza di genere. Nel 2021, ha promosso il progetto “Mio il denaro mia la scelta!” per finanziare iniziative di educazione finanziaria rivolte a donne in condizioni di vulnerabilità economica.
Per far fronte a questo problema è stata lanciata Monetine, piattaforma di attivismo civico e finanziario nata per aiutare le donne seguite e ospitate dai centri antiviolenza che si trovano in condizione di fragilità economica ad avere strumenti concreti di empowerment ed educazione finanziaria
Attraverso attività di stewardship, Etica Sgr dialoga con le imprese in cui i fondi investono, promuovendo politiche di pari opportunità e monitorandone l’attuazione.
Questi sforzi contribuiscono al raggiungimento dell’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU per lo sviluppo sostenibile: la parità di genere.

Gli anni 70, un decennio di svolta per le italiane

Attraverso le foto di Paola Agosti e i testi di Benedetta Tobagi si ripercorre una stagione irripetibile di battaglie, compattezza e anche di contrasti all’interno del femminismo.

di Eliana di Caro
tratto da Il Sole 24 ore del 2 dicembre 2024


Il basco calato sulla fronte, il maglioncione di lana grossa, il viso di ragazza acqua e sapone con un enorme cartello appeso al collo e la scritta «Cari compagni, non avete capito niente, dei lavoratori ne vedete solo la metà»: gli anni 70 delle donne sono tutti in immagini come questa, oltre a quelle dei girotondi, delle mani che alludono alla vagina, del profluvio di slogan uno più efficace dell’altro. I destinatari che “non hanno capito niente” sono gli uomini, a partire da quelli attivi nel sindacato o in un partito in cui le donne si riconoscono ma che non le considera. Il che è ancora più inaccettabile.

Sono immagini di un decennio di battaglie che hanno contribuito a cambiare la società e su cui si è scritto molto, che qui scorrono come in un film in bianco e nero, potenti ed eleganti, accompagnate da parole che di quel film sono la puntuale sceneggiatura: Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli Anni Settanta è un libro da conservare, consultare, sfogliare. La misura è indovinata (la forza delle foto integrata dalla chiarezza delle parole), adatta agli adulti che sanno – e vogliono reimmergersi in quella stagione – e a quelli che non sanno, perché il racconto non dà nulla per scontato. Soprattutto è perfetto per le ragazze e i ragazzi: si renderanno conto che siedono sulle spalle di chi ha ha combattuto per loro riempiendo le piazze.

Covando un mondo nuovo contiene lo sguardo di chi c’era e ha fermato quei momenti: Paola Agosti, classe 1947, che ha intercettato nei suoi scatti i volti, gli slogan, le strade, le masse di donne che si organizzano, si uniscono, urlano mosse da un unico sentimento che tiene insieme tutti gli altri. Contro che cosa si ribellano? Contro il patriarcato, è fin troppo facile. Contro la reclusione tra quattro mura, loro che angeli del focolare non si sentono o, tutt’al più, vogliono decidere liberamente se e in che misura esserlo. Contro le leggi che vietano: la vendita dei contraccettivi, il divorzio, l’aborto (“L’utero è mio e me lo gestisco io”). Contro una sessualità che non vivono liberamente, anzi, la subiscono, peggio, non sanno bene come esprimerla perché da sempre non è chiesto alle donne di esprimerla. Contro le iniquità economiche: lavori sottopagati, licenziamenti immediati quando restano incinte, incombenze casalinghe e cura della famiglia da cui sono schiacciate. In una parola, si ribellano contro la certezza di una condizione impari che non è più tollerabile

Benedetta Tobagi, trent’anni più giovane di Agosti, ricostruisce lo scenario, ci porta nei luoghi (via del Governo Vecchio a Roma, il teatro della Maddalena, la Libreria delle Donne a Milano, i consultori autogestiti), ricorda i giornali che erano un punto di riferimento («Noi donne», «Effe»), dà visibilità ai nomi, rievoca i processi legislativi che faticosamente – e a prezzo di inevitabili compromessi – cambiano le cose. C’è una parola cardine da cui discendono convinzioni e azioni: è “femminismo”, con tutto il vocabolario che si porta dietro (autocoscienza, emancipazione, liberazione, differenza, il personale è politico, autodeterminazione ecc) e i contrasti che vi si generano: dal separatismo sì/separatismo no alla lotta per la depenalizzazione dell’aborto portata avanti dalle radicali in opposizione alla conquista della legge poi approvata (la 194).

Una battaglia, quest’ultima, condotta non solo sul piano normativo ma anche medico. Lo spiega bene la voce della torinese Tullia Todros, specializzanda in ginecologia agli inizi del decennio, quando «i ginecologi sono praticamente tutti maschi, alla specializzazione eravamo 4 donne su 80 uomini». Giovane madre, militante di Avanguardia operaia e femminista, poi primaria di ginecologia e ostetricia all’ospedale Sant’Anna, ha raccontato a Benedetta Tobagi quanto fosse importante la condivisione di esperienze e informazioni: «Anche noi medici impariamo, dalle altre donne, insieme a loro», interpretando il servizio pubblico quale servizio alla persona e nel solco dei diritti (quello che le italiane si aspettavano, reclamavano, e non accadeva, come denuncia lo striscione “ginecologi, rifiutate l’aborto terapeutico gratis per fare quello clandestino a 800mila lire.

Nelle piazze non campeggiano solo gli slogan – accompagnati dalle canzoni e dai girotondi – ma anche pupazzi e carri di cartapesta come quello, autoironico, a forma di gallina: gigantesco, costituisce la rivalsa dell’animale a cui le donne sono accostate quando se ne vuole irridere la scarsa intelligenza o si punta all’insulto grossolano (“bella pollastrella”). Èun mondo che, negli anni 80, pian piano lascia il passo a espressioni meno plateali e più riflessive. È cambiata l’aria, certo. La parola “rivoluzione”, al cui grido tante si erano lanciate nella protesta, suona quasi desueta, anche se gli obiettivi da perseguire non mancano. Uno di essi che unisce nuovamente tutte le donne si coglierà nelle Aule parlamentari, con i tempi lenti della politica: la legge sulla violenza sessuale contro la persona (1996). Ma anche questa battaglia in realtà si era combattuta sin dalla seconda metà degli anni 70 (annunciata nel ’66 dalla tenacia di Franca Viola che si era opposta al matrimonio riparatore dopo essere stata stuprata). È in quella fase che la consapevolezza di processi vergognosi, in cui la vittima viene colpevolizzata e costretta a interrogatori umilianti, si fa largo grazie ad avvocate come Tina Lagostena Bassi che rovesciano il copione nei Tribunali (gli archivi con le carte processuali sono patrimonio della Fondazione intitolata alla stessa Lagostena Bassi, a Roma).

L’eredità di quel decennio, ripercorsa in queste pagine, è una spinta preziosa per le nuove generazioni a non fermarsi, a guardare avanti, realizzando una piena ed effettiva parità che non rimanga un orizzonte ideale cui tendere.

(Paola Agosti, Benedetta Tobagi: “Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli Anni Settanta” - Einaudi, pagg. 144, € 34)

Chi è l’amica geniale

Grande successo di ascolti per la serie in onda su Rai 1. Parla di un complesso intreccio di amore, sentimenti, relazioni, conflitti che, con grande maestria, Elena Ferrante, tantissimi libri venduti in tutto il mondo, svela al pubblico. Abbiamo ritenuto interessante riportare il pezzo che segue, tratto da Vanity Fair. Lunedì 9 dicembre gli ultimi due episodi. Grande attesa tra gli appassionati.
 
(NdR)
 
L'Amica Geniale 4, episodi 3 e 4: Lenù diventa finalmente adulta e Lila racconta per la prima volta il suo (vero) tormento.
Il terzo e quarto episodio di Storia della bambina perduta raccontano il fragilissimo equilibrio di Lila, che svela per la prima volta a Lenù la sua vera fragilità.
 
di Mario Manca
tratto da Vanity Fair del 18 novembre 2024


Il momento più intenso del terzo e quarto episodio de L'Amica Geniale arriva verso la fine di quest'ultimo, quando Lenù (Alba Rohrwacher), che per tutta la vita ha sempre rincorso Lila (Irene Maiorino) cercando di conquistarsi con il sudore della fronte quello che per lei sembrava sempre così facile e abbordabile, capisce finalmente il punto debole dell'amica. Succede quando sono entrambe accucciate di sera in macchina mentre il Rione e Napoli affrontano il terrore dei cittadini sopravvissuti al terremoto: in quell'occasione, infatti, le due donne, unite come quando erano bambine, si parlano come forse non hanno mai fatto prima, con Lila che confida a Lenù che la sua testa ha sempre trovato uno spiraglio per guardare oltre e, quindi, sopravvivere. «La testa non posso fermarla», dice Lila parlando di quella smarginatura che Elena Ferrante ha reso così chiara sulla pagina e che gli sceneggiatori della serie prodotta da Freemantle, The Apartment e Wildside e da Domenico Procacci per Fandango in collaborazione con Rai Fiction e con Hbo Entertainment Saverio Costanzo, Francesco Piccolo e Laura Paolucci sono riusciti a traslare sullo schermo con verità e commozione. «Non mi lasciare, altrimenti io cado giù», insiste Lila di fronte a una Lenù sgomenta, che ha visto la sua amica geniale cadere e rialzarsi molte volte ma che non ha mai visto così vulnerabile e alle prese con una lotta contro sé stessa per rimanere ancorata alla realtà.


«La maestra Oliviero aveva ragione: io sono cattiva. Tu, invece, sei gentile, se ti offendo tu non ascoltare», le ripete ancora una volta Lila in questa sorta di epifania in cui Lenù, oltre a non avere alcuna intenzione di lasciarla, capisce che, «quando il caos prendeva il sopravvento, Lila perdeva Lila». La sua fortuna è stata che al momento del terremoto fosse insieme a lei, con Lenù che in questo terzo e quarto episodio si rende finalmente conto di essere cresciuta e di avere sulle sue spalle delle responsabilità. Dopo aver perso la testa per Nino Sarratore (Fabrizio Gifuni) e aver rinunciato a (quasi) tutto per lui, è la realtà a bussarle alla porta: prima con il ritorno al suo quartiere d'origine per fare pace con quello che ha lasciato e poi con il rapporto con sua madre (Anna Rita Vitolo), che lei ha sempre visto ostile e severa quando in realtà è sempre stata segretamente orgogliosa di lei. «Non mi aspettavo da tua sorella le cose che mi aspettavo da te», le dice Immacolata dimostrando una stima sterminata nei confronti della figlia anche se, quando era bambina, non voleva né che continuasse a studiare né che la lasciasse sola. L'altro momento in cui Lenù capisce di essere diventata grande corrisponde a quello in cui sua madre si ammala di un carcinoma che potrebbe essersi esteso a tutto il corpo.


«Sei l'unica figlia mia», le dice Immacolata dopo che Lenù, incinta di Nino, corre per tutto il Rione con il fiatone per raggiungerla. La scena in cui la aiuta a mettersi le pantofole come se fosse una bambina e quella in cui in macchina sua madre dice che «quando sai come soffrire l’angelo della morte lo rispetta e dopo un poco se ne va» è forse quella più forte dell'intera Amica Geniale, perché il dramma affrontato di Lenù, che corrisponde al momento in cui i figli diventano genitori e i genitori diventano figli, è un passaggio della vita di ognuno di noi che presto o tardi arriverà e ci metterà di fronte a una resa dei conti non di poco conto. Acquisire consapevolezza rispetto all'età più giovane trova, però, in Lenù anche un altro snodo cruciale: quello in cui fa visita alla famiglia Sarratore e, osservando Donato (Emanuele Valenti), il padre di Nino che quando era una ragazza le aveva messo le mani addosso, si chiede «com'è possibile che sono stata con quest'uomo laido, calvo, sciatto». A far male allo spettatore è, però, l'ossessione per Nino che continua ad avvelenare Lenù anche se, nell'ultima sequenza, quando la donna alza lo sguardo al soffitto dell'appartamento che condivide con l'uomo e scorge una crepa causata del terremoto, capisce dentro di sé che forse l'idillio è finito. Nino non ci ha pensato due volte a lasciare Napoli con sua moglie - quella vera - mentre lei è incinta e sola, e questo la dice lunga sulla tossicità di un uomo che non ha mai perso le cattive abitudini di un tempo e sul quale Lila ha sempre avuto delle riserve - «Il tuo amante non è mio amico, e forse non è neanche amico tuo». Lenù, però, fa finta di non vedere, almeno fino a quando tutt'intorno a lei - la droga portata al Rione da Marcello Solara, Lila che pensa che la sua gravidanza le sia ostile e suo fratello Rino diventato un tossicodipendente - non incomincia a soffocarla lentamente.

Il Lunedì Sale: lunedì 25 novembre

Lunedì 25 novembre
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Ancora Troppe


Il 25 novembre è la data in cui si celebra la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999. Viene precisato che si intende per violenza contro le donne "qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata".La violenza contro le donne è ritenuta una manifestazione delle "relazioni di potere storicamente ineguali" fra i sessi, uno dei "meccanismi sociali cruciali" di dominio e discriminazione con cui le donne vengono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini per impedirne il loro avanzamento.”
Molteplici sono le campagne istituzionali e non, presenti nel nostro Paese nonché molteplici iniziative trasversalmente in tutti gli ambiti della nostra vita sociale.
Molto importante, ad esempio, il contributo di sensibilizzazione della Rai che ha investito la programmazione di tutto il suo palinsesto. In particolare segnaliamo il link del video relativo al “progetto “la scala del rispetto” nato per accrescere la consapevolezza all’interno di una relazione e sottolineare l’importanza di saper riconoscere i comportamenti allarmanti del partner. La scala del rispetto rappresenta un metro concreto per prendere le distanze dalle relazioni a rischio: individua un elenco di comportamenti partendo da quelli che caratterizzano un rapporto in cui ci sono equilibrio e rispetto, passando attraverso un’escalation di parole e azioni con un grado crescente di prevaricazione e pericolosità per la donna, dalla violenza verbale a quella psicologica, fino alla violenza fisica”.

https://www.rainews.it/tgr/lazio/video/2024/11/un-video-per-riconoscere-i-segnali-di-violenza-crescente-in-una-relazione--2784f17e-81aa-4b43-92a1-f82861b0c9b6.html

La nostra riflessione a riguardo fa riferimento al grandissimo impegno che Lucia Mastrodomenico ha avuto nei confronti della libertà femminile a partire dalla educazione alla differenza sessuale tra i più piccoli, frutto della relazione con la filosofa Luce Irigaray relativamente alla esperienza pedagogica della differenza sessuale. Per costruire una relazione di rispetto per l’altra è necessario partire dall’infanzia, educando al pensiero della differenza, a partire da quella di genere. Il rispetto per l’altra è una categoria del pensiero alla quale si deve essere educati sin da piccoli. La mediazione del linguaggio diviene fondamentale per spiegare l’identità sessuale, la differenza di genere. L’esercizio della libertà, in questo caso quella femminile, ha bisogno del riconoscimento della diversità sessuale; solo in questo modo è possibile individuare quello spazio di irriducibilità dell’uno verso l’altra che costituisce la sostanza del rispetto. L’Amore non conosce la sopraffazione ed il possesso ma il rispetto e la libertà nella relazione.

Maria Vittoria Montemurro

Punizione, non accoglienza. Quel che non funzionerà dei centri in Albania

di Maurizio Ambrosini 
tratto da Avvenire del 13 ottobre 2024

Il governo non ha esitato a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti e questo spargerà paura tra i richiedenti asilo. Senza contare i problemi organizzativi annunciati.


Il governo Meloni ha annunciato l’imminente apertura dei due centri per il trattamento dei richiedenti asilo in Albania. Dopo vari annunci e rinvii (i centri dovevano aprire il 20 maggio) forse questa volta ci riuscirà davvero. Per raggiungere l’obiettivo, ha fatto ricorso alle procedure d’urgenza che saltano vincoli e garanzie delle normali gare d’appalto. I centri saranno due: uno al porto di Schengjin, destinato all’identificazione e alle procedure d’ingresso, con una capienza di 200 posti. Tre milioni di euro il costo di realizzazione, più 200.000 per gli allacci nel solo 2024. L’altro, a Gjader, comprende una struttura per il trattenimento di richiedenti asilo (880 posti), un Cpr (144 posti) e un penitenziario (20 posti). Altri milioni di euro spesi. Ingenti i costi di gestione previsti: 800 milioni di euro da qui al 2028 (Il Sole-24 Ore), tutti a carico dell’Italia, ma con ricadute occupazionali ed economiche al di fuori del nostro paese.

Per giustificare la controversa iniziativa, il governo ha fatto ricorso a un doppio linguaggio: di fronte alle istituzioni di garanzia e nei consessi europei e internazionali, ha parlato di una soluzione volta ad accrescere la capacità d’accoglienza e di esame delle domande. Di fronte all’opinione pubblica interna e ai propri sostenitori, non ha esitato invece a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti. Il fatto - pure sbandierato - che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da Paesi classificati come sicuri, conferma l’intenzione punitiva del progetto, e dunque l’obiettivo di spargere paura tra i candidati all’asilo. Non per caso, l’ispirazione è venuta dal progetto britannico di deportazione in Ruanda dei migranti sbarcati dal mare.

Gli interrogativi riguardano sia il livello pratico-operativo, sia quello dei principi. Anzitutto, il piano governativo si concentra su una parte dei richiedenti asilo: 39.000 casi all’anno, contro 52.425 sbarcati all’11 ottobre, pur calati rispetto allo scorso anno. Ma il calcolo si basa sull’ipotesi di trattare le domande in quattro settimane, grazie a una procedura accelerata, mentre oggi serve mediamente più di un anno, spesso due. Già si prevedono collegamenti online con Roma e altre forzature procedurali, che non sfuggiranno al vaglio della magistratura. Per accelerare i tempi, si comprimono i diritti dei richiedenti, lasciando loro pochissimo tempo per prepararsi all’audizione, raccogliere la documentazione utile a suffragare la loro richiesta, fare appello alla giustizia in caso di diniego. Quanto all’elenco dei Paesi sicuri, basti ricordare che la lista italiana è stata recentemente allargata a 22 Paesi, tra cui Egitto, Tunisia, Nigeria, contro nove soltanto della Germania. Casi dunque assai dubbi, “sbiancati” a priori per poter accrescere i dinieghi dell’asilo: non i rimpatri, molto più complicati e costosi.

Non è chiaro poi che cosa succederà ai richiedenti la cui domanda verrà respinta. Data la scarsa capacità delle autorità italiane di realizzare i rimpatri, non sembra né giusto né realistico pensare a un rilascio in Albania, a cui peraltro il presidente Rama si è già risolutamente opposto. Si potrebbe configurare l’esito paradossale di un trasferimento in Italia dei richiedenti diniegati. Al cospetto di un mondo in cui le crisi umanitarie si moltiplicano, la risposta è quella di una restrizione di umanità: impedimenti ai salvataggi delle Ong, quasi abolizione della protezione speciale, fondi e appoggi ai governi autoritari della sponda Sud del Mediterraneo per ingaggiarli nel contrasto dei transiti, contrazione della protezione dei minori non accompagnati. Ora anche i trasferimenti in Albania. Può darsi che l’Ue di oggi sia più disponibile a tollerare queste misure, ma la mobilitazione delle coscienze, già così viva in tante iniziative di solidarietà dal basso, è chiamata a rispondere con l'affermazione e il sostegno dell'accoglienza.