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Spostare il margine per una sanità più equa e più inclusiva

Immigrati senza permesso di soggiorno, stranieri in attesa di essere regolarizzati, minori non accompagnati, senza dimora: chi li ha visti?

Intervista a Salvatore Geraci

Area sanitaria Caritas di Roma - Società italiana di medicina delle migrazioni – GrIS Lazio

 

Ottobre 2022

Per garantire l’universalismo e l’equità del diritto alla cura è necessario identificare non solo i bisogni ma anche le persone dimenticate e invisibili al sistema che hanno quei bisogni. Chi sono gli invisibili? E agli occhi di chi sono invisibili?

Diverse sono le forme di invisibilità, come diverse sono le situazioni che generano invisibilità. C’è l’invisibilità alle persone e quella alla società; c’è l’invisibilità sociale e quella amministrativa. La più faticosa da accettare è l’invisibilità delle persone laddove i bisogni sono visibili ma a non essere viste sono le persone che hanno quei bisogni. Pensiamo, ad esempio, a una persona senza dimora che viene ricoverata per un malessere e una volta superato il problema viene dimessa e, spesso, viene dimessa direttamente sulla strada da dove è stata presa. Per cui il suo bisogno è stato identificato, è stato fatto un intervento, anche efficace, ma torna ad essere invisibile agli occhi del sistema.

Il covid-19 ha portato alla luce un altro tipo di invisibilità, quella amministrativa, tra donne, uomini, bambini, italiani e stranieri, che per il sistema amministrativo non esistono perché non hanno una tessera sanitaria che di fatto, durante la pandemia, è stata la chiave per accedere ai portali regionali per prenotare un tampone o il vaccino. Non sono solo i senza dimora o gli immigrati irregolari ma anche le persone visibili nelle nostre case come le badanti o i braccianti nei campi (i soli regolarizzandi, cioè coloro che, lavorando, hanno presentato domanda per emergere dall’irregolarità sono stati in Italia, nel primo anno della pandemia, circa 220.000: nel migliore dei casi in possesso di una tessera sanitaria provvisoria ma che, per lungo tempo, non è stata riconosciuta per le prenotazioni telematiche). Complessivamente gli “invisibili” in Italia sono stati stimati in circa 800.000 e nel Lazio intorno ai 50.000.

Sono tutti esempi di invisibilità, di livelli diversi. Se mettessimo l’occhiale dell’equità, quindi se entrassimo in una logica secondo cui non dobbiamo offrire tutto a tutti allo stesso modo ma dobbiamo agire con più insistenza e attenzione nei confronti delle persone che hanno maggiori bisogni, con più sensibilità nell’ambito della cosiddetta “fragilità sociale”, allora questi livelli di invisibilità riusciremmo, forse, a vederli. Daremmo a tutti pari opportunità.

 

Il piano vaccinale in emergenza sanitaria covid-19 non ci dovrebbe avere insegnato che raggiungere questa fascia (invisibile) della popolazione è possibile? Quali le criticità maggiori che andrebbero risolte?

Qui a Roma, vicino a stazione Termini, la Caritas ha un poliambulatorio a bassa soglia per le persone in condizioni di fragilità sociale. Al primo lockdown, nel 2020, quando dovevamo stare tutti a casa, scegliemmo di rimanere aperti nonostante la carenza di dispositivi e le incertezze che c’erano. In quel periodo abbiamo visitato molte persone, non solo immigrati, che non avevamo mai incontrato prima. Mi riferiscono ai senza tetto che popolano le strade e che non vediamo se non in situazioni di emergenza. Questo ci ha spinto a ragionare ancora sul margine sociale, ma da una diversa prospettiva. Gli emarginati sono quelle persone che stanno al di là di un margine. L’idea comune, già di per sé avanzata, è di raggiungerli superando il margine con interventi di sanità pubblica di prossimità. Il lockdown ci ha però mostrato che non basta superare il margine quanto piuttosto serve spostare il margine, cioè includere in modo ordinario questa popolazione, entrare in sintonia con quelle persone emarginate affinché usufruiscono dei servizi e tutele offerte all’intera comunità, perché anche loro ne fanno parte a pieno titolo. Questo è stato uno degli insegnamenti più forti per noi che già lavoriamo per le persone in condizioni di marginalità. Un altro insegnamento per tutti è stato quello del peso di barriere amministrative. Non è sempre detto che la registrazione su un portale per prenotare una visita o un esame diagnostico faciliti l’accesso ai servizi. Non lo è per tutti. Per alcune persone – non solo immigrati – diventa un ostacolo insormontabile a meno che non si prevedano dei percorsi o delle procedure dedicate, anche meno tecnologiche (per esempio ad accesso diretto), come in parte è stato fatto per gestire la pandemia nonostante le resistenze e i ritardi istituzionali.

 

Sicuramente la pandemia è stata un’emergenza non solo sanitaria ma anche sociale che ha messo a nudo la scarsa fruibilità dei servizi pubblici nonché i problemi di giustizia sociale. In un articolo lei scriveva che molta responsabilità per contenere i contagi è stata data ai singoli cittadini distogliendo l’attenzione dalla responsabilità pubblica a tutela degli individui. Alla responsabilità pubblica andrebbe aggiunta quella collettiva?

Siamo abituati a ragionare in termini di sussidiarietà verticale, che si esplica tra i diversi livelli di governo a livello centrale e territoriale, e di sussidiarietà orizzontale nell’ambito del rapporto tra Stato e privato sociale (“non faccia lo Stato quello che possono fare meglio i corpi intermedi della società”). Però in questo incrocio di responsabilità individuale, pubblica e collettiva, entra in gioco quella che con il professor Stefano Zamagni definiamo sussidiarietà circolare, dove al settore pubblico e al mercato si aggiunge un attore che è quello della società civile in forma individuale o organizzata, cioè l’insieme di persone, associazioni e organizzazioni impegnate nel terzo settore. Rispetto a quella orizzontale dove lo Stato fa un passo indietro per dare più spazio all’esperienza del privato sociale, nella sussidiarietà circolare c’è la volontà di confrontarsi tra Stato, privato sociale e società civile e, laddove è possibile, di coprogettare e avere una parte di governance condivisa.

Tutto questo è mancato durante la pandemia, soprattutto nelle fasi iniziali. La necessità di dover rispondere rapidamente e in maniera puntuale ha condotto alla creazione a livello governativo, e soprattutto a livello regionale e poi locale, delle cosiddette “cabine di regia” in cui ci si è arroccati sulla necessità di prendere velocemente una serie di iniziative per l’intera popolazione dove però la parte più fragile, non avendo voce in capitolo, è stata la più dimenticata e lasciata, appunto, ai margini (lontani). In sostanza le cabine di regia hanno, di fatto, contrastato la partecipazione orizzontale o ancor più quella circolare; di conseguenza la responsabilità di alcune iniziative sono venute meno o perlomeno sono avvenute in ritardo. Ma in una situazione di emergenza sanitaria il ritardo, anche minimo, significa più malattie e più sofferenza sociale, entrambe in gran parte evitabili. Anche questo è un altro punto di riflessione che noi tutti dovremmo tener presente.

 

Le azioni di advocacy non potrebbero favorire la capacità di intervenire a partire dalla normativa fino alla messa a terra di azioni concrete per gli invisibili?

La pandemia da covid-19 è stata un’occasione per rafforzare l’azione di advocacy all’interno di un lavoro di rete. Tuttavia ‒ proprio per questa sorta di arroccamento organizzativo ‒ tutte le indicazioni e sollecitazioni emerse sono state dapprima ignorate e solo in seguito avviate, ma lentamente. Eppure la partecipazione di persone che rappresentano o conoscono parti diverse della società può essere sempre utile anche nell’organizzazione dei processi decisionali. La Società italiana di medicina delle migrazioni ha prodotto qualche anno fa un documento basato sulle evidenze su come fare advocacy per ottenere un cambiamento: creare reti e alleanze, cercare le evidenze e dimostrarle, fare proposte concrete e percorribili, interessare i mass media quando necessario, ecc. Durante la pandemia tutti questi passaggi sono stati fatti; tuttavia si è faticato molto per portare all’attenzione i bisogni e i diritti degli invisibili perché, come spiegavo, non veniva data importanza alla partecipazione circolare. Ancor prima dell’operatività serve la sensibilità all’ascolto. In altri ambiti, pensiamo a tutta la normativa sanitaria per gli immigrati costruita a partire dal 1995 ad oggi, l’azione di advocacy è stata particolarmente efficace ed è stata valorizzata a livello nazionale e locale.

 

Dunque, in sintesi, come si potrebbe già orientare in modo equo una politica sanitaria e sociale efficace, senza inseguire sempre e solamente l’emergenza nell’emergenza?

Tre i passaggi fondamentali. Il primo riguarda un’azione a livello organizzativo, con una sanità pubblica di prossimità che includa un lavoro di rete, l’offerta attiva e il coinvolgimento diretto delle comunità di riferimento. Il secondo è quello di spostare i margini della fragilità. Questo è compito di politiche di inclusione in senso ampio (per esempio, una nuova legge sulla cittadinanza, il contrasto al lavoro nero, percorsi d’accoglienza e integrazione), ma anche con una organizzazione, ad esempio dei servizi sanitari, che consideri la parte di popolazione socialmente fragile non una eccezione ma una sfida per l’equità a favore di tutti con, ad esempio, una rete di servizi elastici e a bassa soglia. Il terzo passaggio è convincere i politici, i decisori e i dirigenti del valore e del senso della partecipazione che non deve essere vista come un ostacolo: solo con la partecipazione delle diverse comunità in forma ordinaria si possono garantire migliori percorsi e quindi maggiori tutele, e in situazioni di emergenza è il modo più efficace e attento per riuscire a intervenire dove c’è invisibilità di persone e di bisogni. Il nostro sistema sanitario è sofferente, lo è da anni e non solo per una carenza di risorse economiche ma anche di scarsa sensibilità ai temi che abbiamo detto. Oltre a cambiare prospettiva dovremmo cambiare l’impostazione del sistema: dall’attesa all’iniziativa, dal centralismo al territorio, dal decisionismo alla partecipazione. In questo modo tutti, anche i più deboli, coloro che stanno ai margini dimenticati dai servizi sanitari, dalle campagne di prevenzione, e anche gli invisibili alla società possono diventare protagonisti di percorsi di tutela e di salute.

 

Fonte: Geraci S. Salute e sviluppo 2021; 82