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Nel mondo globalizzato e mercificato, schiavo del denaro e della guerra, la poesia dichiara spudoratamente la propria fragilità ed inutilità, testimone e martire nello stesso tempo.

 

 

Vinto, 1906

Mamma questa è la vita?! Allor la santa
felicità infantile non perdura?
Il riso che irradiava la mia pura
fronte, non verrà più?! Ah mi si schianta

l'anima, mamma mia, ed ho paura!
Io mi sento morire. Quanta, quanta
dolce felicità di bimbo, ha infranta
con l'andar della vita, la sventura!

Oh non credere mamma ch'io sia vile!
No! Te lo giuro. Ho avuto sempre fede
in questo Dio che mi fa spasimare!

Io sono come un albero sottile;
cui cadono le foglie e che le vede
cadere senza poterle richiamare.

 

La felicità perduta dell'infanzia rimanda all'innocenza dell'immaginario dei bambini, per i quali la letteratura non è tenuta ad assumersi la responsabilità del reale. Quella felicità si poteva frammentariamente richiamare attraverso le piccole cose, così importanti per i bambini, capaci di rassicurare quando si è soli e si ha paura. Al linguaggio del bambino malato si sarebbe affiancato quello consapevole dell'adulto, che non trova il sublime (Luperini) nella poesia, ma vi cerca l'autenticità. Arte e vita si sovrapponevano come in D'Annunzio, e non per celebrare trionfalmente la potenza, bensì la debolezza umana. Il fanciullo piangente non era il fanciullino pascoliano, che rendeva il poeta un essere speciale, privilegiato, insostituibile; era la cifra di una poesia che si scrolla da dosso con un gesto di amara protesta la cappa regale e indossa i panni del misero e del malato.

 La marginalità non viene vissuta da Corazzini come una condizione tragica e privata, ma esibita con onestà. Ritirarsi dall'esistenza riconoscendo l'assenza di prospettive è il segno di un eroismo appunto marginale, molto scomodo per chi si rifiuta di rinunciare allo status precedente, riconoscere il cambiamento, ammettere che nella sofferenza c'è il senso ultimo della vita. Il linguaggio poetico, scegliendo il registro del pianto dimesso, analogamente denuncia con forza sottintesa la prosopopea accademica di una letteratura che, per avere un ruolo, si insuperbisce ipocritamente e preferisce rimanere suddita di modelli sterili anziché cercare la via del rinnovamento per non rinunciare a mantenere il contatto con la realtà.  Il poeta ritorna poeta quando diviene consapevole di non esserlo, e l'intellettuale ritorna intellettuale quando protesta perché gli si vuole far credere che esistano ancora delle prospettive. Salvi dalla tubercolosi, sono molti i giovani artisti che oggi si muovono in questa direzione. Non bisogna aver paura delle avanguardie, ma tenerle care, e proteggere gli artisti che pagano con il prezzo dell'isolamento e della incomprensione la propria onestà intellettuale.

 

Maria Colaizzo – tratto da “La Scuola Marginale” edizione Millerighe 2015