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Riflessioni sulla Bioetica di Virginia Varriale

 
a partire dalla lettura dell’opera della prof.ssa Emilia D’Antuono 

 

Donde nasce la parola “bioetica”?

Che cos’è la “cosa” bioetica?

E’ una scienza?

Quale ramo dei saperi rappresenta?

Perché è doveroso porsi questioni bioetiche?

Le parole non si limitano a descrivere ma necessariamente fondano nuove realtà, soprattutto quando i cambiamenti nella storia evolutiva, sociale e culturale degli uomini sono tali che impongono un ripensamento dei saperi, se la posta in gioco è l’essere umano in rapporto alla sua vita e alla qualità della stessa. E la parola “bioetica” è composta da due parole greche bios e ethikè, coniugando la vita degli organismi viventi e i principi morali che questi hanno maturato nel corso del tempo, o più semplicemente la conoscenza biologica da un lato e i valori (i cosiddetti ethoi) che sono l’espressione storica della dimensione etica di una società dall’altro.

Questo scritto nasce dall’interesse suscitato dalla lettura dell’opera di Emilia D’Antuono (docente di Filosofia morale nella Facoltà di Sociologia e di Bioetica nella Facoltà di Scienze Biotecnologiche dell’Università di Napoli “Federico II”  e di Storia della filosofia ebraica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli “L’Orientale”), ma non si limiterà a questo, poiché leggendo e indugiando su alcune pagine si sono accesi dei ricordi che avevo spento, ma non del tutto, per addolcire un dolore latente, che mi riporta indietro nel tempo, in una stanza tutta azzurra di ospedale, accanto a un letto, di fronte a un corpo come abbandonato, ma vivo, per poco ancora … il corpo di mia madre. Probabilmente non interesserà a nessuno il caso particolare in questione, ma ora scrivere diviene uno “spazio etico” per tentare di trovare una risposta a domande estreme, di fronte alle quali non c’è alcuna preparazione, ma solo paura di sbagliare e sofferenza. 

Mi perdonerete questa digressione nel passato, ma è sempre dal vissuto che trae alimento la conoscenza.

 

23 aprile 2010

Tutto è cambiato! Quando mi hanno freddamente detto che mia madre, la mia mamma, ha un cancro al cervello e che ha pochi mesi di vita, sono sprofondata in un buco nero, non quello di “Alice nel paese delle meraviglie”, ma senza fondo. Mi manca l’aria, solo al pensiero di perderla. Il cuore mi si è raggelato, eppure il cielo continua a essere azzurro, il sole splende caldo, ma ho come la sensazione che una pioggia triste mi stia facendo annegare dall’interno. Vorrei che qualcuno mi dicesse che è uno scherzo, o che è uno sbaglio. Aspetto, ma non è così. La mia famiglia non riesce più a muoversi, è sospesa. 

Mi sento vulnerabile, impotente.

 

2 giugno 2010

La situazione non è migliorata e rischiamo di perderla da un momento all’altro. Vorrei ritornare nella sua pancia, far parte di lei, sentire i suoi respiri regolari e i suoi battiti, per calmarmi, per sentirmi al sicuro. 

I suoi occhi, a dispetto di tutto, hanno ancora una luce particolare, viva.

Vorrei dirle che l’amo tanto, ma quando poi la vedo, m’immobilizzo di fronte al suo dolore. Dio non ascolta le mie preghiere, non vede l’amore disperato ed estremo di mio padre, non sente la fragilità di mia sorella, non si cura di noi! Non mi ascolta, non mi risponde, a chi devo chiedere conforto? Ho così tante lacrime che potrei piangere fino a sciogliermi. La sua casa, senza di lei, non è più la nostra casa. Non la riconosco più.

 

12 agosto 2010

Siamo tornati dall’ospedale “Borgo Trento” di Verona, ma è stato un viaggio senza speranza, senza un briciolo di salvezza. 

“GLIOBLASTOMA RECIDIVO AD ALTO GRADO E IN PARTE CISTICO”.

Nessuna terapia d’urto, solo cortisone per lenire il gonfiore, ma senza alcuna possibilità di sopravvivenza. Non ci posso credere! Ripeto nella testa quelle parole e mi sembrano vuote. Come possono fare così male? Niente può fermare quel mostro nella testa di mia madre, la cui voce non sento più da un mese: non parla più; non riesce più a esprimere quel che pensa; non riesce più a mangiare da sola; non riesce più a camminare. Noi le stiamo intorno, cerchiamo di parlare con gli occhi, cerchiamo di confortarla, ma lei ci guarda e sa che sta finendo piano piano.

Ogni volta che si addormenta, ho paura che non si risvegli più. 

Ogni giorno che passa ci chiediamo come faremo senza di lei, ma in realtà è da aprile che camminiamo da soli, senza la sua supervisione. Sistemo la sua casa, illudendomi che possa ritornare a toccare le sue cose, a innaffiare le sue piante, a preparare il caffè, ma so che è un’illusione. 

Sto con lei, ci guardiamo e ci vengono a entrambe le lacrime agli occhi per tutte le cose che abbiamo fatto insieme e per quelle che non potremo più mai fare. Osservo le sue mani, sono belle e affusolate e ripenso ai tanti vestiti che ha cucito. Osservo la fascia che ha tra i capelli e che copre quella cicatrice, inutile …

Vorrei fosse una prova d’amore che noi tutti dobbiamo superare, ma so che non è così. È la Natura che fa il suo corso. Mia madre se ne sta andando lentamente, in silenzio, ma so che dentro di lei vorrebbe vivere e condividere un altro giorno con la sua famiglia. La sua semplicità, il suo altruismo, la sua mitezza sono di quanto più prezioso ci ha dato. L’ultima cosa che abbiamo fatto insieme è stata quella di aggiungere del terreno alle mie piante: era sera, faceva freddo, ma lo abbiamo fatto comunque. 

Dentro di me sapevo che quella sarebbe stata l’ultima serata trascorsa insieme a casa mia.

 

12 settembre 2010

Dove sei ora?

 

C’è stato un momento in cui le ho sussurrato all’orecchio:“Mamma, non ti preoccupare. Addormentati e non sentire più dolore”. Ho desiderato che finisse, per annientare le sue sofferenze.

Mi sono sentita in colpa per questo, perché ho pensato che una figlia non potesse sperare la morte per sua madre, rispetto a chi invece sperava in un miracolo.

 

Leggere le pagine di Bioetica mi hanno riportato a quel  momento, poiché la domanda cruciale è:  -Fino a che punto bisogna salvaguardare la sacralità della vita a scapito della sua qualità?-

 

La prof. D’Antuono delinea un excursus storico della bioetica, a partire dal termine con cui si indica una realtà nuova che è senza dubbio figlia del Secolo breve: “l’incremento di morte è l’orrenda eredità di guerre di sterminio, della Sho’ah, dei genocidi, dell’uso della bomba atomica, di armi chimiche e biologiche, etc”[1], riportando i contributi preziosi dei più importanti bioeticisti del nostro tempo, che hanno posto l’accento sulle questioni di carattere etico, determinate dal progresso e dalla pratica delle tecnoscienze biomediche. Si tratta di un sapere interstiziale, perché terreno di confronto tra diverse visioni di vita, prospettive filosofiche, orientamenti politici, linguaggi scientifici e opinioni comuni, dubbi, domande, aspettative. In Italia si sono sviluppate due culture sulle questioni bioetiche: quella cattolica, che difende il principio della sacralità della vita e quella laica, che difende il principio della qualità della vita. Ma la linea di confine non è sempre ben visibile perché, essendo la vita umana un valore in sé, è difficile capire quale intervento sia lecito, accettabile eticamente e giuridicamente, sebbene la distanza tra etica e diritto sia necessaria al fine di evitare qualsiasi forma d’integralismo. Significativa è la definizione di bioetica  proposta da E. Sgreccia, direttore del primo Centro di Bioetica italiano istituito a Roma del 1985 dall’Università Cattolica del Sacro Cuore presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli”:

 “la bioetica si può concepire come quella parte della filosofia morale che considera la liceità o meno degli interventi sulla vita dell’uomo e, particolarmente di quegli interventi connessi con la pratica e lo sviluppo delle scienze mediche e biologiche[2].

Sono state le conquiste nel tempo della genetica e della biologia a rendere urgente il discorso della “frontiera etica” e a porre l’interrogativo di fondo se tutto quello che è tecnicamente possibile debba essere ritenuto eticamente lecito[3].

Di fronte a un mondo che cambia, anche senza il nostro intervento, urge tanta più attenzione verso la bio- etica quanto più aumenta il disorientamento dell’uomo.

Martin Heidegger, nella Lettera sull’“umanismo” prospettava un ethos della sobrietà e della radicalità del pensiero, dal quale discende anche la sua risposta alla domanda “che fare?”. Essa sta nel riconoscere che il vero problema dell’umanità dominata dalla tecnica non è più tanto “che fare?” ma piuttosto: “che cosa non fare?”, “che cosa lasciar stare?”[4].

La questione non riguarda solo il pensiero che si traduce in linguaggio, ma soprattutto la scienza che diviene agire pratico, i cui effetti sollevano e mettono in discussione i valori morali.

Vi deve essere una reciproca connessione tra il rigore della ricerca medica, il principio di autonomia del soggetto e il principio di beneficenza, senza correre il rischio di morte o d’invalidità permanente. Il discorso sulla bioetica, non a caso, vede la sua “preistoria” nel processo di Norimberga, che portò alla luce gli esiti tragici del riduttivismo e del carattere disumanizzante della scienza moderna, trasformando l’essere umano in un ente biologico generico, passibile di ogni tipo di esperimento. Il nazismo fu, come sottolinea D’Antuono, la “negazione dell’umano”, in quanto non fu la scienza moderna a rendere possibili i crimini, ma l’ideologia totalitaria ad asservire la scienza ai propri fini. Quanto avvenne nella civile Europa in pieno Novecento ha una grande rilevanza per le odierne riflessioni sui problemi che interessano la medicina e l’etica, poiché in quel frangente storico si ebbe una radicale trasformazione della percezione comune dei valori umani, facendo sentire la tensione, ancora oggi irrisolta, fra il rispetto della vita e la possibilità di usare tecniche per manipolare o sopprimere la vita stessa.

Quello che è avvenuto dal 1933 al 1945 va molto al di là del concetto di crimine. Coinvolge la natura del potere, della tecnica e della scienza[5].

La stessa Hannah Arendt denunciava  il principio secondo cui tutto è possibile. E questo principio ha aperto interrogativi che continuano a far riflettere sulla possibilità di decidere della vita e della morte altrui. Dopo il Codice di Norimberga, sono stati elaborati nel corso degli anni codici deontologici e Dichiarazioni internazionali relative alla ricerca e alla pratica medica, proprio perché è cresciuta la consapevolezza dei benefici e dei pericoli del progresso tecnico- scientifico, che può sia migliorare sia compromettere le condizioni di vita dei soggetti. Se è vero che la scienza ha fatto passi da gigante, grazie a tecniche sempre più sofisticate e raffinate, è altrettanto vera la difficoltà di trovare criteri che possano salvaguardare l’umano, come singolo individuo e come comunità: non bastano gli esperti del settore o i “pensatori di professione” a indicare la strada giusta da seguire; bisogna coinvolgere la sfera pubblica al dibattito bioetico. Non basta neppure la “razionalità astratta”[6]. Abbiamo già sperimentato quanto sia stato nefasto dissociare la “freddezza glaciale del ragionamento” dalla humanitas. Lo spazio pubblico può essere l’anticorpo da opporre alla malattia che attacca la ragionevolezza, quando questa è separata dall’esperienza plurale degli uomini, quando è ridotta a sola necessità. Le questioni bioetiche invitano tutti a maturare una coscienza critica, a essere educati al sentimento del rispetto per l’altro, a non lasciarsi influenzare da nessuna forma di auctoritas, senza escludere neppure la scienza, perché il fine è quello di garantire e proteggere i diritti umani. Il ricorso ai diritti umani implica inevitabilmente la disposizione di nuove norme giuridiche, soprattutto per quanto concerne l’uso possibile o meno delle tecnoscienze, che ampliano la sfera delle libertà. 

A tal proposito S. Rodotà, giurista e bioeticista italiano di straordinario rilievo, ha osservato: 

dove prima erano soltanto caso o necessità ritroviamo possibilità di scelta. Questa è una constatazione che potrebbe indurci a definire l’insieme delle nuove tecnologie semplicemente come “tecnologie della libertà”. E questo è sicuramente vero in tutti i casi in cui esse ci liberano dal dolore, dalla malattia, dalle deformazioni, da una sessualità praticata con timore, da una procreazione inseguita senza speranze o temuta come una maledizione, da una morte vissuta come un’interminabile condanna. Ma non ci si può fermare a questa constatazione. Il problema vero è quello di definire le regole d’uso delle diverse tecnologie, di stabilire quali di queste regole debbano trovare una formalizzazione giuridica”[7].

Nasce dunque la necessità di una nuova ramificazione del diritto, in analogia con la bioetica, una sorta di bio- jus, come ha rilevato il giurista L. Violante, cioè “un diritto applicato alla biologia e alla medicina che deve misurarsi con le nuove problematiche in modo nuovo, originale, che deve ricercare anche referenti teorici diversi dal diritto alla proprietà o dal diritto delle libertà individuali[8]; un diritto che scongiuri il pericolo di mercificazione del patrimonio biologico dell’essere umano, un diritto il cui principio orientativo sia quello di responsabilità verso le future generazioni, assicurando la diversità biologica, la non- omologazione, che vede e vedrà impegnati giuristi e istituzioni, perché le questioni di bioetica continuano ad essere in fieri.

 

E se ritorno a quella stanza azzurra di ospedale, mi chiedo se non sia un diritto umano morire dignitosamente attraverso una “morte buona e dolce”, che darebbe sollievo  a sofferenze fisiche e darebbe pace a chi non è più presente a se stesso e agli altri con la propria coscienza. Al di là di tutte le implicanze religiose o considerazioni filosofiche, quando ci si pone questa domanda estrema è l’amore, solo l’amore, che ti guida a fare scelte coraggiose, agli altri incomprensibili o inaccettabili, perché non si può giudicare dall’esterno, commentare in astratto quello che non si vive in prima persona. La vita e la morte sono situazioni- limite, direbbe l’esistenzialista K. Jaspers, a cui l’uomo non può sottrarsi, ma quest’ultimo ha la libertà di scelta di trovare il suo orientamento nel mondo nel rispetto di se stesso e degli altri, consapevole che tutte le sue decisioni determinano il valore della propria individualità. Il dibattito bioetico diviene allora il terreno su cui esercitare con cautela e giudizio il principio di libertà come singolo e come collettività,[9] in un dato momento storico e nella dimensione etica, il cui fine deve essere sempre il bene per ogni essere umano.

 

 

Virginia Varriale

 



[1] E. D’Antuono, Bioetica, Guida, Napoli 2077, p. 8.

[2] E. Sgreccia, Bioetica. Manuale per medici e biologi, Vita e Pensiero, Milano 1986, p. 43.

[3] Ibid., p. 29.

[4] M. Heidegger, Lettera sull’ “umanismo”, a cura di Franco Volpi,  Adelphi, Milano 2011, p. 27.

[5] O. Di Grazia, Shoah e bioetica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002, p.73.

[6] E. D’Antuono, Bioetica, cit., p. 33.

[7] S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 225 in E. D’Antuono, Bioetica, cit., p. 47.

[8] L. Violante, Bio- jus. I problemi di una normativa giuridica nel campo della biologia umana in A. Di Meo, C. Mancina, Bioetica, Laterza, Roma- Bari 1989, p. 262.