Non
esiste forse gesto che interroghi più profondamente il senso della vita di
quello drammatico di chi scelga di privarsene, con il suicidio. E probabilmente
non esiste altra causa di morte che susciti reazioni pubbliche e private tanto
contrastanti ed una altrettanto spasmodica ricerca delle ragioni. Costante
preoccupazione di ogni operatore della salute mentale, ma anche ombra dei
sistemi sociali in ogni epoca storica,
il suicidio è, tuttavia, argomento di cui si fa ancora fatica a parlare.
Anche le
statistiche languono: l’ultima indagine Istat sul fenomeno è basata su dati del
2013 e perfino le rilevazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono
pressappoco ferme agli stessi anni. Una
parte della stampa e dei mass media – che hanno ricevuto, tra l’altro, dall’O.M.S. l’indicazione di evitare la sovraesposizione alla notizia, l’uso
di un linguaggio sensazionalistico
e la descrizione dettagliata delle
modalità del suicidio – esprimono la convinzione che il fenomeno sia in
aumento. Sulle ragioni di questo eventuale incremento delle morti per suicidio,
naturalmente non c’è accordo, solo ipotesi. Ipotesi che sono tanto più difficilmente
verificabili e confrontabili, quanto la natura straordinariamente soggettiva
del gesto e delle sue ragioni, ne rende problematico l’inquadramento in ampie
categorie concettuali.
Eppure
Émile Durkheim, nel 1897, con un voluminoso e rigoroso studio scientifico, provò
a fare del suicidio un’analisi squisitamente sociologica, nel corso della quale,
prendendo in esame le serie storiche dei dati disponibili all’epoca, giunse a
stabilire che «ogni società ha, dunque, ad ogni momento della sua storia, una
caratteristica attitudine al suicidio». Un’attitudine
espressa dal tasso di mortalità per
suicidio, cioè dal rapporto tra il numero totale di morti volontariamente
indotte registrate nell’anno di riferimento e la popolazione totale di quel
Paese nello stesso periodo.
L’analisi
dei dati disponibili lo avrebbe inoltre convinto che «non solo questo tasso è
costante durante lunghi periodi di tempo, ma la sua invariabilità è persino
maggiore di quella dei principali fenomeni demografici». Esclusa dunque,
attraverso dimostrazioni logiche, l’influenza di fattori psicologici, cosmici,
razziali e persino l’eventuale ruolo giocato dall’imitazione, il tasso di
suicidio in un determinato Paese, sarebbe spiegabile essenzialmente da ragioni
sociali, ovvero dal modello organizzativo e dai valori dominanti in un
determinato contesto. Ed è a questo punto dell’analisi che Durkheim introduce,
in uno sforzo di classificazione, tre tipologie fondamentali di suicidio,
proprie di altrettanti modelli di organizzazione sociale: il suicidio egoistico, quello altruistico ed infine quello anomico.
Il primo sarebbe frutto di una carente integrazione sociale degli individui,
che lasciati soli dinanzi ai problemi dell’esistenza, frequentemente ridotti nell’impossibilità
di realizzare le proprie aspirazioni, non troverebbero più ragioni di vita. Il
secondo, al contrario, sarebbe il classico portato delle società pervasive,
quelle in cui l’adesione dell’individuo ai valori e modelli imposti dalla società
è totale. E sarebbero questi stessi valori e modelli di comportamento, a prevedere
che gli individui sacrifichino la propria vita in situazioni particolari (come ad
esempio quando a causa di una età troppo avanzata o delle malattie siano
diventati di peso, oppure alla morte del proprio compagno o del proprio
padrone, nel caso degli servi). L’eventuale non adesione a tale imposizione, proprio
in virtù delle caratteristiche di questi sistemi sociali, determinerebbe
sanzioni di peso insostenibile. Il terzo, il suicidio anomico, è quello su cui l’analisi è più estesa ed articolata,
trattandosi del fenomeno più tipico delle moderne organizzazioni sociali. Questo
tipo di suicidio dipenderebbe, a differenza degli altri due, non dal grado di
integrazione sociale, dunque dal rapporto tra gli individui ed il sistema
sociale di appartenenza, quanto dalla crescente incapacità di quest’ultimo di
“guidare” e “organizzare” la vita degli individui, conferendo loro un senso,
un’orientamento. Il concetto è così introdotto da Durkheim:
«Ci
troviamo, così, in presenza di un nuovo tipo di suicidio che va distinto dagli
altri. Esso ne differisce perché dipende non dalla maniera in cui gli individui
sono legati alla società, ma dal modo in cui essa li disciplina. Il suicidio
egoistico viene dal fatto che gli uomini non scorgono più una ragione di essere
in vita; il suicidio altruistico dal fatto che questa ragione appare fuori
dalla vita medesima; il terzo tipo di suicidio di cui abbiamo ora constatato
l’esistenza, deriva dal fatto che l’attività degli uomini è sregolata ed essi
ne soffrono. Per la sua origine, daremo a quest’ultima specie il nome di suicidio anomico».
Si badi
bene che in ogni società, ed in ogni momento storico, agiscono simultaneamente
correnti di pensiero che spingono all’affermazione della personalità
individuale (egoistiche), alla rinuncia di sé (altruistiche) ed
all’affermazione del progresso, con le sue conseguenze anomiche, ma fin quando questi
orientamenti valoriali permangono in un equilibrio relativamente stabile, non esprimono alcun potenziale suicidiario. Potenziale
che invece si realizza – incontrando le ragioni individuali di disagio – solo
quando uno di essi prende il sopravvento.
E qui
merita di essere riesaminata un’idea di grande modernità del pensiero
durkheimiano sul suicidio: quella che mette in relazione gli episodici e
ciclici incrementi del tasso di suicidio con i periodi di crisi, ma non a causa delle conseguenze economiche di queste,
quanto piuttosto per gli effetti anomici (di confusione, di vuoto) e di
squilibrio che esse producono, qualunque ne sia l’origine. Afferma al riguardo
Durkheim:«Se, allora, le crisi industriali o finanziarie aumentano i suicidi,
non è perché impoveriscono, giacché le crisi di prosperità hanno lo stesso
risultato, ma perché sono crisi, cioè delle perturbazioni dell’ordine
collettivo».
L’osservazione
appare ancora oggi valida e il fatto che il tasso di suicidio non sia
correlato, in generale, al benessere economico è finanche confermato dai dati
statistici disponibili, i quali registrano percentuali di suicidio significativamente
alte in Paesi sia europei che extraeuropei con un grado di benessere elevato. *
Il
concetto di anomia sembra dunque
spiegare ancora in maniera efficace un certo aumento della pulsione sociale al
suicidio, ma di cosa parliamo esattamente quando invochiamo questa forma di
assenza di regolamentazione, di a-nomìa
appunto? A pensarci bene l’applicazione di questo concetto alle società
contemporanee, sempre più inflazionate da norme d’ogni genere e livello, sembra
avere un carattere paradossale. Ma è evidente che la regolazione di cui già sul
finire del 1800 si avvertiva l’impoverimento non è necessariamente quella di
ordine giuridico, bensì quella di ordine morale. È la perdita di centralità ed
autorevolezza di quelle istanze che aiutano – per quanto possibile – ciascun
individuo a dare uno scopo alla propria esistenza e a definire il proprio ruolo
in seno alla società a determinare la condizione di anomia. Una condizione probabilmente sovrapponibile a quella che
oggi viene comunemente indicata come crisi
o mancanza di valori e che, anche qui
paradossalmente, appare favorita dal moltiplicarsi confuso dei punti di
riferimento e delle istanze educative formali e informali. Ribadisce, infatti,
Durkheim: «L’uomo non può interessarsi a fini che gli siano superiori e
assoggettarsi ad una disciplina, se non scorge sopra di sé niente a cui sia
solidale. Liberarlo da ogni pressione sociale significa abbandonarlo a se
stesso e demoralizzarlo. Queste sono, infatti, le due caratteristiche della
nostra situazione morale. Mentre lo Stato si gonfia e si ipertrofizza per
arrivare a stringere abbastanza fortemente gli individui, questi, privi di
legami fra loro, rotolano gli uni sugli altri come altrettante molecole
liquide, senza incontrare nessun centro di forze che li trattenga, li fissi e
li organizzi».
Concluderei
qui questa rilettura de “Il Suicidio” di Émile Durkheim, non senza osservare
come la straordinaria immagine degli individui ridotti a “molecole liquide” costrette a muoversi
caoticamente in uno spazio privo - o almeno povero - di riferimenti, sembra
ispirare, con oltre un secolo di anticipo,
un concetto che farà la fortuna di un altro sociologo, scomparso da
poco, Zygmunt Bauman.
*Per un
confronto dei tassi di suicidio nei vari Paesi del mondo, si consiglia di
consultare il seguente link: https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_tasso_di_suicidio
Ivo Grillo
(sociologo)