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Una mano d’aiuto

I cosiddetti “professionisti dell’aiuto” o, più in generale, gli operatori sociali sono portatori e sostenitori di una sfera culturale di valori ruotanti attorno all’empatia, all’ascolto attivo, al rispetto dell’altro, alla tutela delle diversità quali forme di arricchimento reciproco. Tali figure sono orientate e educate a questi e ad altri principi sin dalla loro formazione per poi poter dar loro una veste concreta nell’esercizio della successiva pratica professionale. Ma nella realtà è davvero così? Riusciamo a rimanere fedeli a quanto appreso teoricamente? Immersi in contesti complessi e costellati di criticità, le buone intenzioni potrebbero non bastare: eppure, queste guide costanti del nostro agire dovrebbero essere per certi versi innate in noi o quantomeno apprese, date per certe, anche alla luce dei rispettivi mandati cui rispondono le diverse professioni.

L’attenzione e la cura verso l’altro dovrebbero accompagnare la persona in tutti i servizi finalizzati a migliorarne la qualità della vita, il benessere psicologico, fisico ed emotivo. Un’accortezza in più andrebbe, poi, sicuramente riservata a contesti particolarmente delicati come quello della salute mentale, importante banco di prova per chi vi opera. 

Il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) è un sistema integrato di strutture, presìdi e operatori, che promuove, programma, attiva e coordina attività volte alla prevenzione, alla cura, alla riabilitazione e al reinserimento sociale delle persone con disturbo mentale. Presso le ASP della regione Sicilia i DSM, al proprio interno, sono strutturati in differenti Moduli Dipartimentali ciascuno con una propria competenza di carattere territoriale per quanto riguarda l’erogazione di prestazioni e servizi. Ed è proprio presso uno di questi Dipartimenti che, durante lo svolgimento del mio tirocinio professionale, ho avuto modo di assistere ad uno di quegli episodi in cui un professionista dell’aiuto è difatti venuto meno a quei principi e a quei valori che dovrebbero guidarlo e ispirarlo quotidianamente.

La strutturazione del servizio nei diversi Moduli Dipartimentali faceva sì che molto spesso le persone si rivolgessero erroneamente all’uno o all’altro Modulo venendo poi indirizzate presso quello di pertinenza (in base alla zona di residenza); accadeva altresì che alcune persone si recassero consapevolmente ad un Modulo diverso da quello spettantegli territorialmente perché non si erano trovate bene con le figure professionali di riferimento e questo le portava a “tentare” a ricercare un aiuto presso gli altri Moduli benché non di competenza. Un episodio appartenente a questo secondo caso, si è verificato presso il mio Modulo Dipartimentale nel quale prestava servizio un medico psichiatra molto stimato e per questo particolarmente “ricercato”. Il giorno in questione era una di quelle giornate contrassegnate, sin dalle sue prime ore, da grande confusione e tensione (cosa non infrequente presso un simile servizio) e il medico era in uno stato di nervosismo e alterazione. Successe che si presentò proprio in quel momento un signore che, come tanti prima di lui, proveniva da un altro Modulo Dipartimentale presso il quale non riteneva di aver ricevuto l’aiuto adeguato per il fratello da parte del medico psichiatra che lo seguiva: chiese così al nostro medico (del quale disse gli avevano parlato molto bene) se avesse potuto fare qualcosa date le condizioni del fratello che stava veramente male. Il medico esplose letteralmente dinnanzi a quel signore in visibile difficoltà ma per nulla pretenzioso, inveendo contro di lui con parole aspre, atteggiamento contrariato e senza guardarlo nemmeno in faccia, dicendo che lui non poteva farci proprio nulla. Il signore non reagì, non si scompose ma abbassò lo sguardo in uno stato di mortificazione totale e se ne andò senza dire una parola.

Capiamo bene la particolare gravità di questo caso specifico in cui sia mancato da parte del medico, primo fra tutti, il contatto visivo con la persona che rappresenta sicuramente la prima forma di “aggancio” con l’altro, che ci permette di comunicare all’altro non solo che abbiamo colto la sua presenza ma che gli stiamo dedicando la nostra attenzione.

Un altro aspetto da evidenziare e che caratterizza troppo spesso molti servizi è dato dal fatto di non poter far nulla di fronte a determinate richieste o bisogni, usandolo quasi come pretesto per “lavarsene le mani” e poter alleggerire il già pesante carico che si porta: questo non sottrae comunque l’operatore dal poter prestare consiglio alla persona, dall’orientarla ai servizi che possano rispondere alla sua richiesta di aiuto, dal trasmetterle che lei c’è, che noi la vediamo e che stiamo interrompendo il nostro da farsi per lei anche se per pochi minuti appena.

Questo episodio dimostra, inoltre, le problematiche legate alla complessità e ai limiti del funzionamento del Sistema Sanitario nonché quello che si innesca quando si combinano tra loro carenze e negligenze del professionista con le difficoltà emotive, fisiche e mentali dell’operatore come uomo, dinnanzi ad una persona richiedente aiuto, portatrice di un bisogno e, sempre, della propria dignità.

 

 

Roberta Erre.