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Zuppi a Monte Sole: abbiamo fatto tutto quello che potevamo per la pace?

tratto da Avvenire del 14 agosto 2025
 
Il cardinale ha iniziato la lettura dei nomi dei bambini uccisi palestinesi e israeliani uccisi in Medio Oriente. «Chiediamoci anche noi: dov'è Abele, tuo fratello? Che hai fatto». 

Il cardinale Zuppi a Monte Sole legge i nomi dei bambini vittime della guerra in Medioriente

 
Pubblichiamo il testo integrale dell'intervento del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, pronunciato oggi a Monte Sole, in occasione della preghiera per la pace in nome delle vittime innocenti in Terra Santa proposta dalla Chiesa di Bologna e dalla Piccola Famiglia dell'Annunziata.
 
Questo è un momento di preghiera. La preghiera non ci porta fuori dal mondo ma dentro. La sofferenza diventa intercessione, perché la creazione e le creature chiedono vita, futuro, speranza. Non chiedono guerra, ma pace!
Ogni nome di bambini uccisi è una richiesta a Dio, ma anche agli uomini, perché li ascoltiamo, ci lasciamo toccare dall’ingiustizia che ha travolto la loro fragilità. La loro morte, di tutti loro e di ognuno, susciti le lacrime di commozione e le scelte finalmente lungimiranti di pace e non tragicamente opportunistiche. Non c’è classifica nel dolore. Siamo qui per chiedere che nella Terra Santa ogni persona, a cominciare dai più piccoli, non perda la sua vita per colpa di suo fratello. Arturo Paoli diceva che il peccato originale è il fratricidio e solamente quando abbiamo la coscienza di essere responsabili della morte, o della meno vita, dei poveri, di essere senza orgoglio, superiori, distanti, come se non fossero della nostra carne o non appartenessero alla nostra razza, solamente in questo caso troviamo l’umiltà di passare da “fratricidi a fratelli”.
 
Gesù ci ammonisce affermando che anche chi “si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio” (Mt. 5,22). In questo luogo, dove il tempio di Dio che è ogni persona venne profanato dalla violenza e il sangue di Abele sparso, oggi sentiamo la voce del sangue di nostro fratello che grida da tanti suoli della terra (Gen. 4,10), quel grido che Dio fa suo e che gli uomini ignorano, non considerano. Questo è un luogo di tenebre e di luce, di morte e di vita, di strage degli innocenti e di speranza sul mondo, di tante Rachele che piangono i propri figli che non sono più, e di luce della vita che non finisce. Qui sentiamo chiaro il giudizio di Dio sulla nostra vita, giudizio di cui abbiamo bisogno perché non ci crediamo tranquilli nelle nostre sicurezze, senza vergogna per quello che accade, banalmente prigionieri del miope e colpevole egocentrismo. Il giudizio è in realtà di due domande, con le quali noi dobbiamo fare i conti e sta a noi trovare la risposta che ci fa capire, cambiare, lasciarci amare.
La prima: “Dov'è Abele, tuo fratello?”. Dio custodisce Abele e difende sempre la fraternità. Noi? E la seconda: “Che hai fatto?”, come hai potuto farlo, ma anche “cosa non hai fatto quando mi hai visto che avevo fame, sete, ero nudo, carcerato, malato?”. “Dove sei tu, dove sta il tuo cuore?”. Sentiamo fratelli tutti tutti questi piccoli. Il giudizio di Dio non si addomestica, non asseconda nessuna delle nostre giustificazioni o convinzioni, i calcoli cinici, le ossessioni blasfeme, ci aiuta a rientrare in noi stessi, interrogandoci sul nostro fratello per capire chi siamo, per ritrovarlo. Questo luogo lo volle il Cardinale Biffi quarant’anni fa per affidarlo alla Piccola Famiglia dell’Annunziata, nata dal carisma di don Giuseppe Dossetti. In quell’occasione volle dirgli “col nostro grazie, la stima e l’affetto che nutriamo per lui” e affidare “il compito dell'azione di suffragio per quanti hanno imporporato del loro sangue tutta la nostra regione…; il compito della preghiera per la concordia dei popoli e delle fazioni, e per la conversione dei cuori; il compito dell’annuncio a quanti qui verranno, della pace vera, che è la pace messianica portata da Cristo”.
Ecco perché oggi, con tanto disorientamento nel cuore, siamo qui, per scendere nell’abisso di questa disperazione, per comprenderne le responsabilità, per trasformare i segni dei tempi in segni di speranza, per chiedere che non perdano la vita altri innocenti. Davanti a questo orizzonte largo e spirituale, sentiamo necessario liberarci dai chiacchiericci pieni di vanità e di insolente superficialità, dalle polarizzazioni ignoranti, interessate e presuntuose, dalle pavidità colpevoli, dagli odi e dalle parole che coltivano rancore e vendetta, da letture politiche interessate e meschine che offendono e deformano la verità, dalle enfasi nazionalistiche che tradiscono l’esigenza di fratellanza, di fratellanza universale e di rispetto sacro per ogni persona. Qui tutti i giorni si prega per tutte le vittime del fratello che alza le mani su suo fratello. Qui non si è di parte, ma si cerca, si trova e si sceglie l’unica parte che è quella di Dio ed è quella di ricostruire la fraternità, che può salvare l’uomo dal distruggere se stesso. La parte di Dio è sempre insieme, perché Dio è tutto in tutti, è amore che unisce, è presente in ogni persona umana nella quale ha soffiato l’alito di vita.
Non uccidere! Non uccidere! Ascoltiamo anche noi gli angeli di questi piccoli la cui sofferenza è portata a Dio. Ogni bambino è innocente. “I figli degli assassini non sono assassini, sono bambini”, ricordava Wiesel. Il Qohelet Rabbah (7:1:3) dice che ogni essere umano ha tre nomi. “Uno con cui è chiamato dal padre e dalla madre; uno con cui gli altri lo chiamano; e uno con cui è chiamato nella memoria dell’umanità". Ogni persona è un nome, il suo e nostro nome! Oggi li ricordiamo perché nessuno può essere mai un numero, una statistica! Per questo pronunceremo uno ad uno i loro nomi ad iniziare dagli uccisi il 7 ottobre dalla follia omicida di Hamas, dalla quale bisogna prendere le distanze, come da qualsiasi ideologia o calcolo che riduce
l’altro a un oggetto, a qualcosa di residuale, a un nemico. Essi chiedono di impegnarci tutti a trovare o perseguire con più intelligenza e passione la via della pace, iniziando dal cessate il fuoco e da offrire le condizioni per farlo, dalla liberazione degli ostaggi al non prendere in ostaggio un intero popolo.
 
La domanda che ci deve inquietare è: “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per la pace?”. Dostoevskij scriveva: “Nessun progresso, nessuna rivoluzione, nessuna guerra potrà mai valere anche una sola piccola lacrima di bambino. Essa peserà sempre. Quella sola piccola lacrima di un bambino”. Il loro pianto, e quello dei loro cari, possa risvegliarci tutti, susciti l’intelligenza creativa e abile per costruire la pace, rafforzi la diplomazia e chi cerca il dialogo, difenda il rispetto indiscusso dei diritti perché il loro sacrificio sia seme di pace e inizio di una fraternità ritrovata. Il nome di Dio è nome di pace. Sia così.

“Ebbi l’audacia di amarti”. Alda Merini e Michele Pierri

tratto da Pangea del 28 agosto 2025
di Marilena Garis
 
l primo ad unirli fu il visionario, l’anticipatore: Pier Paolo Pasolini. Fece incontrare Alda Merini e Michele Pierri sulle pagine della rivista “Paragone”. Era il 1953 e Pasolini scrisse un lungo articolo intitolato Una linea orfica, in cui accostava le loro opere nel segno dell’orfismo. La giovanissima Alda (che all’epoca aveva appena 22 anni) era rimasta abbagliata dalla lettura del De Consolatione di Pierri, uscito per Schwarz, dove era altresì apparso il suo Tu sei Pietro.Non sapeva nulla di lui, solo che aveva 54 anni, viveva a Taranto con la moglie e i numerosi figli ed esercitava la professione di chirurgo.
Dopo quasi trent’anni da quell’incontro sulla carta, nel 1981, è Giacinto Spagnoletti a favorire il loro contatto, una loro collaborazione poetica. Chiede a Pierri di mettere mano alla produzione di Alda Merini per cercare di ottenere una raccolta che ne segni il ritorno sulla scena editoriale.
 
Alda vive un momento di grande difficoltà: reduce da dieci anni trascorsi in manicomio, completamente sola nella sua casa milanese di Ripa Ticinese: il marito è continuamente ricoverato in ospedale e le sue quattro figlie vivono lontane. Quando Spagnoletti pronuncia il nome di Pierri, per lei è un momento quasi epifanico. L’idea di ritrovare il compagno di orfismo, di potersi affidare alle sue attenzioni, la rassicura e la rallegra immensamente. E così, la sera in cui arriva la telefonata dell’ormai ottantenne poeta tarantino, Alda lo accoglie con una delle sue frasi leggendarie “Buonasera, Michele, sono Alda Merini. Sono trent’anni che aspetto questa telefonata.”
Possiamo immaginare lo stupore di Michele Pierri nell’udire queste parole, ironiche ed immediate, che attraversano i fili del telefono come saette. Il medico-poeta è un uomo estremamente riservato, vive immerso nel silenzio e nella concentrazione. Ha recentemente perso l’amata moglie Aminta, dopo una lunga malattia che l’ha paralizzata a letto per undici anni, e intorno a lui si muove una grande famiglia di ben dieci figli. 
 
Tra Alda e Michele vi sono ben mille chilometri di distanza e 32 anni di differenza. Lei ha 51 anni, lui 83. Ma siamo nel paese dell’anima, dove dubbi e distanze diventano materia di confronto serrato, dialogo profondo tra poeti. Il loro appuntamento telefonico diventa un momento di pura felicità per entrambi, un luogo di incontro, di intima fiducia. Alle volte Alda appoggia il telefono sul calorifero, si mette al pianoforte, e fino all’una di notte dedica a Michele le romanze più dolci che conosce.


Pierri è profondamente colpito dalla situazione di profonda miseria in cui versa quella poetessa milanese che lui ha sempre considerato di eccezionale valore. L’idea che le sue figlie chiamino “mamma” altre donne, a cui sono state affidate a seguito dei suoi ricoveri in manicomio, gli fa sanguinare il cuore. Rivolge i suoi pensieri anche al marito, gravemente malato, che non può più sostenerla.
 
Tra Taranto e Milano inizia così una fitta corrispondenza nutrita di lettere, poesie e telefonate interurbane. La loro relazione diventa di dominio familiare a causa delle bollette telefoniche, da un milione, due milioni, quattro milioni e mezzo di lire. Conti vertiginosi… ma quel legame è diventato troppo prezioso perché possa finire. 
Il marito di Alda, Ettore Carniti, comprende che questo è forse il germe di un’unione più forte e ne è quasi sollevato: quel medico potrebbe essere un importante punto di riferimento per la moglie, quando lui non ci sarà più… Ormai piegato da un cancro ai polmoni, da un infarto e da una gamba amputata, una sera, verso la fine, chiede ad Alda di parlare con Pierri e riesce a pronunciare parole immense, che vanno dritte al cuore: “Le affido mia moglie, ne abbia cura e le faccia da padre.”
L’agonia di Ettore termina il 7 luglio 1983. Alda attraversa il mare della perdita. Gli antichi fantasmi rischiano di tornare nella sua mente ma l’intima amicizia con Pierri, ormai nutrita da una lunga fiducia, riesce a salvarla. 
 
Alda e Michele si concedono ora una maggiore tenerezza, sentono che possono appartenersi, possono parlare dell’alchimia che li unisce, un’alchimia profonda che fonde amicizia, stima reciproca, bisogno di conoscersi, toccarsi, amarsi.
Un lungo ed inedito amore telefonico sta per diventare “vera vita”? 
Michele è il più prudente, sente pienamente la responsabilità che si è assunto, ma esita a proiettarsi di nuovo al fianco di una donna. Alda, che vive i sentimenti molto istintivamente, parla senza esitazione d’amore. “Cesare amò Cleopatra,/ io amo Pierri divino/ che non conduce nessuna guerra,/ che è solo condottiero di nostalgia”, scrive nelle Satire della Ripa, che esce nel 1983, grazie al corposo lavoro di selezione operato da Pierri.


Arriviamo così al 1984: l’anno della rinascita (e non solo letteraria), che passa attraverso La terra santa, il capolavoro di Alda Merini. Anche Michele Pierri è protagonista di un’importante pubblicazione. Si tratta di una sua antologia personale che raccoglie una selezione di versi composti tra il 1945 e il 1983: il titolo è Passare il ponte da sola, con 16 inediti del 1983. Qui compare Alda Merini, con due poesie a lei esplicitamente dedicate.
 
Nella poesia Ma questo nuovo aprile si legge “Il tuo seno scoperto/ una finestra aperta/ sulla vita futura/ adorando il presente”. Pare la prospettiva di un’unione che possa conciliare il futuro con un presente ancora vivo e sanguinante (dove forse si cela l’amata Aminta, a cui Pierri resterà sempre profondamente legato). Il fatto che Michele stia coltivando il definitivo desiderio di concretizzare il loro legame in qualcosa di più che una telefonata è confermato dall’altro componimento a lei dedicato, Due poesie: “Due poesie che per grazia/ s’incontrano non possono/ non abbracciarsi”. Paiono le parole di un libro già scritto… Michele la aiuta, le invia dei vaglia per salvarla dallo sfratto e dal rischio di vedersi tagliare luce, telefono, gas. Ma le condizioni economiche di Alda sono ben oltre la soglia critica e, un giorno, pensando di racimolare qualche lira, subaffitta una stanza del suo bilocale a Charles, un barbone del Naviglio. Saputa la cosa, Pierri si decide, butta il cuore oltre l’ostacolo e le invia un telegramma di sole tre parole: “Ti sposo subito”.
 
Da Milano Centrale, Alda parte dunque in treno alla volta di Taranto, attraversa l’Italia ed i mille chilometri che la dividono da Michele, l’uomo che si staglia nella sua mente come un mito, un eroe sublime. È sedotta dalle sue qualità, quelle che ha conosciuto nei loro lunghi convegni telefonici: la sua monumentale rettitudine morale e la sua tendenza ascetica e meditativa. Come racconta nella sua biografia Reato di vita:
“Quando era venuto a prendermi alla stazione …io non l’avevo mai visto di persona, ma lo riconobbi subito, e anche lui perché per quattro anni ci eravamo ardentemente amati al telefono”.
Il 6 ottobre 1984, nella Chiesa del SS. Crocifisso di Taranto, Michele Pierri e Alda Merini si sposano. Lui ha 85 anni, lei 53.
 
Per quattro anni, a Taranto, Alda fu una sposa felice. Ogni mattina Michele arrivava nella loro stanza con il caffè, una rosa e una poesia d’amore sul vassoio… Scrivevano, si consultavano, si recitavano versi. Quegli anni furono tra i più creativi di Alda Merini, un momento di crescita umana e poetica, in cui la sua maturità artistica, già attraversata da esperienze gravi e dolorose, si coniuga ad un maggior rigore formale, certamente ispirato da Pierri.


Ogni tanto lei e Michele salivano a Milano Su quel treno di Taranto, infinito, che Alda canterà più avanti con tanta malinconia, dopo la morte di Pierri, avvenuta nel 1988.
 
Rivolgendosi all’amico editore Vanni Scheiwiller, scriverà 
Su quel treno di Taranto, infinito
dove guarirà l’ombra della mia giovinezza
io tornerò un giorno.
Tornerò, Vanni, dall’amore che ho perso
tra gli ulivi gaudenti della terra,
tornerò presso il suo vecchio corpo…
e quando il sole mi guariva le tempie,
o Vanni, io pregavo il Signore
che mi facesse morire con lui.
 
“Erano una coppia favolosa”, scrive Maria Corti, attenta e fondamentale curatrice dell’opera di Merini, “poeti di rilievo entrambi, che ti venivano a trovare, ti donavano i loro testi e ti lasciavano nelle stanze il senso di una epifania”.
 È proprio questo il senso che si respira tra le righe dei versi che Alda ha dedicato a Michele, il suo “grande guru bianco… di straordinaria bellezza, anche se già ottantenne”, ma eterno ragazzo nel cuore: 

Forse tu hai dentro il tuo corpo
un seme di grande ragione,
ma le tue labbra gaudenti
che sanno di tanta ironia
hanno morso più baci
di quanto ne voglia il Signore…
E le tue mani roventi
nude, di maschio deciso
hanno dato più abbracci
di quanto ne valga una messe,
eppure il mio cuore ti canta,
o sposo novello.
 
Un grande amore che si fa poesia, malgrado le maldicenze e le ipocrisie di quanti non lo compresero “Quanta gente Michele ha messo la bocca/ tra i nostri inguini,/ gli inguini dei nostri sogni…”. I farisei non capiranno mai cosa sia una follia d’amore ebbe a scrivere Merini nella Mistica d’amore.
 Ma, dopotutto, a poco conta il loro giudizio di fronte a questo verso: “Pierri, se morirò/ ricordati che io ebbi l’audacia di amarti”. 

Wislawa Szymborska - Sulla morte senza esagerare

 

Poesie scelte: WISLAWA SZYMBORSKA, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (Milano, Adelphi, 2009)

Non s'intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
 
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
 
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
 
Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
 
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!
 
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più d'un bruco
la batte in velocità.
 
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo ingrato lavoro.
 
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
e, almeno finora, insufficiente.
 
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.
 
Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
 
Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.
 
La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.
 
Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
 
Traduzione di Pietro Marchesani

La teoria diventa pratica del fare insieme con Lucia Mastrodomenico

 
di Virginia Varriale

Nel '75 alla Mensa Bambini Proletari nasce un collettivo che unisce un po’ tutte le donne, sui tema dell'animazione con i bambini, si vuole centrare il lavoro su contenuti teorici e pratici riguardanti non solo i bambini, come era accaduto fino ad allora, ma collegando le due situazioni di emarginazione (termine usato in quel periodo): il poco valore riconosciuto all'operato delle donne e lo sfruttamento dei bambini. Credo fosse un'operazione intelligente, anche se rivista aveva alcuni aspetti negativi perché mostrava la novità di unire bambini e donne non nella logica madre-figlia, ma in quella dell'età: bambina-adulta. Oggi se ne riparla, probabilmente allora abbiamo poco teorizzato ciò che in pratica riuscimmo anche ad ottenere. Credo che il risultato fondamentale raggiunto su cui esiste oggi una pedagogia della differenza, fu l'aver diviso i bambini dalle bambine, affermandone la diversità. La critica da fare al lavoro di allora è di poca capacità teorica. Successivamente tutto mi sembrò estremamente gravoso, come se non riuscissi a trovare una reale autonomia delle donne anche in quel contesto, quindi scelsi di occuparmi totalmente delle donne, tentai di affrontare una ricostruzione a partire da me con le altre, ma non abbandonai il discorso pedagogico[1].
 
Del brano proposto vorrei sottolineare la necessità per Lucia Mastrodomenico di voler trovare una capacità di relazione tra l’io e il tu, che da un lato non deve cadere nell’egoità e dall’altro non deve perdersi nell’identità dell’altro, ossia una “ricostruzione a partire da me con le altre”.
Non un io posto dinanzi all’altro/a per essere riconosciuto, ma un io che partendo da sé possa agire con l’altro/a.
Ciò è possibile solo aprendosi  alla trasformazione e alla capacità di mettere in discussione valori e metodi.
Lucia Mastrodomenico, attraverso l’esperienza dell’Associazione “Lo Specchio di Alice”, ha modo di confrontarsi con altre donne caratterizzate da capacità teoriche e pratiche diverse, ma tutte accomunate dalla generosità di capire, e vede in questo un terreno fertile per una nuova operazione: comprendere che il tu non è mai un tu generico, ma è qualcosa di vicino, prossimo.
 
In loro ho trovato sempre la capacità di scalzare l'io e pensare immediatamente a chi è vicina, questo è un patrimonio enorme, dà la possibilità di lavorare bene; troppi io in un gruppo possono essere un rischio, creare dinamiche che non mettono in moto la disparità, se invece non si parte da un io ma tutt'al più da un sé, un me si avvia una dinamica che può dare adito alla pratica della disparità, vedere i vari sé senza arrivare ad un appiattimento dell'una sull'altra o a forme di potere, narcisismo, egocentrismo[2].
 
 Noi esseri umani siamo in perenne lotta con noi stessi, fatichiamo per tenere a bada un ego che ci schiavizza e ci limita a incontrare in modo autentico l’altro e, quando ci accorgiamo dell’altro, vorremmo sedurlo narcisisticamente e oggettivarlo come semplice presenza e dargli  noi dall’esterno un senso senza riconoscere il suo sé.
 
Ci si può guardare per capire la forza di ognuna e non arrestare mai il cammino dell'altra; non pensare che la mia velocità di azione e di pensiero debba aspettare quella di un'altra, non per questo non metto a disposizione le mie potenze perché l'azione, il pensiero dell'altra possa avere una sua totale autonomia e visibilità. Ecco la non fusionalità, ognuna avrà la sua parola e il suo pensiero, ognuna troverà le modalità per dirlo senza restare nell'anonimato, si deve avere distacco, credo molto nei tagli e nella possibilità dell'allontanamento, a mio avviso è fertile. Staccarsi da strutture aggreganti può significare anche andare verso nuovi orizzonti, l'importante è il non rompere e ridurre o distruggere ciò da cui ci si è allontanato[3].
 
Preservare quello spazio che c’è tra “me” e “l’altro” è il modo più genuino di rispettare la diversità feconda di ognuno: è il luogo dell’incontro, dove possiamo confrontarci senza rinunciare al nostro modo di pensare e di essere, è il luogo dell’opposizione, dove possiamo scambiare e non annullare le nostre vedute, è il luogo dell’azione, dove ognuno agisce per-con-l’altro, senza perdere di vista che ognuno è sempre progettualità.
È proprio questa distanza che ci permette di porci in un rapporto diretto e co-agire e la dimensione della pluralità è quella che garantisce la libertà ogni soggetto.
 
Laddove non si riesce insieme bisogna riuscirci da sole, fare insieme per me significa cedere un po’ del proprio io affinché possa esistere un po’ dell'io dell'altra; quando ciò non è possibile è giusto che si faccia da sé, il sé può coinvolgere nessuna o varie donne, questo è il tentativo di Madrigale. Non credo alle grandi fusioni, come ho già detto, producono soltanto rotture e scontri[4].
 
Per Lucia Mastrodomenico non ci devono essere forzature, appiattimenti o fusioni nelle relazioni, poiché è fondamentale rimanere fedeli a se stessi: per fare-insieme è necessario cedere una parte del proprio io e creare quel vuoto perché in esso possa incastrarsi una piccola parte dell’io degli altri in modo armonico, ma se questo non è possibile, perché la relazione potrebbe divenire subordinazione o uguagliamento, allora è preferibile ricominciare da sé e segnare un nuovo inizio.
Partire da sé è nascere ancora.
 
Io, cosa?
Io, io, io … ancora io … dice l’uomo!
“Dovunque si arrampichi è inseguito da un cane chiamato Ego”
                                                                                     (Friedrich Nietzsche)
 
Che cosa sono mentre divengo?
Ognuno è come vuole
ma non sempre si è,
allora è più forte
il desiderio di poter essere.[5]
 
 
[1] Lucia Mastrodomenico in Conni Capobianco in Interpreti e protagoniste del movimento femminista napoletano, 1970-1990, Napoli, coop. Le Tre Ghinee- Nemesiache, 1994, pp. 93-99.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Virginia Varriale, A piccoli passi dentro la poesia. Una lettura degli Idilli di Messina di Friedrich Nietzsche, Loffredo, Napoli 2025, p. 28.

Feyerabend anarco-dadaista

 
di Pino Donghi
tratto da Doppio Zero 28 Marzo 2025
 
Scriveva Gabriel Garcia Marquez che la vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda, e come la si ricorda, così da raccontarla. E sarebbe un “fatto”, come ci ha appena ricordato Stefano Bartezzaghi su queste pagine.
Fatto… sta, nel leggere le prime pagine della nuova edizione Feltrinelli di Ammazzando il tempo. Un’autobiografia, scritta da Paul K. Feyerabend, colpisce un incipit proustiano, “Solo qualche anno fa ho cominciato a interessarmi dei miei avi e dei miei primi anni di vita”, insieme ai primissimi ricordi, le visite alla zia Agnes nelle campagne della Carinzia, quando “ogni tanto entravo nel pollaio, chiudevo il cancello e parlavo alle recluse: una preparazione eccellente per la professione che avrei svolto in seguito”; fino al giorno in cui vede nelle mani della sorella del padre, “grondanti di sangue”, una gallina appena sacrificata, esperienza che lo induce immediatamente a liberare gli altri volatili, scappare sulle colline e osservare la zia mentre cercava di radunare le fuggitive. Un primigenio, significativo gesto anarco-libertario. L’autobiografia di Paul Feyerabend usciva in prima edizione originale mondiale (quella inglese uscì quasi un anno dopo) per i tipi di Laterza nel 1994, lo stesso anno della sua morte (toccante il Poscritto di Grazia Borrini-Feyerabend, l’ultima “moglie meravigliosa” di Paul), già allora con la traduzione di Alessandro de Lachenal, che per la nuova edizione Feltrinelli, a trent’anni dalla morte e a cento dalla nascita (Feyerabend era nato il 13 gennaio del 1924), cura anche una preziosissima sezione di note che, insieme all’apparato di foto, regala al lettore un volume nella migliore tradizione delle bio e autobiografie di stampo anglosassone.
 
Leggendo questa nuova traduzione si torna ad alcune atmosfere che si assaporano in La lingua salvata di Canetti – «Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso.» –, a Rustschuk, tra le galline di Kako, in un villaggio dove «…vivevano persone di origine diversissima e in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue», e sul rapporto tra Feyerabend e le lingue torneremo in chiusura; per non parlare della strabiliante galleria di personaggi della cultura del ‘900 tout court : si pensi a qualsiasi scienziato e filosofo della scienza, “you name it!”, come si direbbe in inglese, ma anche a Brecht, Wittgenstein, Hjelmslev, Bohr, Dürrenmatt… per scoprire che la lettura vale già il prezzo del volume.
Della figura di uno dei pensatori più influenti del ‘900, facilmente etichettato come “anarchico”, può colpire la scoperta di come, fin da giovanissimo, si pascesse di film sentimentali, gusto che ha mantenuto tutta la vita, leggesse Don Chisciotte (sia pur “abgridged”), incappasse nella filosofia e nel teatro, due passioni che lo accompagneranno tutta la vita; di come negli anni della scuola secondaria, leggesse Mach e, improvvisamente, “gli apparisse chiaro il significato delle equazioni differenziali di Cauchy-Riemann per le funzioni complesse” (!) mentre imparava a cantare, comprendendo che “una voce non è un cervello” e che “il canto coinvolge l’intero organismo, non soltanto i polmoni, il cervello e il diaframma”. Un’educazione sentimentale fatta di astronomia teorica di giorno, opera e esercizi vocali di sera, osservazioni astronomiche la notte. Alla quale si aggiungono poi, fatalmente, l’Anschluß (Feyerabend aveva appena 14 anni), la guerra, il fronte e con questo la ferita, la sedia a rotelle e poi le stampelle che, dal 1946, lo accompagneranno tutta la vita. Sicché, prim’ancora, la lettura del Mein Kampf che il padre aveva acquistato, e che Feyerabend in un saggio scolastico collegò a Goethe: “…cosa mi aveva spinto a farlo? Suppongo che fosse la tendenza (presente tutt’ora in me) ad assumere strani punti di vista e spingerli all’estremo […] Ho cominciato a scrivere la mia autobiografia, soprattutto per ricordare il periodo trascorso nell’esercito tedesco e come avessi vissuto il nazionalsocialismo. Questo si è dimostrato un buon modo per spiegare come le mie ‘idee’ sono intrecciate al resto della mia vita”.
 
L’espressione “ammazzando il tempo” si trova nel nono capitolo, dedicato al suo arrivo a Bristol nel 1955, quando “cominciò quella che è nota tecnicamente come la mia carriera”, mentre prendeva un sedativo al giorno, dormendo incessantemente, tranne che per tenere le lezioni all’università e per seguire quelle di canto, “…stavo davvero ammazzando il tempo”. Ma tradiremmo la volontà dell’autore se ne raccomandassimo la lettura per inquadrare e comprendere meglio il significato di quell’anything goes, agglutinazione di comodo dei suoi scritti più famosi, Contro il metodo fra tutti, cui dedica i capitoli centrali. Per questa ragione, diremmo anche per rispetto, torneremo sul lascito rivendicato di questa autobiografia alla fine della recensione. Sicché, nel frattempo, l’uscita di un altro volume, sempre nel 2024, per celebrarne la nascita e la morte, Conoscenza e libertà. Scritti anarco-dadaisti, (Elèuthera), ci permette qualche nota a margine di ciò che, “tecnicamente”, è passato alla storia come la sua carriera. Gli scritti sono a cura di Matteo Collodel (se volete sapere tutto, ma proprio tutto, quello che Feyerabend ha scritto e pensato, lo trovate qui) e di Luca Guzzardi, ultimo ma non ultimo tra i tanti allievi del compianto Giulio Giorello: la loro introduzione è un’utilissima guida per andare oltre gli slogan e le opposte tifoserie intellettuali. Gli scritti sono veementi, il primo “Gli esperti in una società libera” (originale del 1970, con modifiche apportate dall’autore in una revisione del 1977), esordisce con un perentorio “Permettetemi di iniziare con una confessione. Ho scritto questo articolo in un impeto di rabbia e tracotanza provocato da alcuni sviluppi delle scienze che ai miei occhi apparivano disastrosi […] L’orribile Newton, che più di ogni altro è responsabile della piaga del professionismo…”: ce n’è di che giustificare la «fama controversa di istrionico e a tratti fastidioso chiacchierone», che si era guadagnato in polemiche incessanti contro buona parte dell’establishment accademico internazionale.
 
Ma l’introduzione e l’apparato di note dei curatori aiutano il lettore a superare una prima lettura che si accontenterebbe del gusto del teatro del nostro, della sua predilezione per la boutade e le associazioni sorprendenti quanto spiazzanti. Il celeberrimo “tutto va bene”, non è un principio di parità metodologica, non significa che qualsiasi idea valga un’altra, semmai, scrivono Collodel e Guzzardi, è la parodia di un principio, è l’urlo liberatorio di chi riconosce “che l’idea di un metodo invariabile, o di una teoria invariabile della razionalità, poggia su una visione troppo ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale”; è la consapevolezza che le idee non possono prescindere dalle condizioni in cui si presentano e dei fattori che hanno contribuito a plasmarle: “concezioni che in alcune circostanze paiono bizzarre, come l’idea di una Terra in moto pareva ad Aristotele, si riscattano non appena quelle circostanze mutano”. Galileo, oggi, ci appare razionale, quando risponde alla confutazione aristotelica che negava il movimento della Terra; sicché la sua argomentazione violava le regole della razionalità di Aristotele, le riprogrammava ipotizzando ciò che oggi chiamiamo inerzia… “ma era un’odiosa ipotesi ad hoc, nel linguaggio popperiano, escogitata per salvare la teoria che si va sostenendo”. Anything goes, ricordano i curatori, “è un monito scettico o ancor meglio fallibilista: un modo per ricordarci che tutte le metodologie, perfino le più ovvie, hanno i loro limiti”. Più che le nostre parole, conviene rileggere quelle della sua Prefazione del 1987 a Contro il metodo:
«Voglio ancora aggiungere due cose importanti: primo, che la scienza può reggersi sulle sue gambe senza bisogno di alcun aiuto da parte di razionalisti, umanisti laici, marxisti e movimenti religiosi analoghi; secondo, che anche le culture, le procedure e gli assunti non scientifici possono reggersi sulle proprie gambe e dovrebbe essergli concesso di farlo, se questo è ciò che desiderano i loro rappresentanti. La scienza va protetta dalle ideologie; e le società, specie le società democratiche, vanno protette dalla scienza. Ciò non significa che gli scienziati non possano trarre vantaggio da una formazione filosofica e che l’umanità non abbia mai tratto e mai trarrà vantaggio dalle scienze. Tuttavia, questi vantaggi non vanno imposti; vanno esaminati e accettati liberamente dalle parti coinvolte nello scambio. In democrazia le istituzioni, le proposte e i programmi di ricerca scientifici vanno perciò assoggettati al controllo pubblico; deve esserci una separazione fra Stato e scienza esattamente come c’è una separazione fra Stato e istituzioni religiose, e la scienza deve essere insegnata come un approccio fra molti altri, non come l’unica e sola strada verso la verità e la realtà. Non c’è nulla nella natura della scienza che escluda organizzazioni sociali siffatte e non c’è nulla che dimostri che sono potenzialmente responsabili di un disastro».

Paul K. Feyerabend

Del resto, come ricorda Feyerabend nella sua autobiografia, era proprio Karl Popper a cominciare i suoi corsi con la frase: «Sono un Professore di Metodo Scientifico, ma ho un problema: non c’è alcun metodo scientifico. Comunque ci sono alcune regole pratiche e sono piuttosto utili».
Questi scritti “anarco-dadaisti” sono una piacevolissima lettura anche per capire le ragioni per cui Feyerabend si discostò dall’etichetta di pensatore anarchico con la quale si era fatto conoscere dai suoi studenti a Berlino Ovest, nel ’68. Corrispondeva, è vero, al suo carattere antagonista, eterodosso e autonomo, sia dal marxismo che dall’anarchismo classico, ma ben presto l’associazione gli procurò disagio, principalmente a causa delle connotazioni militanti e violente: “Per queste ragioni preferisco ora usare il termine dadaismo. Un dadaista non farebbe male a una mosca […] Spero che dopo aver letto questo pamphlet il lettore si faccia di me l’immagine di un irriverente dadaista e non di un serio anarchico”.
Passo tratto da una lettera di Feyerabend a Lakatos del 7 agosto 1972, riportata in Sull’orlo della scienza a cura di M. Motterlini, altro testo imperdibile per capire il nostro
Hanno buon gioco Collodel e Guzzardi a sottolineare come questa concezione non sia immune da rischi: “Nel mercato delle verità alternative e delle post-verità, come distinguere tra conoscenze genuine e simulacri predisposti da abili e malevoli falsari? Non sarebbe meglio affidarsi a un metodo?”. La riposta, che si può leggere nello scritto del 1977, “Per un’epistemologia dadaista”, è che purtroppo un tale metodo non esiste. Mentre, come già scriveva Kant, esiste la propensione degli individui ad affidarsi ai tutori di ogni sorta, quelli che prendono le decisioni al posto nostro, condannandoci alla “minorità”. Come se ne esce? Secondo Feyerabend soprattutto attraverso l’educazione pre-universitaria, riducendo l’influenza delle concezioni che appaiono più attraenti, consolidate, rappresentate efficacemente: “Il problema non è come infilare le idee in testa a un bambino, ma come evitare che le teste siano stritolate dalle idee”. Una definizione assai utile dell’altrimenti vaghissimo richiamo al cosiddetto “spirito critico”. Come avrebbe chiosato Giulio Giorello, che di Feyerabend è stato studioso e amico, “Di nessuna Chiesa”. Tanto meno quella popperiana.
 
Ma anticipavamo del vero lascito dell’autobiografia di Paul K. Feyerabend. “Mi preoccupo che dopo la mia dipartita resti qualcosa di me: non saggi, non dichiarazioni filosofiche definitive, ma amore”. Sono parole, le ultimissime, vergate quando il tumore cerebrale diagnosticatogli da qualche mese, lo costringeva a morire “proprio ora che finalmente sono riuscito a ‘sistemarmi’, tanto nella vita privata quanto in quella professionale”. Ma non sono le parole “costrette” dalla contingenza dell’ultimo passo, quello che a molti consiglia conversioni tardive. Nell’affermare, “vorrei che a sopravvivere non fosse niente di intellettuale, soltanto amore”, Paul Feyerabend compendiava il messaggio del suo ultimo scritto, La conquista dell’abbondanza, pubblicato postumo nel 1999 (in Italia, da Cortina, nel 2002, per la cura di Pietro Adamo), dove affermava come gli specialisti (gli “esperti” dei suoi saggi degli anni ’70) e la gente comune riducono l’abbondanza che li circonda e li confonde, insieme alle conseguenze delle loro azioni.
In Dissolvenza, il 15°, ultimo capitolo di Ammazzando il tempo, Feyerabend ricorda due partecipazioni a Spoletoscienza, nel 1991 e nel 1993, la seconda volta potendo rivedere insieme a Grazia, dopo tanto tempo, Gianni Schicchi, una delle loro opere preferite, insieme a un magnifico Requiem di Berlioz di fronte al Duomo. Di quelle giornate, con il traduttore e curatore Alessandro de Lachenal, manteniamo ricordi ancora vividissimi e che ne confermano l’ultima testimonianza. A cena, al ristorante Sabbatini, ci chiese se era vero che Steve J. Gould sarebbe arrivato per partecipare al seminario. Alla nostra risposta, che in realtà lo stavamo aspettando già per cena, Feyerabend allargò il viso gli occhi e lo sguardo verso la moglie, quasi gridando di gioia, confermandole che “sì, Gould sta arrivando, finalmente lo potremo conoscere!”. Paul K. Feyerabend, uno dei massimi filosofi della scienza dello scorso secolo, si agitava come un bambino felice al quale hanno appena confermato che, dopo cena si andrà alle giostre. Meraviglioso. Tanto quanto l’espressione di Steve Gould quando varcò la soglia del ristorante. Gould non era famoso per affabilità e buon carattere, e infatti appena mi riconobbe, venendogli incontro e al bando i convenevoli, mi sparò, “Ma è vero che c’è anche Feyerabend?”. Alla mia risposta affermativa, lo vidi irrigidirsi, cercare la sua immagine riflessa nel vetro di un poster, sistemarsi il bavero della giacca e poi, inclinando la postura di qualche millimetro di rispetto, avvicinandosi a colui che gli aveva ispirato La vita meravigliosa. Da quel momento li perdemmo, ovvero non ci degnarono più di uno sguardo: Paul, Grazia e Steve, immersi in una conversazione fatta di intelligenza, cultura e infinito divertimento, interrotta da grandi risate e da qualche pietanza che ordinammo per loro, troppo distratti e felici per far caso a ciò che offriva il menù. Solo il jet lag ebbe la meglio su Gould e fu così che a tarda sera, rientrando in albergo, passeggiando per la città del Festival dei Due Mondi, “Paul” ci regalò un consiglio, che riportiamo ogni volta che ne capita l’occasione. Se Spinoza raccomandava salutari esercizi di emendazione dell’intelletto, per Feyerabend, come per Canetti, era importante conoscere le lingue, conoscerle bene: “Quando siete sicuri, assolutamente certi di qualcosa, provate a ‘dirvelo’ in un'altra lingua, forzatevi a tradurlo: se ancora vi convince, vuol dire che è una buona approssimazione alla verità, per quanto contingente, altrimenti, com’è più probabile, ripensateci su!”.
 
Per Feyerabend, nella vita, bisogna lasciare spazio alla scienza ma anche alla filosofia, al mito, alla letteratura, all’arte, alla poesia, al sesso, alla musica, al canto, alla flânerie e anche allo sport. Ed è non senza un sorriso tra le labbra che ci viene da citare – irriverentemente, come immaginiamo gli sarebbe piaciuto – quel José Mourinho, non a caso attento lettore di testi di neurobiologia e scienze cognitive, quando afferma che “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio!”.

Foucault negli interstizi del potere

 
di Michele Ricciotti
tratto da Doppio Zero del 2 Gennaio 2025
 
All’inizio di Les mots et les choses Foucault scriveva che, per la ragione classica, il folle è l’uomo delle “somiglianze selvagge”, colui che ravvisa analogie là dove la ragione imporrebbe di individuare nient’altro che differenze. Ai sistemi di “assoggettamento” dei folli, come è noto, Foucault aveva già dedicato un’importante opera nel 1961. Nasceva lì un’attitudine critica peculiare del metodo foucaultiano, finalizzata non tanto a contestare questo o quel sistema di potere, quanto a scavare tra gli interstizi del potere in quanto tale.
 
La questione della critica diventerà oggetto esplicito di riflessione nella celebre conferenza tenuta nel 1978 alla Société française de Philosophie, dalla cui lettura si ricava anzitutto che il titolo “indecente” che Foucault aveva inizialmente pensato di darle era “Che cos’è l’illuminismo?”, con un chiaro omaggio al testo di Kant attorno a cui, nel corso della conferenza, Foucault non cessa mai di orbitare. Il titolo scelto per la pubblicazione francese postuma sarà invece Qu'est-ce que la critique? e proprio con il titolo Che cos’è la critica? viene ora pubblicato in una nuova edizione italiana (prima era stato pubblicato in Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997), arricchita dal testo del manoscritto foucaultiano, che completa il discorso effettivamente pronunciato dal filosofo francese, e da alcuni interventi tenuti da Foucault all’università di Berkeley in California, raccolti, nella seconda parte del volume, sotto il titolo “La cultura di sé” (M. Foucault, Che cos’è la critica?, a cura di A. Di Gesu e M. Polleri, introduzione e apparato critico di D. Lorenzini e A. I. Davidson, DeriveApprodi, Bologna 2024).
Esiste la critica d’arte, la critica letteraria e cinematografica. Ancora, ci sono critici musicali e critici gastronomici. Ma esiste la critica qua talis? Nel corso degli anni ’70 Foucault aveva già mostrato come la critica, rivolta ai dispositivi di potere, possa produrre un dislocamento rispetto a tali sistemi di assoggettamento. Nella conferenza del 1978, però, egli sembra rivolgersi alla questione del potere non soltanto come dispositivo rivolto alla “governamentalizzazione”, ma come sistema di produzione di senso. In questa conferenza più che in altri testi foucaultiani la partita si gioca sul campo di quella che Enrico Redaelli, in un saggio del 2011, ha chiamato la “semiotica del potere” (E. Redaelli, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla semiotica del potere, Ets, Pisa 2011). Potremmo porre la questione con una domanda che ha a sua volta una lunga vicissitudine post-foucaultiana: che cos’è un dispositivo? È soltanto ciò che produce assoggettamento politico o è ogni movimento di desoggettivazione e risoggettivazione? In altri termini: è qualcosa che riguarda soltanto il funzionamento del potere comunemente inteso oppure investe il potere come meccanismo di produzione di senso? E se è vero questo secondo corno della questione, la critica non dovrà rivolgersi anzitutto al linguaggio? E per sottoporre a critica il linguaggio, la critica deve essere fuori o dentro il linguaggio? Foucault risponde: «la critica è il movimento attraverso il quale il soggetto si dà il diritto di interrogare la verità sui suoi effetti di potere e il potere sui suoi discorsi di verità» (p. 37). Già, ma chi è il soggetto che si arroga tale diritto? Non è forse anch’esso un “effetto di potere”?
 
Non bisogna cadere nell’illusione secondo cui il potere si “applicherebbe” a dei soggetti già belli e formati: il potere produce assoggettamento in tanto e per quel tanto che produce soggettivazione. Esso crea soggetti e li crea sulla base di pratiche di archiviazione, di scrittura: non esiste l’oggetto “popolo” e poi la sua organizzazione politica, il popolo nasce nel momento in cui nasce una demo-grafia (Redaelli 2011, p. 135).



Foucault ha sempre insistito sul fatto che il metodo critico-archeologico non è la risalita verso un’origine individuata come causa del prodursi di ordini discorsivi, e anche in Che cos’è la critica? lo ribadisce: «in tali analisi non si tratta di riportare a una causa un insieme di fenomeni derivati, ma di rendere intelleggibile una positività singolare in ciò che ha di singolare» (p. 54). È in questo gesto che l’indagine di Foucault si riannoda a quella di Kant. Foucault assume pienamente l’istanza della critica kantiana integrata dal progetto della sua Aufklärung, quello di «conoscere la conoscenza» (p. 40), e poco importa che in Kant l’autonomia della conoscenza e della volontà si manifesti in tutt’altro che nella disobbedienza ai sovrani. Il “disassoggettamento” prodotto dalla critica kantiana non è la contestazione di questa o quella forma politica, ma la presa di distanza dai dispositivi che producono verità. Lo “stato di minorità” da cui l’illuminismo ha il compito di farci uscire è l’immersione in un reticolo di effetti di verità di cui si è perso di vista il contenuto storico.
 
Se il potere si manifesta in effetti di verità, in creazioni di senso, allora il compito della critica è quello di “evenemenzializzare” (p. 49) tali verità, di disvelarne l’infondatezza restituendole alla contingenza che è loro propria. Non c’è niente di più distante da Foucault della semplice contestazione del “sistema”, come se il potere fosse una sostanza immobile e la critica fosse rivolta a contenuti determinati che di tale sostanza sarebbero l’espressione.
Ritorna qui la domanda circa l’ulteriore dislocazione che una critica davvero radicale dovrebbe poter operare. Se il potere è un dispositivo di produzione di senso, cosa ci garantisce che la stessa critica non agisca come espressione del potere? Per portare la critica fino in fondo non è forse necessario “evenemenzializzare” la stessa critica? Non è lo stesso metodo critico-genealogico-archeologico produttore di senso, di determinati effetti di verità e quindi, in ultima analisi, una pratica di assoggettamento? La critica produce sì una desoggettivazione dagli effetti di verità del dispositivo che è oggetto della critica, ma chi garantisce che tale desoggettivazione non corrisponda a una risoggettivazione, alla sottomissione ad un altro sistema di potere, con i suoi effetti di verità arbitrari e infondati tanto quanto i precedenti? Foucault non pone mai la questione in maniera così diretta, ma la conferenza del ’78 è probabilmente il luogo in cui il suo invito a porla suona come quanto mai pressante. La riflessione foucaultiana sembra qui riagganciarsi ad alcune delle intuizioni dell’Archeologia del sapere – là dove ogni enunciato veniva considerato come un evento, come l’emersione spontanea da un reticolo di pratiche che ne costituivano le condizioni di possibilità – ma anche a ciò che scriveva l’anno prima di pronunciare la nostra conferenza. Nella celebre prefazione all’edizione americana dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari Foucault scriveva che i due autori esprimevano una così radicale critica dei sistemi di potere da tentare addirittura di «neutralizzare gli effetti di potere legati al loro discorso», lasciando per lo più incerto se tale tentativo fosse fatuo oppure meritevole di essere perseguito.
 
Nella conferenza di Berkeley pronunciata a un anno dalla morte e contenuta nella seconda parte di questa nuova edizione italiana di Che cos’è la critica?, Foucault torna sul tema, proponendo una distinzione tra l’ontologia formale, animata dalle classiche domande relative a “che cos’è la verità?” o “come si può raggiungere la verità?” e un’altra forma di ontologia, un’“ontologia storica” rivolta alla contemporaneità e che si pone domande più misurate come “qual è l’obiettivo della nostra attività filosofica nella misura in cui apparteniamo alla nostra attualità?” (p. 77). Questa biforcazione all’interno dell’ontologia è, così come l’intero problema dell’Aufklärung e della critica, di nuovo un’eredità kantiana e sembra fare eco a quel celebre adagio della Critica della ragion pura in cui Kant invitava a rinunciare al nome “orgoglioso di ontologia” per fare posto a quello, più modesto, di “analitica dell’intelletto puro”. Un’ontologia storica è quella a cui Foucault mira; un’ontologia capace di contestare le sue stesse pretese ontologiche. In altri termini, una critica capace di dislocarsi anche rispetto a se stessa.

Antigone le forme del potere e gli abbandonati da Dio e dagli uomini intorno al “Contro Antigone” di Eva Cantarella (seconda parte)

 
di Margherita Losacco
tratto da Le Parole e Le Cose
 
Di seguito, Eva Cantarella ricostruisce i profili dei personaggi della tragedia, ripercorrendone il testo. Anzitutto Antigone, nel suo legame con Polinice, con Ismene, con Emone, e con la polis e le sue leggi. Poi Creonte, che Cantarella rilegge in quanto uomo di governo, non necessariamente tiranno, a partire dalle sue dichiarazioni programmatiche, dal vero e proprio discorso politico che inizia al v. 182, nel quale spiega i principi di giustizia ai quali si atterrà: la prevalenza delle ragioni della polis sui legami familiari; la necessità di essere giusti nel privato prima ancora che nella cosa pubblica. Da questo discorso programmatico, scrive Cantarella, Creonte emerge come «buon governante»[19], a dispetto della sua inevitabile, connaturata misoginia, che lo rende l’idealtipo del maschio greco nel rapporto fra i generi. E ancora Emone, eroe romantico avanti lettera; Ismene, che Cantarella, contro una intera e vasta tradizione vulgata, rilegge non come doppio negativo di Antigone, incapace di essere all’altezza della sorella, ma come esempio di amore fraterno, intelligenza, equilibrio, di rispetto del bene comune: dalle parole di Ismene, quando dichiara di non poter agire contro la polis, contro la città (vv. 78-79), traspare il senso politico, civico della sua figura.
 
Il capitolo IV, Sofocle e Atene, è forse il capitolo centrale del libro, il passaggio che dà senso all’intera riflessione Contro Antigone. In esso, Eva Cantarella ricostruisce la figura, il profilo politico di Sofocle – che non fu un tragediografo di mestiere, nauralmente, ma fu uomo politico, stratego con Pericle e dopo la morte di Pericle. Rivestì cariche politiche del massimo rilievo per tutto il corso della sua vita, verosimilmente da posizioni moderatamente conservatrici all’interno dell’entourage pericleo, o dentro la sua sfera di influenza. E ben dopo la morte di Pericle, 84enne, fu fra i probuli che instaurarono l’oligarchia dei Quattrocento. Nel 458, con l’Orestea – unica trilogia superstite – Eschilo mette in scena la nascita dell’Areopago, primo tribunale ateniese: giudici imparziali avrebbero giudicato i fatti di sangue, e posto un argine alla cultura della vendetta individuale e particolare. Nel 442, con l’Antigone, Sofocle oppone all’ordine delle leggi la scelta individualista e antipolitica di Antigone: forse a significare agli Ateniesi «i rischi – scrive Cantarella – insiti nell’anteporre gli obiettivi individuali a quelli della polis»[20]. L’egoismo sociale, appunto.
 
Le tragedie greche consentono livelli plurimi di lettura e di interpretazione: e questa lettura di Eva Cantarella (nel cap. IV in particolare) arricchisce la riflessione dei moderni sull’Antigone. Anzitutto perché ne inscrive il significato non dentro una astratta opposizione ideale, ma dentro la politicità intrinseca della tragedia greca, senza la quale ogni interpretazione del teatro greco antico rischia di risultare pericolosamente monca. E mi permetto qui di aggiungere un dettaglio. Nell’epitafio di Pericle per i caduti nei primi anni della guerra del Peloponneso (430), che possediamo nella ricostruzione di Tucidide (II 34-47), Pericle ricorda ai cittadini che Atene, «culla della Grecia», si fonda sul rispetto delle leggi: scritte e non scritte. È un passaggio capitale (II 37, 3), da leggere in parallelo con l’ Antigone (e con l’Aiace):
 
nella vita pubblica il timore ci impone di evitare col massimo rigore di agire illegalmente, piuttosto che in ubbidienza ai magistrati in carica e alle leggi; soprattutto alle leggi disposte in favore delle vittime di un’ingiustizia e a quelle che, anche se non sono scritte, per comune consenso minacciano l’infamia[21].
 
E qui, nella sintonia fra il Pericle tucidideo (l’unico che abbiamo) e il testo dell’Antigone, si ricostruisce bene come il teatro di Sofocle sia, come ha scritto Luciano Canfora, «un altro dei tramiti attraverso i quali i valori maturati nel livello più alto, sia pure attraverso quei colossali burattini che sono i personaggi del mito, vengono trasmessi alla comunità: è uno dei canali dell’educazione politica dell’Atene periclea»[22]. Nei tormentati anni Quaranta del V secolo, contenuti e valori della democrazia ateniese – la riflessione sulle leggi e sulla polis, sulla forza dell’uomo piena di risorse e di rischi, del suo pensiero e della sua energia costruttrice e creatrice, dell’uomo che ha trovato scampo a malattie immedicabili, e solo viene sconfitto dalla morte – vengono trasmessi agli Ateniesi attraverso il teatro, luogo della formazione delle coscienze nella città antica: come nel celebre primo stasimo dell’Antigone. Ed è dunque tanto più plausibile che l’Antigone sia il luogo di una riflessione, anche aporetica, sul senso e sul significato del rispetto delle leggi, le leggi scritte e le leggi non scritte.
 
V-VI
 
Dal personaggio al mito e Il mito oggi sono gli ultimi due capitoli del libro di Eva Cantarella. E alle moderne ricezioni e reincarnazioni del mito di Antigone vorrei aggiungerne una non individuale, ma collettiva, che è raccontata nel libro dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo Naufraghi senza volto[23]. Il suo laboratorio, LABANOF, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense, a partire dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (368 morti accertati, 20 dispersi, tutti eritrei o etiopi), lavora per dare un nome e un volto ai morti senza nome e senza volto dei naufragi del Mediterraneo. Nel leggere il libro di Cristina Cattaneo, tornano alla mente la richiesta di Priamo ad Achille, nell’Iliade (XXIV 468-620), per ottenere la restituzione del corpo di Ettore; la parvenza di sepoltura data a Polinice da Antigone; il verso dell’Elena di Euripide, quando, nell’incastro di equivoci e finzioni di questa tragedia, Elena chiede a Teoclimeno di poter seppellire il marito morto (o che, meglio, nella singolare tragedia costituita dall’Elena si finge morto: vv. 1239-1243):
 
Elena:. Il mio povero marito, lo voglio seppellire.
Teoclimeno [re dell’Egitto]: Ma come? Vuoi seppellire uno che non c’è? O vuoi destinare un sarcofago a un’ombra?
Elena: Tra i Greci, c’è un’abitudine (νόμος) se uno è scomparso in mare…
Teoclimeno: Quale?
Elena: Di seppellirli in sudari di vesti vuote[24].
Elena chiede di dare sepoltura a un telo, a una veste vuota di corpo: si seppellisce perfino il corpo che non c’è.
 
Per i migranti, osserva Cristina Cattaneo, in un mondo assai più complesso dell’Atene del V secolo, poter seppellire un corpo è necessario, si deve «non solo per rispetto, per tutelare la loro dignità e per salvaguardare la salute (non solo mentale) di quelli che si lasciano dietro»[25]. Ma anche per permettere – a livello penale, civile, amministrativo – ai vivi di continuare a vivere e a esercitare i propri diritti di cittadini.
 
L’Antigone è forse il testo del corpus letterario greco superstite che ha conosciuto la fortuna più ampia, i riusi più frequenti e più vasti, la ricezione più ininterrotta e vivace dal Romanticismo in poi. È un testo intorno al quale è difficile dire, anche solo pensare qualcosa di nuovo (che è poi, o dovrebbe essere, il senso ultimo della ricerca scientifica). Eppure, a questo testo quant’altri mai letto, commentato, riusato Eva Cantarella restituisce, se possibile, complessità e spessore nuovi: sollecita a riflettere su questioni eterne; getta luce – come in una moderna scenografia teatrale – su figure finora marginali e comprimarie (come Emone, come Ismene). E legge in una luce nuova e sorprendente Creonte, permettendoci in tal modo di ripensare il potere e le sue infinite, mutevoli, difficili forme e conseguenze.
 
Queste riflessioni hanno avuto origine nell’incontro di studi sul saggio Contro Antigone di Eva Cantarella che ha avuto luogo presso l’Ateneo Veneto (Venezia) il 20 marzo 2025, nell’ambito delle Letture Cafoscarine di Diritto e Società.