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Inclusione e parità di genere: l’Europa riuscirà a realizzare la sua grande sfida?

 di Serena Greco 

 

La strategia “Europa 2020” è stata elaborata dalla Commissione Europea nel 2010 con l’obiettivo di agevolare l’uscita dalla crisi economica e delineare un modello di sviluppo per rispondere alle sfide del decennio 2010-2020. L’agenda prevedeva una politica incentrata su una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, tre grandi priorità da mettere in atto mediante azioni a livello europeo e internazionale. Nello specifico: di quanto è incrementato il tasso di occupazione e quali sono stati i progressi dell’Europa verso l’eliminazione di ogni forma di discriminazione basata sul genere? 


Europa 2020, la disparità permane

Oggi si sente tanto parlare di parità di genere, di quote rosa e di donne che aspirano a raggiungere una posizione di lavoro che sia retribuita allo stesso modo di quella maschile, tale disparità, però, rimane sempre un tasto dolente nel mondo del lavoro e dell’imprenditoria. Proprio per questo motivo nel 2010 il Consiglio Europeo, su proposta della Commissione, adottò la strategia “Europa 2020”. L’idea consisteva nello stabilire alcuni obiettivi da raggiungere nel corso del decennio: dall’aumento dell’occupazione alla lotta al cambiamento climatico, dalla promozione di istruzione e ricerca al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale.

Ad oggi è interessante verificare a che punto sia l’Ue e se sia ugualmente condivisa da tutti i membri dell’Unione la strada verso una ripresa economica e sociale basata sulla condizione di occupazione e sul divario che sussiste fra quella maschile e femminile.

Il primo obiettivo di “Europa 2020” era stabilire una crescita economica inclusiva con il conseguimento di un tasso di occupazione del 75% della popolazione tra i 20 e i 64 anni ma tale traguardo non sembra essere stato totalmente realizzato: nove nazioni, tra cui la Germania, hanno già raggiunto il proprio obiettivo nazionale, mentre altre nove sono sulla buona strada, dovendo recuperare al massimo un 2% nei prossimi tre anni. 

La situazione è invece più critica per le restanti nove, tra le quali vi sono membri di peso quali Francia e Italia, entrambe lontane 4 punti percentuali dall'obiettivo.


Verso un’Europa inclusiva 

In alcune fasi della vita, diverse categorie di lavoratori attraversano periodi di debolezza caratterizzati dal lavoro precario, instabile o semplicemente sottopagato. Sfogliando i dati sulle donne e pur rimanendo all’interno dei confini europei balza agli occhi come questa debolezza sia strutturale, cioè riguardi l’intera vita delle persone. E non esistono Paesi dove si possa affermare che la disparità di genere sia stata definitivamente colmata.

Negli ultimi anni sono aumentate le donne che lavorano, però la disparità uomo-donna nel livello di partecipazione al mercato del lavoro è ancora presente e piuttosto elevata in tutta Europa[1].

Tutti i paesi Ue presentano una percentuale di lavoratori maschi superiore a quella delle lavoratrici con ampie differenze tra i paesi. L'Italia, nello specifico, raggiunge uno dei peggiori risultati insieme ad altri stati del sud e dell'est Europa, ha 8 punti di divario in più rispetto alla media Ue che presenta il 12% di disuguaglianza. Economia e politica rappresentano ancora terreni impervi per la presenza femminile, mentre cominciano ad affermarsi piani di trasformazione per le aziende che abbiano obiettivi misurabili in tema di uguaglianza di genere così come si moltiplicano le certificazioni etiche volontarie sul rispetto della parità di genere nei luoghi di lavoro. 

È ormai diffusa l’esigenza di un rilancio, particolarmente urgente nel nostro Paese dove il divario tra occupazione maschile e femminile resta molto elevato e, di conseguenza, rimane da affrontare in profondità il tema del gender pay gap (il differenziale retributivo fra uomini e donne a fronte del medesimo impegno lavorativo). Quanto alla Banca d’Italia, la presenza femminile si attesta oggi a circa il 37% del totale del personale: se si pensa che trent’anni fa le donne erano circa il 30%, un incremento di soli 7 punti percentuali in trenta anni segnala che c’è ancora molto da fare in una prospettiva di equilibrio di genere. 



Nel frattempo in Italia

Nel 2019 in Italia hanno il diploma quasi 2 donne su 3: il 64,5% del totale; quota superiore di circa 5 punti percentuali a quella degli uomini, che si assesta al 59,8%, “una differenza che nella media Ue è di appena un punto percentuale”. A rivelare il dato – che accomuna, tra i maggiori Paesi europei, Italia e Spagna - è Il rapporto Istat sui livelli di istruzione e i ritorni occupazionali relativi al 2019. Si presenta un livello di istruzione femminile sensibilmente maggiore di quello maschile, confermato anche dai dati sulla laurea: le donne laureate sono il 22,4% contro il 16,8% degli uomini; vantaggio femminile ancora una volta più marcato rispetto alla media Ue. 

Un risultato che, spiega l’Istat, “deriva anche da una crescita dei livelli di istruzione femminili più veloce rispetto a quella dei maschi: in cinque anni la quota di donne almeno diplomate e di quelle laureate è aumentata, in entrambi i casi, di 3,5 punti (+2,2 punti e +1,9 punti i rispettivi incrementi tra gli uomini)”[1].

Il tasso di occupazione femminile però resta molto più basso di quello maschile, in Italia il divario di genere continua ad essere più marcato rispetto alla media Ue e agli altri grandi Paesi europei. Lo svantaggio delle donne si riduce però all’aumentare del livello di istruzione.

Scendendo nel dettaglio, in Italia nel 2019 i diplomati tra i 25 e i 64 anni sono pari al 62,2%, un valore inferiore di 15 punti rispetto a quello medio europeo[2]. 

A guardare i dati relativi all’Italia in maniera più specifica, si nota che i livelli e la velocità di cambiamento di questi indicatori risentono della struttura demografica della popolazione e della sua evoluzione. Nel Mezzogiorno rimangono decisamente inferiori sia i livelli di istruzione, sia i tassi di occupazione dei laureati[3]. Si nota pertanto che persiste il divario territoriale del nostro Paese e si accentuano le disuguaglianze. La possibilità di superare tali disparità sembra essere sempre più difficile ma quanto mai urgente.


Una luce in fondo al tunnel

C’è ancora bisogno di cambiamento malgrado i non pochi risultati degli ultimi anni. Dall’analisi di Spencer Stuart[4]sulla governance emergono infatti risultati incoraggianti, attualmente la percentuale di donne che ricoprono cariche esecutive è dell'11,9%, le donne presidenti sono il 9,9%, i consiglieri donne sono balzate dal 32,3% del 2017 al 35,8% del 2018.

Esaminando i consiglieri di nuova nomina nel 2018, il 41,4% è rappresentato da donne. Non si può continuare a negare che le donne non svolgano una funzione rilevante ma è giusto anche sottolineare che in effetti i dati nei numeri sono un successo, considerando che 10 anni fa non arrivavano a ricoprire nemmeno il 5%.

Si tende ad andare verso una nuova strada che avvicini sempre di più la leadership alle donne e che sia orientata verso il dialogo, l‘ascolto e il compromesso, che sono molte volte capacità insite nelle figure femminili.

Il 2019 è stato un anno di grandi cambiamenti in tal senso, caratterizzato da svolte presidenziali importanti, infatti Il triangolo europeo è di buono auspicio: in Commissione europea è diventata presidente nel dicembre 2019 Ursula von der Leyen, Christine Lagarde ha assunto la carica di presidente della Banca centrale europea nel novembre 2019, diventando la prima donna a ricoprire tale incarico e Emily O’Reilly è la Mediatrice europea, che esamina le denunce di cattiva amministrazione nei confronti delle istituzioni dell’UE. 

Le loro nomine ci portano a dire che in realtà le cose sono già cambiate: professioniste di grande rilievo sono arrivate ai vertici senza che la loro appartenenza al genere femminile le abbia ostacolate.

I pregiudizi nel ventunesimo secolo continuano ad essere numerosi e occorre pertanto impegnarsi, da un lato, per l’introduzione di modelli organizzativi che tengano maggiormente conto delle esigenze di tutti i lavoratori, donne e uomini, e, dall’altro, per il superamento degli stereotipi culturali che ancora limitano il contributo delle donne. 


(1)EUROSTAT, 2020: I dati relativi ai singoli paesi rivelano che 16 stati su 28 si posizionano sopra la media Ue del 75% per numero di occupati ma tra i tassi di occupazione dei membri dell’Unione esistono ancora ampie disparità non superando il 72,5% nel 2017.

L'Italia si posiziona a 10 punti percentuali al di sotto della media Ue e a circa 20 dalla Svezia, che emerge al primo posto della classifica per numero di occupati.

L’obiettivo di occupazione in Italia è del 67 % ma, nonostante sia il più basso da raggiungere dopo quello della Croazia, il "Belpaese" è ad oggi ancora lontano dal conseguimento di un simile livello di occupazione con il raggiungimento di appena il 59%. 

[2] ISTAT, 2019 

[3]Ibidem: I diplomati in Ue sono il 78,7%, una percentuale ampiamente superata dall’86,6% della Germania, dall’80,4% della Francia e dall’81,1% del Regno Unito. Solo Malta, Spagna e Portogallo hanno percentuali inferiori all’Italia. Non meno ampio è il divario rispetto alla quota di popolazione di 25-64enni con un titolo di studi universitario: in Italia, si tratta del 19,6% della popolazione, contro un valore medio europeo dell’33,2%. 

[4] Ibidem: Al Sud il 54% possiede un diploma, al Nord il 65,7%. Il tasso occupazionale dei laureati è del 71,2%al sud, del 86,4% al Nord. Il divario territoriale nei tassi di occupazione dei laureati è più ampio tra i giovani e raggiunge i 24,9 punti. Si nota un miglioramento del tasso di occupazione dei giovani diplomati e laureati alla fine del percorso di istruzione e formazione (+2,2 punti sul 2018; 22,8 punti di divario dall’Ue). 

[5] R. AMATO, In aumento le consigliere nei Cda. E i presidenti donna sono quasi il 10%. La Repubblica, 2020. 

 

(tratto da Bocconi-Students International Law Society)