Ore 9.00, sono davanti al Tribunale di Napoli e aspetto una collega;
accanto a me un giovane avvocato, molto
ben vestito, con la toga sul braccio. Mentre mi guardo intorno, gli si avvicina
frettolosamente un distinto signore, molto
ben vestito anche lui, sulla sessantina superata, anche lui con la toga sul
braccio. “Avvocato buongiorno”, dice il giovane rivolgendosi all’anziano “ero
preoccupato, aspettavo ieri sera una sua telefonata per il processo di oggi” e
l’anziano: “scusami, ma sai sono rientrato a casa tardi, in quel momento
iniziava alla televisione un posto al
sole, mi sono messo a guardarlo e mi sono completamente dimenticato di
chiamarti”.
Ore 17.30 sono in metropolitana, due anziane signore del popolo, con
tanto di borse cariche di frutta e verdura comperate a buon mercato, discutono
a voce alta. Non posso fare a meno di
ascoltare. All’inizio mi sembra discutano di problemi condominiali, sento
ricorrente la parola portiere. Mi bastano due minuti per capire che il portiere
in questione è Raffaele che non è il loro portiere ma quello della villa in cui
si svolge “un posto al sole”.
Ore 20.30 di un mercoledì qualsiasi, chiamo al telefono
ininterrottamente ma senza alcun risultato a casa di una amica milanese,
autorevole storica dell’arte di fama internazionale. Alle 21.15 finalmente
risponde. “Scusa”, le dico, “pensavo non ci fossi”. “In effetti”, mi risponde
lei, è come se così fosse, stavo guardando alla televisione - un posto al sole”.
Un posto al sole – lo dico
per dovere di cronaca – è una fiction di Rai 3 che va in onda da tempo ormai
immemorabile alle 20e 30, per circa trenta minuti, più o meno ogni giorno dell’anno, nella quale si
raccontano storie di ordinaria routine
di gente altrettanto ordinaria di ogni ceto sociale, ambientata a Napoli in una
favolosa villa condominio affacciata sul
mare di Posillipo.
Ma quali sono i motivi di questo successo televisivo? sicuramente non
si tratta del solo programma a puntate ad alto share dei palinsesti televisivi;
e perché, mi chiedo, ha un pubblico la cui cifra è quella di una vistosa
eterogeneità che fa il paio solo alla
fedeltà di visione?
Provo a riflettere; mi sono bastate poche puntate per darmi una
spiegazione: il programma intercetta magistralmente come pochi un bisogno relazionale. La partecipazione attenta e
costante è quella di un pubblico umano, naturalmente inclinato all’essere in
relazione con l’altro\a, e non importa se le relazioni tra i personaggi spesso
non siano idilliache, anzi meglio, sono quelle che ci troviamo ad avere con
nostro figlio, con nostra madre, con un amico, con i colleghi di lavoro, con il
portiere del nostro palazzo. A questo si aggiunge che lo spettatore che accende
la televisione infreddolito perché è febbraio, non trova i suoi beniamini stesi al sole di una
splendida spiaggia caraibica, ma anche loro, morti di freddo, che discutono del
riscaldamento che non funziona, magari con il portiere!
L’appuntamento con “un posto al
sole” diventa così una sorta di altra camera della casa, al cui interno, di
ritorno alla sera, si guarda come nelle altre, nella quale si con-divide la necessaria utopia domestica,
fatta di dolci preparati per il compleanno, conti da far quadrare, amori che
vanno in frantumi, malattie da accettare, le stesse cose per tutti, senza
alcuna distinzione di ceto o di cultura, di età o di genere, accomunati dal
bisogno di ognuno della relazione con l’altro\a per potersi riconoscere,
illudendosi così di non poter essere mai colti di sorpresa, e poco importa se
si condivide con personaggi sicuramente immaginari, ma senz’altro potentemente
evocativi.