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Salute partecipata


“La salute è creata e vissuta negli ambienti dove le persone vivono tutti i giorni:  dove imparano, lavorano, giocano ed amano”(OMS-1986)
Assistiamo sempre più vistosamente alla lenta ma inesorabile apertura della forbice della disparità di accesso alle cure sanitarie e della loro efficacia tra le diverse fasce sociali della popolazione italiana, a svantaggio di quelle più disagiate. Accedere più volte ai servizi sanitari non significa tout court averne più bisogno, e d’altro canto  non significa ricevere una migliore risposta assistenziale.
Se è vero che i determinanti sociali sono determinanti di salute allora potrebbe essere strategico impegnare le nostre azioni nel superamento dell’accezione meramente sanitaria del significato di salute,  per il passaggio da bisogno (domanda?) e relativa soddisfazione di esso, a esercizio della responsabilità individuale e collettiva.
Servizi sanitari dunque come bene comune, cioè della comunità, e non risposte a domande, che scaturiscono da scelte aziendalistiche secondo logiche e leggi di mercato e di profitto che poco sanno (ed a cui poco interessa) della salute dei loro “consumatori”.
Lo sviluppo della responsabilità nella comunità quale luogo di elaborazione di una nuova identità comunitaria fatta di diversità e di pluralità, piaccia o no, costringe ad un ripensamento della stessa, nella quale tutte le componenti del Welfare sono coinvolte.
A mio avviso andrebbe superata anche la logica del cittadino\utente al centro del sistema, per il semplice motivo che il cittadino\utente è il sistema.
In un contesto come quello attuale in cui le risorse sono limitate, in particolar modo al Sud,  andrebbe approfondita la possibilità di lavorare sull’idea che i servizi sanitari siano uno strumento del bene salute, e che quindi il loro utilizzo debba essere attento ed oculato da parte non solo dei cittadini\utenti ma anche degli operatori, anch’essi parte della medesima comunità.
Promuovere un rapporto virtuoso tra medici e pazienti, e tra questi ultimi ed i servizi a loro disposizione richiede infatti ai pazienti un atteggiamento di attiva collaborazione nei confronti del sistema sanitario, un atteggiamento alla cui base sia presente una efficace sensibilizzazione per il Bene sanitario, unica, ad avviso di chi scrive, garanzia di equità di accesso alle cure ed appropriata fruizione delle stesse.
A tal proposito andrebbe ripensato il ruolo delle associazioni dei cittadini\pazienti, ruolo che molte volte si concretizza in un mero controllo dell’operato dei sanitari e delle strutture, spesso sfociando in azioni di rivalsa nei confronti dei medici e dell’organizzazione, con il risultato di aumentare quella distanza e disparità che minano alle fondamenta tutte le alleanze necessarie per la realizzazione del bene salute.
D’altra parte gli operatori dei servizi sanitari dovrebbero sempre tenere a mente che sono i pazienti che si rivolgono ai servizi sanitari che determinano la loro legittimazione sociale, e che solo un atteggiamento che richiami ad un sistema di valori condiviso  ed alimenti la motivazione ed il senso di appartenenza, può tradursi in interventi sanitari nei quali il paziente sia un singolo unico ed irripetibile membro della stessa comunità.
La costruzione di un modello di salute partecipata potrebbe costituire una possibile forma di “resistenza”. Un ripensamento delle organizzazioni sanitarie basato su atteggiamenti di accoglienza, comprensione, compassione potrebbe rappresentare un buon viatico per la promozione della “cultura della salus e dell’accoglienza al servizio dell’uomo e del pianeta” come recentemente ha detto Papa Francesco, nella quale il bene salute sia frutto di reale partecipazione dell’intera comunità, in particolar modo nei confronti di coloro che sempre più patiscono “la povertà sanitaria”,  intesa come rinuncia alle cure per impossibilità economica. La salute dunque come bene comune ed inalienabile, come l’acqua indispensabile per la vita, proprietà di nessuno, bene condiviso equamente da tutti.


Maria Vittoria Montemurro