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Sensibile, o la forza della vulnerabilità

tratto da “ minima&moralia del 30 maggio 2023
di Paolo Bosca

“Sensibile” è un aggettivo complicato e ambivalente. Il suo significato è instabile: a seconda del contesto può pendere verso la lodevole capacità di percepire a fondo sé e l’altro, rimanendo accoglienti verso il mondo, oppure verso una velata accusa di debolezza, di incapacità di reagire, resistere ed essere resilienti verso le difficoltà della vita. Ma c’è una terza via. La suggerisce Svenja Flasspöhler nel saggio Sensibili. La suscettibilità moderna e i limiti dell’accettabile, appena pubblicato da nottetempo nella traduzione di Tommaso Isabella: la sensibilità può rimanere in bilico e indicare qualcosa come la “forza della vulnerabilità”. Un’alleanza fragile quella tra questi due termini, che tuttavia rappresenta un importante strumento per affrontare il futuro.

È molto probabile che ognuno e ognuna di noi sia stato accusato di essere troppo sensibile. Sensibile alle critiche, al tocco di qualcun altro, alle sue parole, ai suoi apprezzamenti. Oppure, al contrario, insensibile al dolore dell’altro, al suo disagio o ai suoi bisogni. Sembra di assistere, oggi, a una specie di “rivoluzione della sensibilità”: molto di quello che era scontato in passato ora non lo è più e per questo viene problematizzato. Sono attivi, almeno in Occidente, processi (giuridici o ancora solo popolari) di rivendicazione del diritto a non veder violata la sensibilità individuale o di un gruppo oppresso. È richiesto a più voci un cambiamento radicale che attraversi diagonalmente tutto il campo sociale dai costumi, alle leggi, alle stesse “formalità” che guidano in maniera non sempre dichiarata il comportamento collettivo. Per contro, è necessario riflettere anche sui rischi di sottomettere le norme di comportamento alla sensibilità individuale perché, anche se quest’ultima sembra il minimo comun denominatore della garanzia di libertà, la nostra interiorità è un terreno tutt’altro che solido e trasparente.

Qualche esempio? Politically correct, MeToo, Black Lives Matter, LGBTQIA+, teoria gendermaschilismo tossicoshitstormsnowflake, sono tutte sigle, movimenti, processi storico-culturali di cui si sente parlare quotidianamente e che hanno dato un impulso rilevante al progresso sociale degli ultimi decenni. Ognuna di esse in qualche modo fa appello alla sensibilità. Ma la rivoluzione della sensibilità non finisce qui. L’awareness sui temi del disagio psichico, dell’iperstimolazione e, per contro, della depressione diffusa, la crisi pandemica del contatto sono altri esempi di problematiche imperniate sulla propria percezione e reazione a stimoli esterni.

Svenja Flasspöhler, filosofa tedesca e scrittrice, in Sensibili compone un itinerario incredibilmente vasto, curioso e approfondito che avvicina con ottimo profitto voci distanti nel tempo e negli intenti, da Derrida a Jünger, da Hume a Elias, da Canetti a Butler fino a Freud, per dare non solo sostegno teorico alle questioni d’attualità, ma soprattutto per mostrare le origini storiche profonde del processo di sensibilizzazione della società. L’autrice sceglie di mantenere, non senza brillanti ironie, lo schema duale e oppositivo che caratterizza il discorso pubblico su queste tematiche, per criticarlo dall’interno. Fin dall’inizio della modernità c’è chi pensa che gli uomini e le donne stiano diventando progressivamente intoccabili e che, di conseguenza, “non si può più dire nulla”, e chi d’altra parte legittima la sensibilità individuale come unica misura del sociale. Come la filosofia è chiamata a fare quando fa il suo mestiere, Flasspöhler problematizza: chiarifica dove serve e ha il coraggio di sparigliare le carte, dove serve.  E malgrado la ricchezza di punti di vista che l’autrice offre al lettore il suo timone è sempre saldo, l’argomentazione ben ponderata e convincente.

In fondo questa non è una storia recente. La sensibilità cresce da secoli: da quando Rousseau ne parlava in termini entusiastici di autoregolazione dell’uomo buono, ma anche da quando Guillotin decise di mettere fine, con l’omonima macchina, al truce spettacolo delle torture pubbliche di chi era condanno a morte. La sensibilizzazione della società ha una storia così lunga che Norbert Elias, una delle guide del libro, ne fa una caratteristica dello stesso processo di civilizzazione. Tuttavia c’è anche chi, come Jünger e molti altri scrittori che si sono trovati nel bel mezzo della guerra, esalta la durezza del sé, canta l’insensibilità prodotta dall’esaltazione di chi ha la morte in faccia: virilità, resistenza, durezza, forza. A guardarla da vicino, come fa Flasspöhler, la storia è fatta di tinte miste, mai di assoluti. Così in gran parte delle testimonianze storiche la sensibilità più fine, la vulnerabilità più profonda, si accompagna alle lodi della volontà di potenza e dell’Übermensch nietzschiano. Oppure, specularmente, il tentativo di rispettare al massimo la sensibilità di un gruppo oppresso (come nel noto caso della traduzione del libro di Amanda Gorman, affidata prima a Marieke Lucas Rijneveld, che in seguito ha rinunciato in favore di una donna afroamericana, più indicata secondo l’opinione pubblica a lavorare con la poetica dell’autrice) finisce per ripetere un paradigma identitario che può sembrare familiare a quello del potere oppressore.

La sensibilità è il nocciolo più profondo, opaco e potente dell’essere umano, è con essa che si deve misurare tutto, anche il mondo sociale che evolve con noi. Per questo l’ambivalenza, la duplicità, la complessità sono le fiamme che tengono vivo il discorso di Flasspöhler dall’inizio alla fine. Resilienza e sensibilità, vulnerabilità e forza, progresso sociale e circolarità storica: tra questi estremi non c’è scelta ma solo dialogo, avvicinarli l’un l’altro è più fruttuoso di quanto si pensi. Solo così si riesce ad abitare veramente il proprio corpo, così individuale e così sociale allo stesso tempo, soggetto e oggetto del potere ma soprattutto luogo della più sconvolgente delle alterità: quella che ci teniamo dentro e con cui solo la sensibilità ci permette di convivere.

Paolo Bosca, nato ad Asti nel 1996, è dottorando presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e l’Università di Torino, dove si occupa di estetica e geografia critica. Suoi scritti sono comparsi, tra gli altri, su Il tascabile, Linkiesta Eccetera, Antinomie, Cook_Inc Mag.