testata registrata presso Tribunale di Napoli n.70 del 05-11-2013 /
direttore resp. Pietro Rinaldi /
direttore edit. Roberto Landolfi

La Quarta Scuola: Paola

Il santuario di San Francesco è costruito in una gola, quella del torrente Isca. Un piazzale che guarda il mare precede la monumentale basilica quattrocentesca, ma restaurata alla metà del 1500 per interessamento di Isabella di Toledo. Il chiostro a doppio ordine conduce al Convento, ma nel 1979 vi entrano solo gli uomini dietro autorizzazione del padre provinciale. Intorno vi sono i luoghi del Santo, i luoghi dei prodigi, con la fornace del miracolo e la cucchiarella, il ponte del diavolo e la grotta, più lontano il macigno pendulo. Una parte del Convento è sospesa su un ponte che scavalca il torrente, ed in fondo al Convento, dopo i cori lignei, gli altari lignei, dopo un lunghissimo corridoio, dopo la preziosa Biblioteca, e innumerevoli opere d'arte, c'è la Scuola, il Collegium minimorum.

Dai terrazzi della Scuola lo sguardo abbraccia mare e cielo e monti. Il sole vi batte riscaldando ogni angolo. Da un lato il giardino invita alla sosta con la sua frescura, dall'altra l'orto segnala la semplice laboriosità del Frati Minimi. Francesco d'Alessio è il santo della carità umile, della fede semplice, destinato a morire lontano, in Francia, dove gli Ugonotti gettarono nel fuoco i suoi resti.

La Scuola è il Convento e il Convento la scuola. I frati insegnano e imparano, gli allievi vengono da lontano o vivono nel Convento, accolti da piccoli, addirittura da neonati. 

Per entrare nella scuola mi vesto molto seriamente, anzi troppo, in maniera direi quasi monacale, considerando che ho ventisei anni non ancora compiuti. Sono fieramente indispettita per aver ricevuto delle istruzioni sull'insegnamento della morfosintassi  greco-latina  dal frate dottissimo che si è ammalato e non può far lezione. Istruzioni a me, papirologa disoccupata! Altri laureati in greco non ce ne sono, e mi tocca, mi tocca, ma farei qualunque cosa pur di non restare a casa, io che non so neppure cucinare.

Gli allievi sono ragazzini spaventati e parlano linguaggi arcaici, sussurrando le sillabe per timore che acquistino un suono poco familiare e persino incomprensibile.  La loro vita è scandita dalle regole, mattina e pomeriggio, sera, e le loro mani goffe deformano semplificandole le belle lettere greche. Quando finiscono le lezioni, però, saltellano come uccelli sul grande terrazzo, e si spandono nel giardino, e sono belli di una bellezza selvaggia ed innocente. Qualcuno di loro, come Antonio, traduce e scrive come un piccolo dio, o come un santo.

I fraticelli mi sono affezionati, e finisco col sedere alla loro mensa, col vagare per gli orti, col sostare sulle panche di pietra, con lo scendere a passeggiare in spiaggia in qualche rara occasione. Mi ritrovo ad ascoltare i miei allievi che cantano nel coro alla Messa della domenica e poi, dopo un anno, a lasciare che mio figlio corra dietro ai colombi sul piazzale, mentre io faccio lezione.

Mi manca il bel mondo di lettere fiorite dell'Università, mi mancano gli Autori che nessun dio potrebbe resuscitare nel quieto monastero. Mi mancano perché uno dei miei allievi ha detto che l'unico momento che aspetta è quello in cui uscirà sul terrazzo con i pattini. Con l'Italiano va meglio, forse perché ne so di meno...

Un giorno però un ragazzino bruno arrampicato quasi sulla lavagna nera scrive versi. Di chi sono? I miei! Ma sono di Ungaretti e di Quasimodo e di Saba. Lui però li rivendica, ed io gli dico di sì, che sono i suoi. Scoprirò che, come quelli che suonano senza aver studiato la musica, è davvero capace di scrivere versi come Ungaretti, come Quasimodo e come Saba. Si chiama Rubens, il piccolo Rubens. 

L'esperienza di Paola si era posta dal principio come provvisoria e transitoria, ma mi aveva radicato nella professione di docente. Conseguita l'abilitazione a Catanzaro, mi preparavo ai sacrifici che avrei dovuto affrontare rientrando a Napoli. Il congedo da quella realtà e dai miei allievi, inevitabile e consapevolmente predisposto, risultò più doloroso del previsto e non solo, come avevo creduto, per il vuoto che lasciavo nell'aula e nella scuola: i volti muti dei miei alunni e le loro mani che sventolavano l'addio mi accompagnarono per molto tempo.  

 

Tratto da : Maria Colaizzo “La Scuola Marginale” – edizione Millerighe – Napoli 2015