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Una legge per la cittadinanza nell'antica Roma

(NdR: in tanti/e ci hanno chiesto di presentare brevemente le autrici e gli autori  dei vari pezzi. Cominciamo da questo che segue.)

Lucio Licinio Crasso e Quinto Mucio Scevola nell'anno 95 a.C. promulgavano  la lex Licinia Mucia de Civibus Regundis, che vietava ai non-cittadini romani di spacciarsi come tali e li obbligava a lasciare l'Urbe; tale legge intendeva regolare la concessione della cittadinanza in un tempo di ondate migratorie che, iniziate forse prima delle guerre puniche, erano proseguite a ritmi incalzanti, e sarebbero proseguite incessantemente nel corso della storia di Roma. Non considerando la presenza degli schiavi, tra i quali vi erano artisti ed intellettuali, i flussi in movimento erano costituiti da mercanti, artigiani, contadini liberi ed in genere individui attratti dalla crescente grandezza di Roma. Gli spostamenti all'interno della penisola e poi quelli nel Mediterraneo erano divenuti nel tempo incontrollabili (M.Sanfilippo, L'immigrazione in Roma antica, Università della Tuscia, Viterbo  2011). In quello stesso anno, un giovane non ancora trentenne, Marco Livio Druso, tribuno della plebe, sosteneva l'opportunità dell'estensione del diritto alla cittadinanza ai popoli italici federati. Druso stesso non si sarebbe potuto definire un paladino del popolo: aveva infatti proposto iniziative giuridiche a favore della classe senatoria mentre si preoccupava di incrementare l'assegnazione di terre alla plebe e di abbassare il prezzo del grano. Fino ad allora aveva goduto della stima e del sostegno di alcuni senatori, non solo del favore del popolo. Nella sua visione politica,  il problema del controllo dei fenomeni migratori, dello scoraggiamento degli spostamenti irregolari,  della repressione  del vagabondaggio e della delinquenza dovevano essere risolti attraverso la concessione della cittadinanza a quanti si erano radicati e successivamente integrati nel mondo romano. Marco Livio dunque elaborò una complessa riforma che potesse essere gradita agli aristocratici e riscuotere il consenso popolare, senza penalizzare il ceto equestre che, di fatto, esercitava il potere economico. Equites ed ottimati si sarebbero ritrovati fianco a fianco in un senato allargato; il senato avrebbe recuperato il potere giudiziario; il grano sarebbe stato distribuito a prezzo politico; l' ager publicus sarebbe stato distribuito alla plebe; i socii italici avrebbero avuto la cittadinanza romana. Fu l'ultima proposta che il senato non gradì; Druso però aveva promesso ai socii quella cittadinanza, si era segretamente impegnato con loro e forse qualcosa di questo patto era trapelato. Fatto sta che le leggi già approvate furono abolite e Druso venne assassinato sulla porta di casa.
Gli alleati italici si sentirono tagliati fuori, impossibilitati ad esprimere la propria opinione e a reclamare quel diritto che veniva loro quasi naturalmente dalla partecipazione al servizio militare e dalla inclusione in tutte le  attività economiche oltre che dal pagamento delle imposte. Nel 90 a.C. i Romani vennero massacrati ad Ascoli: iniziava la guerra sociale, che si sarebbe risolta con la promulgazione di due leggi: la Lex Iulia de Civitate, per la quale si concedeva  la cittadinanza alle città rimaste fedeli e a tutti coloro che avessero deposto in fretta le armi; e la Lex Lautia Papiria, che concedeva la cittadinanza a tutti coloro che si sarebbero recati dal pretore di Roma entro 60 giorni.
L'Italia era divenuta ager romanus, organizzato nel sistema dei municipia, e agli italici si apriva la strada dell'accesso alle magistrature.

Maria Colaizzo (docente materie letterarie – Liceo “Vico” – Napoli)