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I versi giovanili di Wislawa Szymborska

di Rosita Copioli tratto da “Avvenire”  7 ottobre 2022

Raccolti sotto il titolo “Canzone nera”, contengono già anche i germi che germoglieranno in futuro, tra il tragico assoluto e lo sguardo verso la speranza

 

«Non omnis moriar », “non morirò del tutto”, scrisse Orazio, credendo di avere eretto con la poesia un monumento perenne più del bronzo, nella gloria che sfugge alla dèa morte. Più ironicamente, con un doppio gioco tanto serio, quanto dissimulato, una giovane poetessa, Wislawa Szymborska, lo nascondeva in Viandanze: suite pubblicata su piccole riviste polacche, tra il 1947 e il 1949. C’è un ragazzino – lei stessa – in cui confidano la parola poetica e la luce del giorno, in cerca della verità. Non è alleato di nessuno. Pensa che l’alba di oggi assomigli a quelle di ieri e di domani. La stradina fragile all’alba, salda la campagna alla città, con il suo mercato, dove i vivi si incontrano. Il ragazzino pensa alla statua eroica del poeta che profetizzava: «Insieme a loro calpesto pietre/ più durature del bronzo». Forse dalla pietra del poeta che è anche soldato, si risveglierà la musica, non in vendita. Il ragazzino su una soglia, dentro un sogno, saluta solenne la bandiera. Ma che strana quest’uscita improvvisa: «è dallo stupore / che sorge il bisogno di parole/ e perciò ogni poesia/ si chiama Stupore». Si rannuvola: «il mio dire/ sarà sempre come il pathos. Troppo poco». Infine una soluzione. Ripete per sempre il ricordo della casa, l’esplosione, il cielo, l’edificio devastato. Restano tre dimensioni dissolte, ma la quarta, il tempo? Di lì, dal suo solo amore, dal pensiero troppo grave e incessante, cosa resta, se non il taglio della quarta vuota parete? «Un doppio vuoto: tu – tuo figlio, /che mai darò alla luce». Tutto si confonde in una biografia di perdite, nel cielo e bosco cuciti da fili di spari – il sangue sulla tempia di chi cade, rievocato nell’ipnotica musica della Canzone nera, distraente dall’orrore: «sarà rossetto »? «Qui non è successo nulla». Né lo stile, né l’ironia sono quelli della poetessa futura, ma si presagiscono paradossi, dislocazioni, litoti, doppie antitesi, dissociazioni, elusioni, obliquità, trasferimento dell’orrore e del lutto, in una “forma” elegante dell’intelligenza e della “grazia”. C’è già un’acerba Saffo che sa che «Non è permesso il canto funebre/ nella dimora dei seguaci delle Muse». Canzone nera, che dà il titolo odierno alla raccolta (Adelphi, pagine 156, euro 14,00), ed era più semplicemente Poesie, non uscì, perché forse non allineato con il sistema della “liberazione” russa, al cui partito Szymborska aderì credendoci, e non uscendone se non nel 1966. Ma i primi libri, anche i rifiutati, sono indispensabili per capire un poeta. Oggi lo leggiamo nella bella traduzione di Linda Del Sarto, che raccoglie l’eredità di Pietro Marchesani. Andrea Ceccherelli, autore di numerosi libri sulla Szymborska, lo cura con filologia impeccabile, e ne corregge l’edizione polacca del 2014. Il 13 giugno, annunciandolo al Centro di poesia dell’Università di Bologna, che presiede, mi parlò di questo esordio, che Adam Wlodek (primo marito della Szymborska) aveva salvato: mostrava registri diversi rispetto al seguito, compresi i due libri ideologici del 1952 e 1954, dai quali lei avrebbe preso distanza. Era sorprendente. Scritto dal 1944 al 1949, Canzone nera contiene patria e anarchia, ma anche i germi futuri. Sta tra il tragico assoluto, e lo sguardo quasi verso la speranza, perché la morte è maldestra, come scriverà: «Non c’è vita / che almeno per un attimo/ non sia immortale. / La morte è sempre in ritardo su quell’attimo » ( Sulla morte senza esagerare). A ventun anni la prima poesia, 1944: riguarda la terrificante insurrezione dei bambini di Varsavia, che accompagna la più grande tragedia nella storia della Polonia. «Costò circa 200.000 vite, tra militari e civili, e la completa distruzione della città», ricorda Czeslaw Milosz nel Trattato poetico, dove racconta la storia della Polonia attraverso i poeti. Dopo l’invasione di Hitler, «la Shoah aveva portato allo sterminio di un’intera nazione di ebrei polacchi». In seguito, nel regime comunista, «gli anni peggiori, gli anni del terrore, furono quelli dal 1949 al 1953». Di dodici anni più anziano della Szymborska, e sebbene abbracci una poesia poematica, le è vicino. Entrambi si sono fidati delle speranze dell’utopia e dell’ideologia, in fasi e luoghi diversi, e se ne sono pentiti. Appena uscita dall’occupazione nazista, Szymborska si fida della “liberazione” russa. Però riesce sempre ad essere se stessa. Così può maturare. È paziente, si mette in discussione. Rimane bloccata per anni, quando riceve critiche, che la fanno riflettere. Ma crede nella poesia: la mette in primo piano insieme alle persone, alla bellezza di ciò che ci sorprende, in ogni attimo della vita. Connesso a ciò, un principio essenziale: a ciascun poeta la poesia chiede un linguaggio proprio. La sua intelligenza la guida, in uno scintillio che rinnova l’agudeza, il witz, l’eccellenza dello spirito che può volare. Di fronte al più inarrivabile orrore, non basta la parola, nemmeno se le si chiede la potenza del vulcano. I tragici avevano avuto ben in mente il problema, ma andavano dritti sulle loro strade. La poesia è necessaria, proprio dopo Auschwitz. Bisogna andare oltre, trovare altre parole, altri mattini. Nel suo modo di reagire alla tragedia, Szymborska afferra per sé dissimulazione, scarto, tutto ciò che significa rimozione e taglio. Fin da questo libro si può intuire la strada adatta a lei, tra quelle infinite della poesia. Ceccherelli mette a epigrafe del proprio saggio alcuni versi di Amore a prima vista: «Li stupirebbe molto sapere / che già da parecchio tempo / il caso giocava con loro. / Non ancora pronto del tutto / a mutarsi per loro in destino». Come un fulmine che illumina il buio, l’intelligenza che sa stupirsi e stupire, diventa il filo salvifico del destino. Montaigne, così amato, è un miracolo di sopravvivenza alle insidie: il suo destino di sopravvissuto è un simbolo. Non diversamente, forse, da ogni istante della vita che ci circonda, che va attesa, come il farsi giorno. Una nobile reticenza, è distacco dai sentimenti propalati. Generazioni di antenati della Szymborska, sia paterne sia materne, legate alle famiglie polacche regali Lubomirski e Zamoyski, si erano sacrificate nelle insurrezioni ottocentesche. Non era una novità, allora come oggi, essere travolti da guerre costanti: lo smembramento della Polonia, il coinvolgimento nelle insurrezioni nazionali europee. A sedici anni, il giorno in cui scoppiò la guerra, Szymborska vide passare sotto casa un carro di contadini che trasportava soldati insanguinati; dentro di lei qualcosa disse «ecco che ci siamo daccapo »: qualcuno che aveva visto scene simili tante altre volte, prima di lei. A queste scene, fin dalla Canzone nera, Szymborska affianca un ardore, una disponibilità verso il capire, che diventerà sempre di più il suo anti-credo: il socratico “non so”. Non importa che qui la sua “poetica” sia in formazione, né che i versi non siano perfetti, come lo saranno a partire dall’Appello allo Yeti del 1957. Per noi questo plasma è prezioso. Vi è già la persona che nel discorso al Nobel conversa con l’Ecclesiaste, dicendogli che no, non è vero che non c’è nulla di nuovo sotto il sole.