L’esperienza della separazione implica un taglio, una perdita, una
lacerazione del filo. È necessario passare dal “fort”, dal gettare via.
M. Recalcati
M. Recalcati
Ho letto con molto interesse il
libro di Massimo Recalcati dal titolo Elogio
dell’inconscio. Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi, edito da
Bruno Mondadori nel 2007. L’esperienza soggettiva dell’inconscio implica un
incontro con il nostro desiderio, con la parte più ignota e refrattaria di noi stesse/i.
Di fronte all’irrigidimento della nostra identità, al padroneggiamento del
nostro io su tutte le dimensioni dell’esistenza, l’inconscio parla una lingua
straniera, pone di fronte a situazioni estranianti che proiettano in dimensioni
sconosciute e non controllabili. Ciò non significa la perdita di ogni
responsabilità etica riguardo l’ambito delle nostre scelte ma, al contrario,
significa la capacità di assumere pienamente le proprie ombre, le proprie parti
di oscurità senza ricoprirle con maschere immaginarie. Riattraversando l’opera
di Freud e di Lacan, Recalcati sottolinea come la malattia psichica non
scaturisca da una fragilità dell’io, ma da un suo rafforzamento. Più vicina a
quella saggezza orientale che tende verso uno svuotamento della soggettività
intesa come pienezza di sé, la psicoanalisi smonta la muraglia identitaria in
cui ci chiudiamo per proteggerci da tutto ciò che non vogliamo accettare e
vedere di noi stesse/i. Da questa prospettiva, il rifiuto di tutto ciò che non
è riconosciuto, identificato, sistematizzato internamente, porta ad una
proiezione esterna e ad una completa negazione/rimozione della nostra alterità
interna. Ma – scrive l’autore –, non c’è mai discontinuità fra i contrari, non
c’è mai una separazione rigida: la barbarie non è estranea alla civiltà, ma la
sua punta più interna, l’inconscio non è l’antiragione ma il cuore della
ragione, lo straniero non è altrove ma al cuore del mio stesso essere (p. 34).
Come territorio straniero
interno, l’inconscio ci porta a fare esperienza della nostra irriducibilità, di
quel frammento di noi stesse/i che si oppone a ogni tentativo di
addomesticamento. Il desiderio non si adatta, ha qualcosa di inguaribile che
non vuole essere guarito, è quell’eccedenza che non può essere afferrata e rinchiusa
nella prigione della nostra mente. Ponendosi oltre la dicotomia
soggetto-oggetto, il desiderio – dalla misura infinita, non quantificabile –,
trasporta su un altro piano, su un altro ordine. C’è però un altro volto
dell’inconscio che non riguarda solo la dimensione eccedente del desiderio. Si
tratta della pulsione di morte, ombra tenebrosa e inquietante di questo
territorio straniero in cui appare una tendenza a un godimento maligno e
distruttivo (p. 105). È su questo punto che ho sentito la mancanza di una
riflessione sulla differenza sessuale, dal momento che Recalcati fa di questa
pulsione di morte il tratto fondamentale della natura umana. Questa natura
–presa qui in un universale senza corporeità, senza il taglio operato dalla
differenza sessuale –, tratteggia una forza che travalica i confini della
difesa biologica della vita, parla di un godimento che non tiene conto della
sua difesa. Qui l’autore ci ricorda che con la scoperta della pulsione di
morte, Freud colpisce al cuore un luogo comune della nostra morale, ovvero
l’idea platonico-cristiana che il fondamento dell’azione etica coincida con il
bene (p. 107). La guerra sarebbe il risultato più eloquente di questa tendenza
distruttiva della pulsione di morte (Todestrieb)
che si rivolge non solo verso l’interno (come distruzione di sé), ma anche
verso l’esterno (come distruzione dell’altro). Frutto di un paradosso
dell’identità umana – che quanto più tenta di difendersi tanto più si distrugge
–, all’origine di questa pulsione c’è il narcisismo, l’affermazione di sé come
un tutto. Eppure, ben prima dell’ideale platonico-cristiano, già Saffo aveva
affermato, in splendidi versi, la sua (in quanto donna) estraneità e distanza
rispetto alla guerra: “Quale la cosa più bella sopra la terra bruna? Uno dice
«una torma di cavalieri», uno «di fanti», uno «di navi». Io, «ciò che s’ama».
Farlo capire a tutti è così semplice! [...]”. Così come anche Antigone, quando
oppone al discorso di Creonte le seguenti parole: “Non per condividere l’odio,
ma per condividere l’amore sono nata”. Per non parlare poi della radicale presa
di posizione di Virginia Woolf quando, ne Le
tre ghinee, scrive che c’è una incompatibilità essenziale tra donne e
guerra. Il processo di soggettivazione è qui dislocato in un altrove.
Seppur non tematizzata, questa
differenza emerge chiaramente, quando, a proposito del gioco del gettare via
del piccolo Ernst – gioco che è diventato un topos della dottrina psicoanalitica e che consiste nell’allontanare
da sé un rocchetto, accompagnando questo movimento con l’esclamazione fort!, “via!”, per poi farlo riapparire in un secondo tempo, con
l’esclamazione da!, qui! –, Recalcati, seguendo Freud, lo
avvicina al gesto estremo di Antigone, la quale per seguire il proprio
desiderio si lascia seppellire viva (p. 115).
Antigone si getta via per non
piegarsi a una legge che le vieta l’esercizio dell’amore e della pietà. In lei
c’è fort senza da, un gettarsi senza ritorno.
Antigone è l’anomalia su cui la
storia inciampa. Come magistralmente scritto dalla filosofa spagnola María
Zambrano, in Antigone non c’è quel processo di autodivinizzazione che appare
nella passione del figlio perché quel gesto è un gesto di “differenza”.
Antigone mostra la differenza tra una relazione «maschile» al divino rispetto
ad una relazione «femminile». Accetta di essere una cosa, un’intermediaria, una
tramite, una schiava attraverso cui possa compiersi non il suo destino
personale ma l’espiazione della sua stirpe attraverso il sacrificio (da sacrum con –ficium, azione sacra). Il sacrificio è l’azione sacra di una
soggettività che rinuncia a se stessa per aderire a qualcosa di incondizionato.
L’essere sacrificale non appartiene a se stesso, ma s’identifica ad un atto (A.
Dufourmantelle). Il sacrificio ha dunque qualcosa d’impersonale, opera un
decentramento della soggettività: esso è legato alla passività e alla «follia
d’amore». Questa eccedenza/offerta consente di valicare i confini del proprio
sé, scompiglia il simbolico dominante e scardina dall’interno la struttura
patriarcale su cui la polis si fonda.
Stefania Tarantino (pubblicato nella sezione "Teoria") 17
marzo 2013