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Il Collezionista di Colori (seconda parte)

Sette dicembre. "Ma quale sette dicembre! Questo diario insulso non merita d'occupare un posto sullo scaffale della mia biblioteca! -esclamò Giacomo- e non ho intenzione di rovinarmi la serata leggendo le banalità scaturite dal cervello mediocre di un cattivo studente!" Posò il libro, che avrebbe riportato di corsa l'indomani in biblioteca, ma dopo cena lo riprese tra le mani. "Vediamo se almeno si è messo con la ragazza!".

 

Sette gennaio

Nell'autobus tornando ho pianto. Non riesco a comprendere perché Anna non possa amarmi. E' sola come me, incompresa e rifiutata come me, e la mia adorazione potrebbe aiutarla. Gliel'ho offerta, senza riserve, io come lo schiavo ai piedi del padrone, ma niente. Le sono indifferente. Così sotto la pioggia sono saltato sull'autobus e ho ripensato alla mia vita. Devo prendere una decisione.

 

Otto gennaio

Ho messo in fila ordinata i tubetti. Sono tanti. La fila occupava tutta la scrivania. Ho chiesto ai verdi e ai blu di darmi una mano. Il paesaggio è quasi finito, e mi pare accettabile. Quanto al vaso con fiori della seconda tela, al posto dei fiori ho dipinto i tubetti, ognuno con il suo colore. 

"Mi conviene saltare le pagine. Vediamo il mese successivo. Chissà se Anna ci ha ripensato, poveraccio!"

 

Otto febbraio

Il Maestro mi ha dato delle dritte sul paesaggio. Dice che una velatura gli conferirebbe maggiore suggestione. Le ocre si addolcirebbero. Intanto il giallo indiano ha smorzato il prato. Col carminio puro ho punteggiato di papaveri. Stamane ho regalato un rosa di cadmio chiaro ad Anna. Le si addice. Le sue guance prendono sfumature incredibili nel contrasto con i capelli neri. E' bellissima. Labbra come il rosso di Marte. Ha accettato di vedermi perché non ha nulla da fare, dice. Mi sta bene anche così.

 

Nove febbraio

Oggi è il turno dei rossi. Ne spalmo un po' sulle mattonelle della cucina. Mi guardano e mi sorridono. Quello scuro permanente ha uno sguardo insolente, com'è giusto, vista la sua personalità. Tengo in disparte l'arancio, è troppo aggressivo.

 

Dieci febbraio

Ad Anna il quadro piace. Anche al Maestro. Dunque lo esporrà. Vorrei poterlo dire a mio padre, che mi ha sempre considerato un fallito. Invece sono un artista. Mi farò. I miei sacrifici saranno ricompensati, e questa solitudine finirà. Anna ha promesso di tornare.

Giacomo sfogliò per sapere, e per andarsene a letto tranquillo. Quella testa d'artista lo inquietava, e lo incuriosiva. Ma perché scrivere un diario? Non erano che situazioni esistenziali comuni. E chi poteva averlo pubblicato? A giusta ragione quel libro era entrato in biblioteca furtivamente, e si era trovato un posticino anonimo. Senza essere stato catalogato, ed etichettato, chi lo avrebbe mai letto?

 

Dieci marzo

Il paesaggio riscuote un discreto successo. Di sicuro sarò promosso. Ora devo darmi da fare, vincere quest'inerzia che, lo so, dipende da Anna. Non ci vediamo da qualche giorno. Dice di essere concentrata nello studio, per il prossimo esame. Nicola però l'ha incontrata al cinema, con un'amica che non conosce. Avrei potuto accompagnarla io, e magari dopo finire la serata in un locale. Vorrei convincerla che l'arte indica una strada verso la felicità, che è purezza, libertà. Se me ne lasciasse il tempo ci riuscirei. Vorrei dirle anche che non si può chiedere ad un pittore di vivere come gli altri, nella società umana. La società non se li merita, gli artisti, e talvolta li detesta perché non sono disposti a riconoscerne le conformi tendenze, a vendersi per renderle omaggio. Gli artisti veri sono talmente scomodi che non c'è altra strada che liberarsene, esattamente come lei fa di me.

 

 Undici marzo

Ho bisogno di trovare un lavoro. Mio padre non finanzierà più i miei studi e vorrebbe che tornassi al paese, dove c'è un posto libero da cameriere. Non è che m'importi tanto, i pittori sono stati sempre poveri. Poi al paese mi guardano come un marziano, e sento le risatelle di scherno della gente dietro le spalle, quando cammino. Sarà per i capelli lunghi e l'aria stracciata, che qua non nota nessuno. Anna mi ha chiesto un periodo di riflessione. Dice che non ha senso uscire con me, perché ad amare bisogna essere in due.

 

Dodici marzo

Cinabro verde scuro è il mio umore di oggi. Terra verde e blu oltremare la mia speranza. Non intendo dare spiegazioni, ho il diritto di tacere e di adirarmi. Che importanza può avere l'essere incompreso, se non si desidera essere comprensibili? Esco con Nicola. Lui mi ascolta, e finge di capire. Ora che il mio quadro è finito, e vi ho messo il nome, sento di essere nato dalla tela, e delle strade che percorro non m'importa più nulla. Cammino sul sentiero che hanno tracciato per me i colori, ed ogni tela bianca è un nuovo mondo, senza confini. Sulle dita i colori me l'imprimono il cielo il mare e la terra, le nuvole veloci e le tempeste. 

"Anche Nicola, adesso! Leggiamo più avanti, non sono tante le pagine che restano!".

 

Dodici aprile

Qui al paese è tutto più semplice. Ho una stanza per dipingere e consumo regolarmente i pasti. Alle 19 prendo servizio alla locanda, servo ai tavoli, lavo i piatti e a mezzanotte rientro a casa. Mio padre mi dà la buonanotte e mi sorride. Dipingo marine, ora che sono in montagna, come dipingevo paesaggi quando ero in città. I miei amici sono il verde smeraldo e il blu di cobalto, il blu oltremare e il blu reale. Non ho altri compagni qui, come non ne avevo in città. Forse sono noioso, perché non mi diverte quello che diverte gli altri. L'unica gioia me la danno i colori.

 

Tredici Aprile

Ho deciso di andar via, per sempre. Di congedarmi da questi luoghi di notte, come un profugo. I colori che ho li porterò con me, perché senza di loro non posso vivere.  Se qui non sono che il frutto di una collezione, una insignificante comune irritante collezione, dove andrò racconteranno interi mondi, per la felicità mia e di coloro che guarderanno i miei dipinti. La mia unica certezza è l'arte, la pittura il mio unico amore. E' lei che rende sopportabili le giornate, la gente e il disamore. 

 

 

III. La conclusione

 

Giacomo cominciava a sospettare, leggendo le ultime pagine, che il paese di cui parlava Gaspare nel suo diario fosse proprio il suo, quello che lo aveva incantato e protetto all'ombra quieta dei monti. Per fugare ogni dubbio, il giorno successivo si recò di primo mattino al Comune ed avviò con l'aiuto dell'unica impiegata, sua conoscente, una ricerca, orientandosi sugli anni Settanta. Dalle scartoffie ecco comparve Gaspare, con tanto di dati anagrafici, nascita, battesimo, cresima, ed anche il certificato che ne attestava la morte a diciannove anni. Era stato un incidente. Di notte, un'auto aveva travolto il giovane che, in bicicletta, si allontanava dal paese. Uno sconforto doloroso prese Giacomo. Al termine della giornata di lavoro, fortemente turbato, cercò all'indirizzo che gli era stato segnalato il padre di Gaspare. Trovò in casa un vecchio segnato dagli anni nel volto e nel corpo, seduto accanto al fuoco con espressione assente. 

Era lui che aveva rinvenuto il diario e lo aveva fatto pubblicare. Poi di nascosto, per vergogna e per ignoranza, lo aveva depositato sullo scaffale della biblioteca, sicuro che nessuno di lor signori bibliotecari avrebbe accettato di catalogare un libro di scarso  valore come quello che aveva scritto suo figlio, una testa matta, uno scombinato come solo gli artisti sanno essere. "E pensare - disse l'anziano - che se non avesse avuto sulla bicicletta il peso della scatola dei colori e dei pennelli non avrebbe perso l'equilibrio. Scivolò nella scarpata, e i vigili del fuoco impiegarono quasi due giorni per trovarlo". "E il povero Gaspare ha lasciato qualche dipinto?". "Si, uno, un paesaggio. Ma non credo che valga granché".

Per interessamento del direttore della Biblioteca comunale il dipinto fu esposto nell'atrio della stessa, e il Diario fu messo in una teca accanto al quadro. Quanto alla scatola dei colori, rimase nella piccola casa dei Carcara, e a quelli che gli facevano visita il vecchio ripeteva: "E' la collezione di colori di mio figlio, Gaspare. L'ultimo si chiama nero di Marte".

 

Racconto di Maria Colaizzo