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A Napoli un piazzale per Antonia Bernardini, vittima della violenza manicomiale

 

 

[disegno di cyop&kaf]


tratto da “Monitor” del 14 aprile 2023

Da questa mattina lo spazio antistante l’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Materdei, a Napoli (oggi Ex Opg – Je so’ pazzo), è dedicato ad Antonia Bernardini, vittima della reclusione e della violenza manicomiale. Sono passati quarant’anni da quando la donna morì per le ustioni dovute all’incendio del letto nel quale era legata da quarantatré giorni. «Lì ci legavano come Cristo in croce», aveva detto prima di morire.

È la prima volta che uno spazio pubblico viene intitolato a una vittima della violenza manicomiale e ci pare importante che questo sia avvenuto grazie a una petizione popolare, dopo la scrittura e la pubblicazione di un libro. 

Quel libro si chiama Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio, è stato scritto da Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito, ed è stato pubblicato da Sensibili alle Foglie nel 2017. “Per diversi anni – racconta Esposito – abbiamo lavorato per recuperare, decifrare e approfondire migliaia di pagine di inchiesta giudiziaria e racconti della stampa, incontrando decine di testimoni dell’epoca, rintracciando e conoscendo Gabriella, la figlia di Antonia, con la quale abbiamo condiviso la possibilità stessa di pubblicare questo libro. In questo cammino, raccontare la storia di Antonia, e con lei quella di altre donne che hanno attraversato l’ingiustizia, i soprusi, la violenza dell’internamento manicomiale, è diventata una necessità, un modo per provare a restituire, pur solo nella memoria, una ‘goccia di splendore’ a queste vite che si sono scontrate col potere”.

Pubblichiamo a seguire un capitolo del libro, Morire di classe, che riporta la presa di posizione pubblica di Franco Basaglia sul caso Bernardini, nel 1975.  

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L’8 gennaio 1975 Franco Basaglia scrive per Il Corriere della Sera un editoriale che, sin dal titolo, richiama quello di Sergio Piro, con cui condivide, tra le tante cose, l’impegno di Psichiatria democratica. È un fondo molto duro, insolita apparizione tra le pagine moderate di quello che è il più importante quotidiano italiano (anche se, in occhiello, la nota redazionale specifica che lo spazio è offerto dal giornale ad autorevoli esperti che però non rappresentano il punto di vista del giornale).

L’articolo, pur scritto con qualche giorno d’anticipo rispetto alle conclusioni della relazione degli ispettori, è una risposta alle argomentazioni del ministero e un atto di accusa contro l’uso della contenzione. Basaglia apre ricordando che la Bernardini è morta a due mesi di distanza dall’impegno preso dal ministero di abolire i manicomi giudiziari, ma non intende qui entrare nel merito del problema specifico, dato che, nonostante le polemiche sulla progettata riforma sanitaria, nei manicomi italiani, giudiziari e non, si muore ancora sui letti di contenzione.

Sul tema Basaglia non è intervenuto molte altre volte, non ha avuto esperienza personale dei manicomi giudiziari e la sua conoscenza è indiretta. Sa bene, però, che il manicomio, civile o giudiziario, è espressione di una stessa logica. Nel 1973 ha scritto: “Cio che è evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario, dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità: la punizione di coloro per la cui cura e tutela medicina e giustizia dovrebbero esistere”. Qualche anno dopo la vicenda che stiamo narrando, Basaglia utilizerà proprio la storia della Bernardini per descrivere la natura dei manicomi giudiziari. Sulle pagine del Corriere sceglie di arrivare alla critica del manicomio partendo da quella all’uso del letto di contenzione: “Il letto di contenzione – scrive – è uno strumento di tortura, e il malato contenuto può urlare sino a morire senza che nessuno accorra alle grida e alle richieste di aiuto: perché tutto ciò che accade in manicomio fa parte, per definizione, della malattia e, per definizione, non esprime alcun rapporto con la realtà”. Se i malati si agitano o gridano, racconta Basaglia, nessuno accorre alle loro urla, nemmeno se un letto brucia, perché “un pazzo legato al letto di contenzione non può nuocere, quindi non ha bisogno di niente, quindi se urla che urli pure, poi la smetterà. Questa è la logica del manicomio”. Se questa può essere una cosa raccapricciante per tutti, scrive Basaglia, lo è soprattutto per chi ha dimostrato (come nell’esperienza di Trieste) che “le violenze, le crudeltà, le efferatezze de nostri manicomi sono violenze che non hanno alcuna giustificazione sul piano della terapia della malattia” e che uno “stesso malato, posto in una situazione diversa da parte di chi dovrebbe curarlo, diventa un malato diverso”.

La morte della Bernardini è il prodotto di una società “che rifiuta di mutare e trasformare le sue istituzioni perché esse assolvono, così come sono, una funzione ancora utile e necessaria al mantenimento dello status quo: il controllo e la segregazione della marginalità”. Quando, come ancora nella nostra società, il malato mentale è ritenuto violento, crudele, sadico e aggressivo, queste istituzioni che si dicono sanitarie continuano a esistere, “con i loro strumenti medioevali di tortura, solo in nome della tutela dell’ordine pubblico e della nostra sicurezza nei confronti del la pericolosità del deviante”. Ma nessuno salva, invece, il malato dalla pericolosità delle istituzioni, perché questa difesa sociale “si traduce in un omicidio organizzato che non è più possibile tollerare”.

Così, mentre proviamo sgomento per la tortura in atto in altri paesi, “non riconosciamo una tortura quotidiana che si perpetua nelle nostre istituzioni, sotto la maschera della terapia, della cura e della riabilitazione”. Il paragone con il recente colpo di stato in Cile è esplicito: che differenza c’è, si chiede Basaglia, tra i torturatori cileni e la morte della Bernardini, che si vuole accettare come una fatalità? A cosa servono le dichiarazioni dei diritti dell’uomo se poi vengono calpestate ogni giorno?

Basaglia attacca quindi il direttore Francesco Corrado per le sue dichiarazioni: “Quanta caritatevole premura per prevenire dei gesti che avrebbero potuto nuocere alla paziente, mentre l’organizzazione manicomiale può impunemente metterli in atto contro di lei!”. Le parole di Corrado infatti manifestano proprio “la logica manicomiale che si fonda sull’ideologia della carità”. Una logica di sopraffazione, inutile come risposta alla malattia, “che non è però casuale, come non è casuale il fatto che essa si ostini a sopravvivere”. L’elemento chiave di questo sistema repressivo, secondo Basaglia, sta nella classe di appartenenza di chi cade nelle maglie di queste istituzioni, il cui compito è chiaramente quello di distruggere gli oggetti in esse contenuti. Ogni altra giustificazione serve solo a mascherare la vera funzione di un sistema manicomiale che, malgrado i suoi alti costi, non è mai proteso alla cura del sofferente psichico.

Queste istituzioni, quindi, hanno di fatto la funzione di punire e reprimere chi devia dalla norma, ma soprattutto, chi – deviando da questa norma – ha la “colpa” di appartenere alla classe oppressa e di non disporre di strumenti economici e culturali per potersi difendere e poter pretendere il recupero. È dunque inutile, anzi è criminoso e colpevole limitarsi a discutere delle contraddizioni della legge sui manicomi o di una ipotetica riforma sanitaria quando negli istituti asilari “ogni giorno si muore di contenzione, di violenze, di soprusi”. Prima di ogni valutazione tecnica, dunque, si palesa l’esigenza politica di capire cosa significhi la morte della Bernardini. E per Basaglia c’è un’unica conclusione politica possibile: “Ora basta. Basta soprattutto perché non è più solo uno sparuto gruppo di tecnici illusi che lo impone, ma è la stessa classe oppressa che subisce da sempre queste morti e queste violenze che lo esige. Perché è chiaro a tutti che queste morti atroci sono sempre un morire di classe”.