testata registrata presso Tribunale di Napoli n.70 del 05-11-2013 /
direttore resp. Pietro Rinaldi /
direttore edit. Roberto Landolfi

Aisha e le studentesse di Chibok

Cinquemila quattrocento chilometri ci separano dal villaggio rurale di Chibok. Nell’aprile del 2014 276 giovani ragazze sono state rapite dagli estremisti islamici di Boko Haram nel liceo in cui stavano studiando. Qualche giorno fa ho sentito che il governo è riuscito a liberarne 21 dopo una lunga trattativa in cui, in cambio, ha dovuto rilasciare quattro miliziani jihadisti. Tra queste 21 giovani ragazze molte hanno avuto un figlio/a o stanno per averne. Solo tre sono tornate senza prole e non gravide. Una storia assurda che, come tante, ci restituisce tutta la violenza di questo nostro presente e dei tempi oscuri, terribili, che stiamo vivendo e che, soprattutto stanno vivendo altre e altri. Non voglio fare qui un racconto di cronaca, le poche notizie che si hanno su questo rapimento/stupro di massa si possono trovare su Internet. Si tratta comunque di notizie confuse, di numeri approssimativi, di resoconti contradditori. Del resto, questa storia tragica riguarda quella parte di Africa – la Nigeria – abbandonata a se stessa che storicamente è stata uno dei bacini più ricchi per la tratta degli schiavi e che oggi versa nelle mani di alcuni potenti accaparratori che hanno tutto l’interesse a far tacere tutto ciò che accade da quelle parti. Contemporaneamente alla lettura dell’articolo che parlava della liberazione di queste 21 ragazze, leggo anche di una conferenza stampa fatta subito dopo un incontro tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente nigeriano Muhammadu Buhari. Quest’ultimo, incalzato dai giornalisti sulle dichiarazioni fatte dalla moglie Aisha a proposito di un non scontato sostegno a un nuovo mandato presidenziale di suo marito, ha risposto con queste parole: “Non so a quale partito appartenga mia moglie, ma di certo il suo posto è in cucina, nel salotto e nelle altre stanze”. Ho trovato queste parole – che già di per sé sono inaccettabili e dovrebbero costituire un valido motivo per non permettere al signor Buhari di ricandidarsi – terribili, proprio per il momento in cui sono state pronunciate. Parole pesanti come macigni che non possono essere liquidate con un sorrisino, men che mai con un’alzatina di spalle. Sappiamo che uno degli obiettivi degli jihadisti è di impedire che le donne studino, si emancipino dai vari poteri che le opprimono e le sottomettono, quindi, in sostanza, vivano liberamente. L’unica cosa che è loro riconosciuta è il fatto di poter fare figli e di occuparsi di una parte della vita materiale, di stare in cucina, appunto, o in qualche altra stanza a sbrigare altre faccende domestiche. Vedo una linea di continuità pericolosa tra le affermazioni del presidente nigeriano e i “metodi” schiavisti dei miliziani di Boko Haram. Vedere ed essere consapevole di questa continuità mi libera da qualsiasi retaggio di politically correct, una delle tante strategie politiche patriarcali per non dire mai come stanno le cose. Il patriarcato ha sempre assunto forme molteplici e non stupisce che neanche “il presidente” possa tollerare che una donna non sia l’ancella silenziosa che avalla il suo potere. In questi due anni mi sono chiesta più volte come sia stato possibile rapire queste ragazze e lasciarle per così tanto tempo in mano di questi miliziani. La maggior parte è ancora lì e non sappiamo se e quando saranno liberate. Il XXI secolo ci era stato preannunciato come il secolo che avrebbe aperto scenari inediti e più giusti per tutte e tutti e invece ci ritroviamo a fare i conti con antiche forme di schiavitù rivisitate per i tempi moderni dove le donne, ovviamente, hanno sempre la peggio. Il grande paradosso è che qui si tratta di non una, non due o dieci, ma ben più di duecento! Una carovana avrà attraversato paesi e villaggi, eppure loro sono state inghiottite nella voragine di un nulla di indifferenza e paura. Ho provato a immedesimarmi, a pensarmi nella loro stessa situazione. Ho provato ad immaginarmi l’orrore, la violazione del mio corpo o di quello delle mie figlie. Ho pensato a Lucia, alla sua capacità di empatia, al dolore che una storia del genere le avrebbe provocato. Per queste ragazze nulla sarà più come prima. È tutto un intrico di relazioni, di rapporti degenerati che condizionerà per sempre la loro vita. Un marchio a fuoco esterno e interno, visibile e invisibile le accompagnerà e non ci sarà nessun laser che potrà eliminarlo. Dovranno fare i conti con un’adolescenza rubata, con il loro desiderio di aspirare al meglio, con la violenza subita, con il corpo e l’anima fatta a brandelli, con la creatura non voluta che si portano dentro o che hanno già tra le braccia, con la paura di non essere più accettate dalla comunità d’origine, con il timore che i “padri” di quelle creature possano ritornare per prenderseli e per farli arruolare nel loro esercito. Nonostante tutto questo, un sospiro di sollievo mi è arrivato vedendo la fierezza di una madre di una di queste ragazze liberate che ha detto che sua figlia ritornerà nel luogo in cui è stata rapita: la scuola. Che lotterà con lei per farle riavere la sua vita di prima. Nei suoi occhi tutto il senso di ciò che significa “fermare il tempo”, sospenderlo, congelarlo. Solo così, attraverso salti, si può far fronte a un dolore così grande. La relazione tra madre e figlia ha un significato così potente che può salvare dalla disperazione e dalla distruzione. Lo sapeva bene Lucia quanto le relazioni di bene, d’amore, possano salvare o, per lo meno, alleviare le ferite più terribili. Dopo alcuni progetti con le donne africane che vivevano ad Aversa aveva scritto le seguenti parole: “Chi si prenderà cura di voi? Forse un giorno sarete veramente accolte, senza barriere di razzismo e troverete il conforto di una città amica. Risollevate dalle loro esigenze di sopravvivenza, in una terra di pericoli, pregano per la loro Africa e per questo mondo: la devozione alimenta la fede. L’unica possibilità per rompere l’isolamento sembra risiedere in un atto d’amore, per mostrare ancora che i confini sono tutte bugie”.

Stefania Tarantino  (cura la sezione Teoria/partire da sé di questi periodico.  È assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli L’Orientale e il suo lavoro è incentrato prevalentemente sul pensiero delle filosofe del XX secolo. )