di Franco Berrino
tratto dal Corriere della Sera del 21 ottobre 2023
tratto dal Corriere della Sera del 21 ottobre 2023
Il Parkinson è una malattia che comincia con tremori e rigidità muscolari e che lentamente progredisce fino alla demenza. Cercai nella letteratura scientifica, ma allora trovai ben poco sul rapporto fra dieta e Parkinson, ma trovai studi sulla demenza di Alzheimer, la malattia che mina progressivamente la memoria, la capacità di ragionare, l’autonomia della vita quotidiana. Trovai in particolare che i diabetici hanno un rischio circa doppio di ammalarsi di demenza di Alzheimer, e il diabete dipende dalla dieta. Già allora il Parkinson, che colpisce i neuroni dopaminergici (che trasmettono lo stimolo nervoso liberando dopamina nelle sinapsi), si curava con la levodopa, che ne rallenta la progressione, ma nessuna cura era disponibile per l’Alzheimer, che colpisce i neuroni colinergici (che trasmettono l’impulso liberando aceticolina). Nel 2002 il ministro della sanità, il prof. Veronesi, autorizzò l’uso di due farmaci che inibiscono l’enzima che distrugge l’acetilcolina nelle sinapsi (l’aceticolinaesterasi). La speranza era che aumentando la concentrazione di acetilcolina si potesse sopperire alla debolezza dei neuroni colinergici. Grande speranza e grande insuccesso, così come saranno insuccessi tutti i farmaci sviluppati in seguito. Preoccupato che gli inibitori della colinesterasi potessero causare diarrea e peggiorare la gestione quotidiana dei malati, scrissi a Veronesi informandolo che con tutta probabilità si poteva prevenire l’Alzheimer e la sua progressione con la dieta mediterranea tradizionale, che previene e cura il diabete.
Proposi di cambiare la dieta nelle residenze assistite per anziani, togliendo pane bianco, purea di patate e salumi, che causano il diabete, e latte e formaggi, che aumentano il rischio di morbo di Parkinson, e introducendo pasta e fagioli e tutte le altre meraviglie gastronomiche della dieta mediterranea tradizionale. Veronesi mi rispose gentilmente, ma non se ne fece nulla. Parecchi anni dopo il professor Cornelio, direttore dell’istituto neurologico Besta di Milano, mi contattò dicendomi che aveva abbandonato le speranze di una cura farmacologica per l’Alzheimer e proponendomi di aiutarlo ad organizzare uno studio sulla dieta. Contattò tutte le strutture neurologiche milanesi che si occupavano di Alzheimer e proponemmo uno studio sulle persone che avevano disturbi cognitivi e di memoria iniziali. Alcuni colleghi neurologi però non avevano fiducia che con la sola dieta si potesse prevenire la malattia, e inoltre pensavano che non sarebbe stato possibile modificare la dieta delle persone anziane. Riuscimmo a reclutare solo una dozzina di pazienti (ne sarebbero stati necessari oltre cento). Venivano a mangiare, con il coniuge sano, tutti i giovedì nel ristorante che avevamo allestito all’Istituto dei Tumori per prevenire il cancro al seno. Riuscimmo solo a dimostrare che anche le persone anziane, se motivate (e chi rischia l’Alzheimer è motivato!) cambiano radicalmente alimentazione, riducono glicemia, colesterolo, trigliceridi e adiposità addominale.
Nel frattempo comparivano gli studi che mostravano che la dieta mediterranea protegge, che l’esercizio fisico protegge, che le bevande zuccherate e i salumi aumentano il rischio, che gli omega-3 del pesce e la vitamina E dei cereali integrali proteggono, che chi ha la pancia in età media ha un rischio tre volte maggiore, che i livelli plasmatici di omocisteina sono associati a un rischio maggiore mentre i livelli di vitamine B9 (acido folico) e B12 a un rischio minore, che fragole mirtilli, noci, nocciole mandorle e un consumo moderato di bevande alcoliche proteggono. Anche il caffè è protettivo, mentre il tabacco aumenta il rischio. la lettura e le relazioni sociali proteggono mentre i disturbi del sonno (l’apnea notturna) aumentano la probabilità di ammalarsi. Una recentissima analisi congiunta di tutti gli studi che hanno considerato il rischio di Alzheimer in funzione del livello di colesterolo plasmatico in età media, con oltre un milione di pazienti seguiti, ha confermato che lo stile alimentare occidentale che fa aumentare il colesterolo “cattivo” (LDL) aumenta il rischio, dell’otto per cento per ogni 20 punti di LDL in più (20 mg/dL).
I benefici