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Slogan, insulti e gaffe: un nuovo linguaggio della politica?


Gli sms, i post di Facebook, i tweet, e le altre forme di messaggistica istantanea, sembrano averci definitivamente abituati ad una comunicazione parsimoniosa fino all’avarizia, ad un linguaggio allusivo ed iconico che lascia sempre meno spazio all’argomentazione ed alla tranquilla esposizione delle proprie tesi, delle ragioni alla base di scelte e convinzioni. Anche i linguaggi della politica e delle istituzioni – che d’altro canto fanno ormai ampio uso di social network e messaggistica istantanea – non fanno eccezione a questa tendenza, al punto che, almeno i più giovani, potrebbero essere portati a credere che l’inflazione di slogan e parole chiave e la loro quasi ossessiva ripetizione da parte dei leader politici, nostrani ed esteri, sia una naturale conseguenza dell’evoluzione tecnologica della comunicazione. Nella continua mutevolezza di scenari, alleanze, programmi e riforme, ricordare i dettagli del dibattito politico, anche di pochi mesi prima, le singole posizioni o i provvedimenti promossi dalle varie leadership è impresa ardua (almeno senza l’ausilio degli archivi digitali), più difficile, tuttavia, è dimenticare slogan e parole chiave che in un dato momento hanno sintetizzato l’orientamento di ciascun protagonista della scena politica.  Chi non ricorda il programma delle “Tre i: inglese, internet, impresa”, il “Governo del fare”, l’obamiano “Yes, we can!” oppure il riattualizzato “America First”?
Eppure il fenomeno non è affatto nuovo. I conflitti politici negli anni 60 e 70 furono sicuramente caratterizzati da una straordinaria ricchezza di slogan contrapposti (in quegli anni per lo più di carattere creativo ed antagonista), di cui non è difficile trovare anche dei ricchi cataloghi nel web. E se si è disposti a viaggiare ancora più indietro nel tempo, anche gli anni del Fascismo regalano motti (in quest’ultimo caso di fonte governativa) di particolare efficacia comunicativa, come: “Chi si ferma è perduto”, “Credere, obbedire, combattere” etc.
È un linguaggio che somiglia molto da vicino a quello della promozione commerciale, della pubblicità e probabilmente non solo nelle forme. Credo che non sia inutile tornare a riflettere sulle caratteristiche e sui rischi di questo tipo di comunicazione, magari rileggendo alcune riflessioni di Herbert Marcuse, che nel volume L’uomo a una dimensione (1964),  dedicò un capitolo della propria analisi delle società industriali avanzate al tema della chiusura dell’universo di discorso.
Afferma Marcuse: «[…] i governi e le macchine […] parlano un linguaggio differente e, almeno per ora, essi sembrano avere l’ultima parola. […] la parola che ordina ed organizza, che induce le persone a fare, a comprare, e ad accettare, viene trasmessa in uno stile che è una vera creazione linguistica; una sintassi in cui la struttura della proposizione è abbreviata, condensata in tal modo che non rimane alcuna tensione, alcuno «spazio» tra le parti della proposizione. Questa forma linguistica si oppone ad ogni sviluppo del significato». (op. cit. - p.98)
Oggi potremmo definirlo, con un’espressione d’uso comune, un linguaggio che parla alla “pancia delle persone”, che punta ad evocare emozioni e ad attivare comportamenti automatici, piuttosto che suscitare un dialogo e costruire significati condivisi. Uno stile comunicativo che, a prescindere dai contenuti, suscita sospetto già soltanto per la propria pervasività.
«Al di fuori della sfera relativamente innocua della promozione commerciale, le conseguenze sono piuttosto serie, perché un linguaggio del genere è insieme «intimidazione e glorificazione». Le proposizioni prendono forma di comandi suggestivi. Sono evocative piuttosto che dimostrative. Il predicato diventa una prescrizione; l’insieme della comunicazione ha un carattere ipnotico. Al tempo stesso è carico di falsa familiarità, risultato della continua ripetizione e del tono diretto e popolare che viene abilmente impartito alla comunicazione. Questa stabilisce una relazione immediata col destinatario, senza distanze di status, di educazione, di ufficio e lo colpisce nell’atmosfera casalinga del soggiorno, della cucina e della camera da letto.” (op. cit. - p. 103)
E se già la contrazione del linguaggio che porta alla nascita di uno slogan, come sintesi di un’idea forte o di un proposito politico suscita dunque una sottile inquietudine, ancora più rischiosa appare la sintesi estrema quando il suo scopo è quello di etichettare persone, avversari, singoli provvedimenti, senza spiegare alcunché, ma creando semplicemente campi di opzione, per lo più binari, in cui uno dei due termini è molto vicino all’insulto. Le cronache recenti abbondano di esempi d’uso di termini e frasi forti, paragoni azzardati, provocazioni e siparietti fuori onda in cui la spregiudicatezza del linguaggio, pur quando fatta oggetto di riprovazione e satira, finisce comunque con il raggiungere uno dei suoi probabili scopi: marcare distinzioni sintetiche. Termini quali disfattista, gufo, paesi canaglia, cosa esprimono esattamente se non un’esigenza di demarcazione tra noi e loro, tra buoni e cattivi? La loro ripetizione, quasi ossessiva, in ogni discorso, in ogni contesto, quale altro scopo può avere se non invitare l’ascoltatore ad una scelta di campo, senza sottili distinzioni o ragionamenti?
Allo stesso modo, quando si identifica un provvedimento normativo o amministrativo – ad esempio una riforma – con una denominazione del tipo “la buona riforma”, cosa si sta dicendo in sintesi di questo provvedimento se non che quello che ne è al di fuori, che lo precede o vi si oppone, non è buono?
Nulla di nuovo, dunque, neanche in questo caso. Continuando la lettura delle pagine de L’Uomo a una dimensione, se ne ha la conferma:
«Il linguaggio chiuso non dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi. Quando definisce, la definizione diventa «una separazione del bene dal male»; stabilisce in modo indiscutibile torti e ragioni […] Procede per tautologie, ma le tautologie sono «sentenze» terribilmente efficaci, in quanto esprimono un giudizio in «forma pregiudicata»; di fatto pronunciano condanne» (op. cit. - p. 113)
Naturalmente si potrebbe obiettare che una certa dose di sintesi nella denominazione e illustrazione di programmi e provvedimenti sia una necessità pratica, soprattutto in tempi in cui il web ci informa perfino del tempo di lettura di un articolo di giornale per farci liberamente scegliere se leggerlo subito o quando avremo più tempo. E ancora potremmo dire, proprio a fronte della rilettura dei classici della sociologia del secolo scorso, che il meccanismo è ormai noto e quindi i rischi ridotti. Possiamo insomma tranquillamente credere che il cittadino si comporti dinanzi agli slogan e alle parole d’ordine della politica come un qualsiasi avveduto consumatore dinanzi al dolus bonus del commerciante, con una certa dose di circospezione. Forse.
Eppure gli effetti di mobilitazione che alcune di queste trovate pubblicitarie hanno avuto negli ultimi decenni rendono non meno attuale la battuta con cui lo stesso Marcuse chiudeva la sua analisi:  «La nuova finezza del linguaggio magico-rituale è piuttosto da vedersi nel fatto che le persone non vi credono, o non se ne curano, eppure agiscono in conformità ad esso» (op. cit. p. 114)


Ivo Grillo (sociologo)