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Le ostriche di San Damiano

Il giorno primo gennaio 1963 la Direttrice della mia Scuola elementare mi congedava con un libro, Scritti scelti di Alfredo Panzini. Una semplice dedica recitava Alla piccola Colaizzo  Maria in dono,  seguita dalla firma. Di quel libro difficile per me, allora, rilessi così tante volte le pagine da mandarle a memoria, e di quelle storie una ho portato con me: Le ostriche di San Damiano. E' la piccola umanissima avventura di un integerrimo e severo professore di Latino e Greco, con il veniale vizio della gola, e di un suo allievo, anzi ex-allievo, Damiano Saltori che, bocciato o meglio schiacciato, come soleva dire il professore, lo ringrazia per averlo salvato da Cornelio Nepote e da un avvenire che non gli piaceva costringendo il padre  a rassegnarsi alla sua scelta di lavorare nel restaurant di famiglia. 

Il professore per una volta può togliersi di dosso il pastrano ottocentesco di insegnante, ben più pesante di quello che metaforicamente indossano i docenti di oggi, ed uscire dal restaurant  con un superbo Avana tra le labbra, come un banchiere o un gentiluomo che non misura il denaro per la colazione.

L'imbarazzo per quella bocciatura, di cui nemmeno si ricorda, nasce nel professore dal racconto di una raccomandazione non andata a buon fine, con due quattro  che non erano divenuti due sei,  nonostante le insistenze del padre di Damiano  ("Come? Faccio anch'io degli sconti coi miei debitori per delle centinaia di lire, e lei per un punto...").  Ma Damiano è felice, perché ha imparato invece le lingue ed il commercio, e accompagna il professore alla porta porgendogli personalmente il cappello e il bastone, e pregandolo di tornare spesso ad onorare il suo esercizio.  Quel pasto, però,  il professore se lo può concedere solo all'inizio del mese, quando tocca lo stipendio (nonne meruimus hodie stipendia?).

I miei colleghi possono comprendere il motivo dell'affetto che nutro per questa storia.  L'abito dell'insegnante si attacca alle carni e vi permane anche quando si vorrebbe disfarsene per tornare liberi come prima. I periodi dell'anno scolastico sono caratterizzati da quell'abito che, anche se indossato inconsapevolmente,  determina espressioni, posture, registro linguistico. Nella fase dell'approccio, al principio dell'anno scolastico, aleggiano sui volti passioni, entusiasmi e speranze; si spiega convinti che i contenuti della propria disciplina suscitino le stesse emozioni che ancora ci animano. Poi, la fatica delle correzioni e la delusione per risultati approssimativi o modesti rendono gli sguardi cupi e le parole amare. L'abito diviene quello del censore e ci aggrappiamo ai migliori per non naufragare nel mare delle incertezze. Nei momenti conclusivi, dopo ricadute e riprese, irritazioni e rassegnazioni, dopo le iniziative (strategie) per riparare le falle dello scafo ecco la ricerca della valutazione giusta, le perplessità, i cedimenti. Ognuno che insegni merita d'essere non dico compreso, ma compatito per tanta fatica. Per il sacrificio di sé che gli ha cucito addosso un abito a buon mercato, perché anche quelli che si divincolano tentando di rifiutarsi al sistema finiranno per accettarlo, per un motivo o per l'altro. Entriamo nella scuola e misuriamo la vita in anni scolastici. Ci confrontiamo con durezza relegando al fondo quello che abbiamo progettato per noi, oppure pieghiamo i nostri saperi alla didattica, parola pericolosa ed ambigua, e siamo costretti ad affidare a povere carte un nobile lavoro. La storia di Alfredo Panzini ci può consolare, poiché anche il professore di Damiano, in un tempo remoto, ha dovuto fare i conti con un ruolo occasionalmente marginale, e riconoscere che il suo insegnamento si è rivelato, alla luce dei fatti, inattuale. Relegando nella sfera privata l'insuccesso, egli tuttavia (non potrebbe essere diversamente) si sottrae alla riflessione sulla propria identità di docente, letterato ed intellettuale, e accetta con serena rassegnazione  il mancato riconoscimento retributivo da cui è, nel quotidiano, ampiamente penalizzato.

La sua autorevolezza è scontata, la superiorità dei suoi saperi indiscutibile, la sua funzione esplicitata e realizzata in un ruolo sociale prestigioso. L'ambito di riferimento del professore di Panzini non è infatti quello economico, né quello produttivo (Damiano ha scelto di collocarsi su di un gradino inferiore della scala sociale, nonostante la sua professionalità), ma quello di un sistema di valori che colloca la scuola e l'istruzione al primo posto. Istruzione e formazione consentono all'individuo di conquistare una posizione centrale e non marginale o dipendente all'interno della società e nel mondo del lavoro, di realizzarsi come intellettuale, professionista, dirigente e protagonista sulla base dei propri meriti, delle proprie conoscenze e competenze.

Il docente del terzo millennio deve fare i conti con la propria marginalità, e l'insegnante di letteratura con il senso dell'insegnamento della stessa. La figura dell'intellettuale è radicalmente cambiata nell'ultimo trentennio e la sfida che si pone investe più di una tipologia di lavoratori della conoscenza. Ma non è detto che la marginalità sia una condizione negativa, e che l'inattualità della scuola sia un dato criticabile. La scuola [...]ha un mandato che non si brucia nella immediatezza e nella contingenza; deve anche resistere ai tempi se ciò è necessario per assolverlo, e cioè per conservare la memoria e garantire ancora la possibilità di un patto fra le generazioni. 

Giunta all'età in cui i ricordi cominciano ad ammassarsi nella mente formando talvolta un groviglio confuso, cerco di riordinarli come tante volte ho tentato di fare con le foto di famiglia, disponendole in album secondo la cronologia delle vicende. Fallito il riordino e ricacciate le foto con un sospiro di sollievo nello scatolone, ho creduto che le parole, di cui mi sento sempre più esperta, potessero rimettere in piedi le storie, per mio piacere e spero non a danno d'altri. Mentre scrivevo, però, mi sono dovuta arrendere al fatto che le storie si annodavano tutte intorno ad un unico centro d'interesse, e questo centro era la scuola. Come dice la mia amica Rosaria, sono entrata nella scuola a sei anni e non ne sono venuta più fuori. O meglio, Lei ne è venuta fuori  ed io, invece, non ancora.

Non ho chiesto alla mia scrittura di seguire un ordine preciso: luoghi e persone, riflessioni e lezioni, brani d'autore, racconti e versi hanno trovato posto nelle pagine come gli argomenti di una conversazione tra amici, ai quali è concesso di procedere a caso, sul filo dei ricordi e delle occasioni.  Dopo tutto, non sono uno scrittore.

 

Tratto da : Maria Colaizzo -  “La Scuola Marginale” - Edizioni Millerighe, Napoli 2015