di Michele Ricciotti
tratto da Doppio Zero del 2 Gennaio 2025
All’inizio
di Les mots et les choses Foucault scriveva che, per la
ragione classica, il folle è l’uomo delle “somiglianze selvagge”, colui che
ravvisa analogie là dove la ragione imporrebbe di individuare nient’altro che
differenze. Ai sistemi di “assoggettamento” dei folli, come è noto, Foucault
aveva già dedicato un’importante opera nel 1961. Nasceva lì un’attitudine
critica peculiare del metodo foucaultiano, finalizzata non tanto a contestare
questo o quel sistema di potere, quanto a scavare tra
gli interstizi del potere in quanto tale.
La questione
della critica diventerà oggetto esplicito di riflessione nella celebre
conferenza tenuta nel 1978 alla
Société française de Philosophie, dalla cui lettura si ricava
anzitutto che il titolo “indecente” che Foucault aveva inizialmente pensato di
darle era “Che cos’è l’illuminismo?”, con un chiaro omaggio al testo di
Kant attorno a cui, nel corso della conferenza, Foucault non
cessa mai di orbitare. Il titolo scelto per la pubblicazione
francese postuma sarà invece Qu'est-ce que la critique? e
proprio con il titolo Che cos’è la critica? viene ora
pubblicato in una nuova edizione italiana (prima era stato pubblicato in Illuminismo
e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997), arricchita dal
testo del manoscritto foucaultiano, che completa il discorso effettivamente
pronunciato dal filosofo francese, e da alcuni interventi tenuti da
Foucault all’università di Berkeley in California, raccolti, nella seconda parte
del volume, sotto il titolo “La cultura di sé” (M.
Foucault, Che cos’è
la critica?, a cura di A. Di Gesu e M. Polleri,
introduzione e apparato critico di D. Lorenzini e A. I. Davidson, DeriveApprodi,
Bologna 2024).
Esiste la
critica d’arte, la critica letteraria e cinematografica. Ancora, ci sono
critici musicali e critici gastronomici. Ma esiste la critica qua talis?
Nel corso degli anni ’70 Foucault aveva già mostrato come la critica, rivolta
ai dispositivi di potere, possa produrre un dislocamento rispetto a tali
sistemi di assoggettamento. Nella conferenza del 1978, però, egli
sembra rivolgersi alla questione del potere non soltanto come
dispositivo rivolto alla “governamentalizzazione”, ma come sistema di
produzione di senso. In questa conferenza più che in altri testi
foucaultiani la partita si gioca sul campo di quella che Enrico Redaelli,
in un saggio del 2011, ha chiamato la “semiotica del potere” (E.
Redaelli, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla
semiotica del potere, Ets, Pisa 2011). Potremmo porre la questione con una
domanda che ha a sua volta una lunga vicissitudine post-foucaultiana: che cos’è
un dispositivo? È soltanto ciò che produce assoggettamento politico o
è ogni movimento di desoggettivazione e risoggettivazione? In
altri termini: è qualcosa che riguarda soltanto il funzionamento del potere
comunemente inteso oppure investe il potere come meccanismo di produzione
di senso? E se è vero questo secondo corno della questione, la critica non
dovrà rivolgersi anzitutto al linguaggio? E per sottoporre a critica il
linguaggio, la critica deve essere fuori o dentro il linguaggio? Foucault
risponde: «la critica è il movimento attraverso il quale il soggetto si dà il
diritto di interrogare la verità sui suoi effetti di potere e il potere sui
suoi discorsi di verità» (p. 37). Già, ma chi è il soggetto che si arroga tale
diritto? Non è forse anch’esso un “effetto di potere”?
Non bisogna
cadere nell’illusione secondo cui il potere si “applicherebbe” a dei
soggetti già belli e formati: il potere produce assoggettamento in tanto e
per quel tanto che produce soggettivazione. Esso crea soggetti
e li crea sulla base di pratiche di archiviazione, di scrittura:
non esiste l’oggetto “popolo” e poi la sua organizzazione politica,
il popolo nasce nel momento in cui nasce una demo-grafia (Redaelli
2011, p. 135).
tratto da Doppio Zero del 2 Gennaio 2025
Foucault ha
sempre insistito sul fatto che il metodo critico-archeologico non è la risalita
verso un’origine individuata come causa del prodursi di ordini discorsivi, e
anche in Che cos’è la critica? lo ribadisce: «in tali analisi
non si tratta di riportare a una causa un insieme di fenomeni derivati, ma di
rendere intelleggibile una positività singolare in ciò che ha di singolare» (p.
54). È in questo gesto che l’indagine di Foucault si riannoda a
quella di Kant. Foucault assume pienamente l’istanza della critica kantiana
integrata dal progetto della sua Aufklärung, quello di
«conoscere la conoscenza» (p. 40), e poco importa che in Kant l’autonomia
della conoscenza e della volontà si manifesti in tutt’altro che nella
disobbedienza ai sovrani. Il “disassoggettamento” prodotto dalla critica
kantiana non è la contestazione di questa o quella forma politica, ma la presa
di distanza dai dispositivi che producono verità. Lo “stato
di minorità” da cui l’illuminismo ha il compito di farci uscire è
l’immersione in un reticolo di effetti di verità di cui si è perso di
vista il contenuto storico.
Se il potere si manifesta in effetti di verità, in creazioni di senso, allora il compito della critica è quello di “evenemenzializzare” (p. 49) tali verità, di disvelarne l’infondatezza restituendole alla contingenza che è loro propria. Non c’è niente di più distante da Foucault della semplice contestazione del “sistema”, come se il potere fosse una sostanza immobile e la critica fosse rivolta a contenuti determinati che di tale sostanza sarebbero l’espressione.
Ritorna qui la domanda circa l’ulteriore dislocazione che una critica davvero radicale dovrebbe poter operare. Se il potere è un dispositivo di produzione di senso, cosa ci garantisce che la stessa critica non agisca come espressione del potere? Per portare la critica fino in fondo non è forse necessario “evenemenzializzare” la stessa critica? Non è lo stesso metodo critico-genealogico-archeologico produttore di senso, di determinati effetti di verità e quindi, in ultima analisi, una pratica di assoggettamento? La critica produce sì una desoggettivazione dagli effetti di verità del dispositivo che è oggetto della critica, ma chi garantisce che tale desoggettivazione non corrisponda a una risoggettivazione, alla sottomissione ad un altro sistema di potere, con i suoi effetti di verità arbitrari e infondati tanto quanto i precedenti? Foucault non pone mai la questione in maniera così diretta, ma la conferenza del ’78 è probabilmente il luogo in cui il suo invito a porla suona come quanto mai pressante. La riflessione foucaultiana sembra qui riagganciarsi ad alcune delle intuizioni dell’Archeologia del sapere – là dove ogni enunciato veniva considerato come un evento, come l’emersione spontanea da un reticolo di pratiche che ne costituivano le condizioni di possibilità – ma anche a ciò che scriveva l’anno prima di pronunciare la nostra conferenza. Nella celebre prefazione all’edizione americana dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari Foucault scriveva che i due autori esprimevano una così radicale critica dei sistemi di potere da tentare addirittura di «neutralizzare gli effetti di potere legati al loro discorso», lasciando per lo più incerto se tale tentativo fosse fatuo oppure meritevole di essere perseguito.
Nella conferenza di Berkeley pronunciata a un anno dalla morte e contenuta nella seconda parte di questa nuova edizione italiana di Che cos’è la critica?, Foucault torna sul tema, proponendo una distinzione tra l’ontologia formale, animata dalle classiche domande relative a “che cos’è la verità?” o “come si può raggiungere la verità?” e un’altra forma di ontologia, un’“ontologia storica” rivolta alla contemporaneità e che si pone domande più misurate come “qual è l’obiettivo della nostra attività filosofica nella misura in cui apparteniamo alla nostra attualità?” (p. 77). Questa biforcazione all’interno dell’ontologia è, così come l’intero problema dell’Aufklärung e della critica, di nuovo un’eredità kantiana e sembra fare eco a quel celebre adagio della Critica della ragion pura in cui Kant invitava a rinunciare al nome “orgoglioso di ontologia” per fare posto a quello, più modesto, di “analitica dell’intelletto puro”. Un’ontologia storica è quella a cui Foucault mira; un’ontologia capace di contestare le sue stesse pretese ontologiche. In altri termini, una critica capace di dislocarsi anche rispetto a se stessa.
Se il potere si manifesta in effetti di verità, in creazioni di senso, allora il compito della critica è quello di “evenemenzializzare” (p. 49) tali verità, di disvelarne l’infondatezza restituendole alla contingenza che è loro propria. Non c’è niente di più distante da Foucault della semplice contestazione del “sistema”, come se il potere fosse una sostanza immobile e la critica fosse rivolta a contenuti determinati che di tale sostanza sarebbero l’espressione.
Ritorna qui la domanda circa l’ulteriore dislocazione che una critica davvero radicale dovrebbe poter operare. Se il potere è un dispositivo di produzione di senso, cosa ci garantisce che la stessa critica non agisca come espressione del potere? Per portare la critica fino in fondo non è forse necessario “evenemenzializzare” la stessa critica? Non è lo stesso metodo critico-genealogico-archeologico produttore di senso, di determinati effetti di verità e quindi, in ultima analisi, una pratica di assoggettamento? La critica produce sì una desoggettivazione dagli effetti di verità del dispositivo che è oggetto della critica, ma chi garantisce che tale desoggettivazione non corrisponda a una risoggettivazione, alla sottomissione ad un altro sistema di potere, con i suoi effetti di verità arbitrari e infondati tanto quanto i precedenti? Foucault non pone mai la questione in maniera così diretta, ma la conferenza del ’78 è probabilmente il luogo in cui il suo invito a porla suona come quanto mai pressante. La riflessione foucaultiana sembra qui riagganciarsi ad alcune delle intuizioni dell’Archeologia del sapere – là dove ogni enunciato veniva considerato come un evento, come l’emersione spontanea da un reticolo di pratiche che ne costituivano le condizioni di possibilità – ma anche a ciò che scriveva l’anno prima di pronunciare la nostra conferenza. Nella celebre prefazione all’edizione americana dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari Foucault scriveva che i due autori esprimevano una così radicale critica dei sistemi di potere da tentare addirittura di «neutralizzare gli effetti di potere legati al loro discorso», lasciando per lo più incerto se tale tentativo fosse fatuo oppure meritevole di essere perseguito.
Nella conferenza di Berkeley pronunciata a un anno dalla morte e contenuta nella seconda parte di questa nuova edizione italiana di Che cos’è la critica?, Foucault torna sul tema, proponendo una distinzione tra l’ontologia formale, animata dalle classiche domande relative a “che cos’è la verità?” o “come si può raggiungere la verità?” e un’altra forma di ontologia, un’“ontologia storica” rivolta alla contemporaneità e che si pone domande più misurate come “qual è l’obiettivo della nostra attività filosofica nella misura in cui apparteniamo alla nostra attualità?” (p. 77). Questa biforcazione all’interno dell’ontologia è, così come l’intero problema dell’Aufklärung e della critica, di nuovo un’eredità kantiana e sembra fare eco a quel celebre adagio della Critica della ragion pura in cui Kant invitava a rinunciare al nome “orgoglioso di ontologia” per fare posto a quello, più modesto, di “analitica dell’intelletto puro”. Un’ontologia storica è quella a cui Foucault mira; un’ontologia capace di contestare le sue stesse pretese ontologiche. In altri termini, una critica capace di dislocarsi anche rispetto a se stessa.
