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Riflessioni su “Amante marina di Friedrich Nietzsche” di Luce Irigaray

Recupero di un dialogo letto come una mancanza.

Il fondo del mare diviene per Luce Irigaray l’abgrund su cui esplorare l’ultimo pensiero dell’eterno ritorno, nella buona e nella cattiva sorte, di un uomo che, seguendo le inclinazioni del momento, entra ed esce dal suo presente. 

 

Monologo di Amante marina 

Chi è questo oltreuomo?

Da dove viene? 

Dal mare o dalla terra? 

È liquido o è solido? 

È un pesce o un’aquila? 

Perché sente la necessità di danzare per annunciare il tramonto dell’uomo? 

Tu temi il mare e voli alto, anzi sei attento a ogni istante per innalzarti su alture sempre più alte. Non hai amici marini, perché non vuoi abitare le profondità. Tu ignori la tua amante che invece si muove sui fondali, sempre tutta intera, perché non vuole “colare goccia a goccia”, non vuole vivere goccia a goccia la sua ora.

 Essa si è scelta intera in ogni istante, non ha bisogno di girare in tondo per entrare nell’eternità.

Non vuoi rompere il tuo cerchio.

Non vuoi cambiare pelle.

Ti limiti a girare a vuoto, perché questo girare non è alimentato dall’altro.

Intorno a cosa ti muovi?

Hai azzerato lo spazio tra l’io e il tu e preferisci rimanere te in te.

Salti più in alto, giri in fretta, insomma vivi senza accorgertene.

L’altra vuole condividere con te, tu vuoi il tutto, ma continui a dimenticare ciò che nutre il tuo andare verso le stelle, mentre le tue radici si allungano e penetrano nel male, supposto del bene, alleanza infernale che non può avere fine. 

Come spezzare la catena che unisce gli attimi che si respingono l’un l’altro?

La sola donna che ami è l’eternità.

Che senso ha allora restare ancorati a terra, se pretendi la vita eterna?

Il tuo canto è malinconico, è funereo, se nascere è come cominciare a morire: non sarebbe giusto incoraggiare il tuo canto, farebbe male alle orecchie, e poi ci sono musiche che non sono elogi funebri.  Stropicciati gli occhi e vedrai che io sono nel tuo orizzonte, non sono un’illusione o un sogno di mezzogiorno o mezzanotte. 

E sto a chiedermi “Se vado via, ti accorgerai di me?”. 

Non ne percepisci la differenza, perché non ti accorgi che noi siamo l’uno per l’altra una risorsa d’aria. La mia pelle è la tua altra riva, e il mare è il pericolo più grande: tutto si muove, non c’è altura su cui poggiare, non c’è corda a cui aggrapparsi. Devi imparare a nuotare, non a danzare soltanto: attraversare l’aria non è come muoversi in ciò che è eternamente fluido.

 E se ti perdessi nel mare, non avresti l’impressione di tornare da lei, dalla tua prima nutrice? 

Non esisterebbe così un solo movimento uguale a se stesso, ma due movimenti, che si attraversano alimentandosi l’un l’altra, oltre l’alto e il basso. 

E non sarebbe questo, un segno di felicità?

La tua fonte non basta per dissetare la vita, basta poco per inaridire tutto e non potrai provarne risentimento, anzi toccherà ad altri piangerti. Tu vuoi tutto te stesso anche nella morte, ma non ti accorgi che è necessario scegliere di fronte all’essere-due. Ci sono tanti paesaggi e non solo alture.

Ingenuamente, forse, credi di poter arrivare a te stesso, ma fallisci ogni volta, perché giare in tondo ti fa scivolare negli attimi e non ne vieni a capo e ciecamente continui ad amare, come unica donna, l’eternità, alla quale tutto ti dai, ma morto.

Nel cerchio dell’eterno ritorno balli da solo al centro, intorno al nulla, e a fatica trovi l’equilibrio per non cadere, e ti dimeni per essere più leggero dell’aria, per non precipitare come farebbe un sasso. Non possiamo fare almeno delle illusioni e il mare offre sempre veli o vele a seconda del bisogno, spesso si confondono verità e apparenza, l’una non è mai realmente superiore all’altra. 

Il luccichio delle onde penetra gli sguardi e sovrappone le prospettive.

Resti intrappolato nel tuo andare e venire nel presente, mentre io accetto il rischio di esplorare il mare, perché è inebriante e pericoloso insieme. 

Tu gridi “toccate Terra”, “Terra, terra”, ma perché non dici loro che sono stati dei presuntuosi, arrischiando se stessi, perché incapaci di servirsi del loro sapere, per domare le forze scatenate dalla Natura. Come librarsi in aria, se bisogna sopravvivere in mare, vincere la paura di essere inghiottiti?

E quando passerà la tempesta, non riuscirai a convincerli di non tornare a navigare, perché sfidare il pericolo è sopravvivere.

È “dall’acqua del mare che rinasce il superuomo, ma ancora teme di affondare, anche se aspira alla sua distesa. Eremita, funambolo o uccello, egli sta sempre lontano dai grandi fondi marini”[1].

Questo superuomo è sospeso tra acqua e terra, non riesce ad essere né solo dell’una né solo dell’altra, resta “tra” … e questa è la sua tragedia.

Perché non aprire il cerchio dell’eterno ritorno? 

Perché non fissare due poli ed eliminare la permanenza dell’identico? 

Perché non abbandonarsi all’altra e fare incontrare due necessità in una nuova alleanza? 

Ma il tuo cerchio è perfetto e non ha bisogno di chi faccia da contrappeso, nessuno che possa mediare fra te e te. L’altra è fuori dalla tua opera perfetta, una forza pari alla tua, ma diversa. 

La sua forza, però, non è oppositiva alla tua,  è accogliente, essa è il luogo ogni volta della rinascita. Tu stesso hai detto “Sì, la vita è una donna !” (Gaia scienza, 339).

Passare oltre attraverso un’apertura-a … 

 

a cura di Virginia Varriale

 



[1] Luce Irigaray, Amante marina di Friedrich Nietzsche, Luca Sossella editore, Roma 2003, p. 45.