tratti da Doppio
Zero del 12 luglio 2025
Gubbio-Palermo-Parigi-Torino-Napoli-Milano-Roma
di Alberto Saibene
Goffredo Fofi
aveva una voce molto bella, senza inflessioni regionali, molto amata dagli
ascoltatori della radio e da chi lo ascoltava in giro per l’Italia dove parlava
a braccio, aiutandosi a volte con un foglietto pieno di appunti. Era nato a
Gubbio nel 1937 da una grande famiglia mezzadrile ed era cresciuto solitario,
finché gli accadimenti della Seconda guerra mondiale, la crudeltà nazista vista
con gli occhi di un bambino, lo resero – è lui ad averlo affermato – per sempre
nevrotico.
Fu da subito un
lettore onnivoro e un frequentatore di cinema che allora era uno spettacolo
popolare e la prima informazione sugli usi del mondo in una nazione ancora
rurale. L’incontro con Aldo Capitini, perugino, padre del pacifismo italiano,
lo spinse a raggiungere Danilo Dolci in Sicilia. L’esperienza con Dolci,
triestino trasferitosi nel Sud più diseredato, promotore degli ‘scioperi al
contrario’ fu una scuola di vita, ma anche il primo confronto con una figura
carismatica con cui finì col litigare.
In Sicilia
conobbe Angela Zucconi che lo invitò a Roma per frequentare il CEPAS, la scuola
per assistenti sociali, finanziata da Adriano Olivetti. L’inquietudine, una
delle caratteristiche principali del suo carattere, lo spinse a trasferirsi a
Torino (molto bello è Strana gente, il diario del 1960, dove ci si
stupisce del numero di persone interessanti con cui Fofi è già in rapporti:
Silone, Ada Gobetti, Gigliola Venturi e tanti altri) dove prepara il suo primo
libro L’immigrazione meridionale a Torino, rifiutato da Einaudi che
procurò una dolorosa spaccatura all’interno della casa editrice, pubblicato poi
da Feltrinelli nel 1964. È forse il libro più importante di Fofi, un’inchiesta
in presa diretta (con testimonianze e statistiche) sulla nostra società nel
momento della sua massima trasformazione.
Il periodo
successivo lo trascorse soprattutto a Parigi dove i genitori erano immigrati
per lavoro e dove Fofi coglie la nouvelle vague in presa diretta. Si avvicina a
“Positif”, la rivista rivale dei “Cahiers du Cinema”, dove diventa un critico
cinematografico militante, importando poi in Italia un modo di scrivere di
cinema da noi sconosciuto, collegando l’opera dei registi alla società. In
Italia la sua tribuna diventano i ‘quaderni piacentini’, la rivista fondata nel
1962 a Piacenza da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi. Fofi, poi terzo
direttore, è una sorta di ‘ministro degli esteri’ della rivista attirando nuovi
collaboratori come Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni (scomparso nei giorni
scorsi) e conoscendo Bianca Beccalli, Giovanni Jervis, Guido Viale, Vittorio
Rieser, Carlo Donolo e dialogando con i più grandi Cesare Cases, Franco
Fortini, Sebastiano Timpanaro, Giovanni Giudici, Renato Solmi e altri ancora.
Il meglio della sinistra critica che aveva in Raniero Panzieri il suo punto di
riferimento.
La rubrica
cinematografica di Fofi era tra le più lette anche per la virulenza, a volte,
degli attacchi ai grandi registi italiani del momento (Antonioni, Fellini,
Visconti). Almeno su Fellini, Fofi cambiò idea, ma il suo principale contributo
alla conoscenza del nostro cinema, oltre alla capitale rivalutazione di Totò in
un libro del 1968, scritto insieme a Franca Faldini, compagna dell’attore, fu
la bellissima Avventurosa storia del cinema italiano, che uscì a
cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, sempre in collaborazione con la
Faldini, una oral history del nostro cinema che è uno spaccato
sulla società italiana dagli anni Trenta ai Settanta.
In quel decennio
Fofi transitò per Napoli, nel periodo di maggior presa dei movimenti post ‘68
(la sua area di riferimento era quella di Lotta Continua) dove partecipò
all’esperimento della Mensa dei bambini proletari, occasione in cui fece
amicizia con Fabrizia Ramondino, insieme a Elsa Morante e Annamaria Ortese, nel
pantheon fofiano delle grandi scrittrici novecentesche.
Nei primi anni
Ottanta si trasferì a Milano, che già frequentava collaborando con la
Feltrinelli e più tardi con la Garzanti (sono capitoli ancora da indagare i
suoi contributi alla nostra migliore editoria, grande e piccola). Nella città
lombarda fondò nel 1983 “Linea d’Ombra”, rivista che ha contribuito a
rilanciare il discorso politico in un momento di fiacca, ma soprattutto a far
conoscere scrittori extra europei o nordamericani, ad aprirsi al mondo
dell’illustrazione, a cercare nuove forme di narrazione fuori dal romanzo
(Kapuscinski, per fare un solo nome). Lo ricordo alle riunioni della rivista,
nel soggiorno di Lia Sacerdote, dove per un momento chiudeva gli occhi prima di
attaccare a parlare.
Il rapporto con
Milano fu tuttavia controverso perché la sua figura di outsider non
fu mai riconosciuta dall’industria culturale, né dai grandi giornali. Fofi nel
frattempo era diventato un polemista noto anche a una cerchia più ampia, pieno
di amici ma anche di nemici che non sopportavano il suo ideologismo. I nemici
non lo spaventavano, gli davano soprattutto fastidio “gli inutili”, chi
scriveva libri ‘carini’ o dirigeva film ‘gradevoli’. Insomma aborriva il midcult,
memore della lezione di Dwight MacDonald, additando ad esempio i non
riconciliati di cui Carmelo Bene era l’alfiere.
Stufatosi di
‘Linea d’Ombra’ fondò alla fine degli anni Novanta “Lo Straniero”, con sede a
Roma ma punto di incontro di una nuova classe intellettuale che veniva da tutta
Italia. Un luogo dove ritrovarsi erano i seminari di Cenci, ospiti di Franco
Lorenzoni. Tra i tanti collaboratori è giusto almeno ricordare Alessandro
Leogrande, giovane intellettuale tarantino, suo unico possibile erede, che morì
a soli 40 anni, e Luca Rastello, giornalista-scrittore torinese, anche lui
scomparso a poco più di cinquant’anni, che con Piove all’insù (2006)
ha raccontato con straordinaria efficacia un pezzo di storia del nostro Paese.
Sono moltissimi i libri firmati da Fofi e per cominciare a conoscerlo forse
bisogna partire dall’antologia curata da Emiliano Morreale, Sono nato
scemo, morirò cretino (2022) e, anche se poco incline
all’autobiografismo, sono belle tante pagine Le nozze coi fichi
secchi (1999) in cui narra gli anni dell’infanzia e della formazione.
Anche se aveva
molto poco in comune con Benedetto Croce sono due le caratteristiche che li
uniscono: un’inesausta capacità di lavoro e una ‘famiglia’ di amici sparsi per
l’Italia e per il mondo. Le amicizie nate attraverso Goffredo sono
innumerevoli. Continueremo nel suo ricordo.
Goffredo Fofi © Dario Nicoletti
L’eduzione impossibile
di Francesco M. Cataluccio
Se n'è andato
anche Goffredo Fofi. Quell'anche, (mentre lo scrivevo ho sentito il suo
sogghigno sul collo!), non gli sarebbe garbato. All'apparenza non apprezzava
nulla, anche le cose che gli piacevano. Si indignava per tutto, e pure per se
stesso, anche se sembrava avere un'alta stima di sé.
Per questo è stato, a suo modo, un Maestro. Con lui dovevi stare sempre sulla
difensiva, ma ti faceva comprendere l'altra faccia delle cose.
Una figura
importante e generosa, spesso sanamente incoerente, della cultura italiana del
dopoguerra.
Si può essere stati spesso in disaccordo con lui, rimanere anche offesi dalle
sue filippiche, ma nel trionfo della banalità e del conformismo dilaganti, la
sua voce suonava viva e pungente, con toni che possono sembrare ingenui e
apocalittici, come lo era quella di Pasolini.
Scrisse di lui
Norberto Bobbio: "Ma Fofi è davvero un pessimista? Non direi. O almeno è
un pessimista scontento di esserlo, che si sforza di non esserlo". Era un
battitore libero. Un grande curioso.
È sempre stato profondamente irrequieto: dopo un po' si stufava di tutto,
chiudeva, lasciava e cambiava città. Ma la sua passione era indiscutibile. Si è
gettato a corpo morto in mille iniziative editoriali e sociali. Tra tutte le
sue iniziative "Linea d'ombra", "Dove sta Zazà", “Lo
straniero” sono state, secondo me, le più notevoli. Ma forse è un fatto
generazionale: ci siamo formati su quelle pagine, abbiamo scoperto autori e
mondi insospettabili.
Alla fine del
secolo, Fofi tirò fuori dai suoi disordinati armadi dei testi scritti in
passato e rimasti dimenticati nel vortice delle sue cento attività e
iniziative. Testimonianza di questo travaglio intellettuale e politico, che non
era mai disgiunto da un impegno pedagogico e da una costante attenzione al
mondo dei ragazzi, sono il libro Strana gente. 1960: un diario tra sud
e nord (Donzelli 1993) e La vera storia di Peter Pan (edizioni
e/o 1994), che raccoglie alcune sceneggiature cinematografiche mai realizzate.
Si tratta di alcune messe a fuoco di idee e situazioni del decennio 1968-1977,
un "periodo tra il cane e il lupo", visto attraverso le lenti di un
"educatore" legato all'esperienza dell'estrema sinistra:
"Vedevo il
lavoro 'rivoluzionario' dell'educatore e a maggior ragione del rieducatore – e
nella sostanza non ho cambiato idea – nel favorire la trasformazione di bambini
e ragazzi giustamente 'disadattati' a un mondo di ingiustizie ('vagabondi'
inefficaci, 'delinquenti' inefficaci) in cittadini attivi, coscienti,
anticonformisti, ribelli ai valori borgesi, non 'integrati' e non complici di
sistemi di sopraffazione e sfruttamento".
Sono testi
"militanti" subordinati a una forte visione del mondo che lascia,
volutamente, poco spazio a preoccupazioni di carattere artistico. Sono anche la
testimonianza, lo ammetteva senza problemi Fofi nell'introduzione, del
fallimento di un critico cinematografico che tenta di fare del cinema. Ma non
il fallimento di un modo di vedere la realtà "dalla parte dei
ragazzini", dei "personaggi di confine", di una sensibilità per
i loro problemi ai quali gli errori politici della sinistra non hanno saputo
dare risposte. Il testo più suggestivo era quello che dava il titolo al volume,
del quale Fofi dice: "Purtroppo è l'unico dei soggetti di questo libro a
non aver perso di attualità".
Lo spunto venne
da un'ondata di suicidi di ragazzi che si verificò in Europa nell'estate del
1969, proprio mentre i giovani sembravano essere diventati un soggetto
politico. Pietro, un ragazzino di Torino, si uccide e non si capisce perché, i
suoi amici del biennio si interrogano, e rievocando episodi 'insignificanti' si
avvicinano alla verità, a una verità: si è ucciso perché il mondo gli faceva
paura, con la sua violenza palese e quella occulta, con i messaggi di morte e
prepotenza che gli giungevano dai media, e di divisione e di odio che gli
giungevano dalla scuola, dalla famiglia, dalla vita dei suoi, dalle
manifestazioni e dagli scontri. Il film doveva esser girato nel corso di un
anno, con un gruppo di ragazzi direttamente coinvolti nell'articolazione della
storia stessa. Uccidersi per non diventare grandi o come i grandi (come il
bambino di Germania anno zero di Rossellini, riferimento
esplicito della storia di Fofi) è il senso più profondo che l'autore trae dalla
storia di Peter Pan. Ma con un finale aperto, pieno di speranza nell'impegno
dei ragazzi (il pessimismo, nel sessantotto, suonava fastidioso e scandaloso).
Eppure ancor oggi Fofi, come la sua amica Elsa Morante, nonostante la realtà
dimostri il contrario, vuol sperare che il mondo possa essere salvato dai
ragazzini.
Nel libro Benché
giovani. Crescere alla fine del secolo (edizioni e/o, 1993), Fofi si
diceva d'accordo con l'idea che Peter Pan, il bambino che non vuol crescere,
sia l'emblema di una umanità novecentesca cui di fatto si è impedito di
crescere, "che la civiltà di massa del consumo e del consenso non vuol più
che cresca perché se no che consumatore e che consenziente sarebbe?", ma
non ritiene che il rifiuto di crescere sia un fatto del tutto negativo. Per
Fofi la maturità è impossibile, sono impossibili la pienezza del vivere, il
controllo del proprio destino e delle proprie scelte.
Tutto sommato
Fofi rimase sempre legato alla visione politica della metà degli anni sessanta:
"ci si impedisce di diventare adulti, e allora facciamo della nostra
minorità una forza, consideriamo l'adolescenza come un valore, anzi come una
classe, come un nuovo soggetto politico per età, diverso da quelli del passato
che erano solo di classe e ceto". L'errore del movimento del sessantotto
secondo lui è proprio quello di esser voluto diventare "adulto" di
fronte alle prime difficoltà, "nella venerazione delle grandi barbe del
marxismo-leninismo". Il buon educatore, La vera storia
di Peter Pan e Il periodo tra il cane e il lupo tentarono
di rappresentare questo conflitto maturità/immaturità con i limiti e alcuni
schematismi tipici di quel periodo, ma anche con molta lucidità e passione.
Quei tre film non realizzati hanno, mi sembra, trovato una espressione
artistica e un coerente messaggio ideologico, molti anni dopo, in un film che
Fofi ha molto amato e sostenuto: Il ladro di bambini di Gianni
Amelio.