“Benedici i cuori annodati di
nubi”. Innografia di Edith Stein.
tratto da PANGEA
del 30 novembre 2023
Noi che siamo
puro anelito, che in uno spiraglio intuiamo la tonsura ma non il cappio,
costelliamo di idoli la vita interiore – mai intera, mai intima, mai tutta,
sempre crocefissa alle parole, alle intenzioni e ai fraintesi, volgare vogare
nel nulla – ogni conforto è oro. Ci sono giorni, così, in cui basta ascoltare Il carmelo di
Echt per dare entità di soglia alla propria stanza e
nominare Juan de la Cruz la finestra che pende sul bosco.
Scritta da Juri
Camisasca, la canzone, ispirata alla vita terrena di Edith Stein, è di struggente bellezza: dà il titolo a un disco del 1991; è stata
cantata da Giuni Russo in un album di statuaria bellezza, Morirò
d’amore (2003), poi da Franco Battiato in Fleurs 2 (2008).
L’attacco del pezzo è formidabile:
“E per vivere in
solitudine nella pace e nel silenzio
Ai confini della realtà
Mentre ad Auschwitz soffiava forte il vento
E ventilava la pietà
Hai lasciato le cose del mondo
Il pensiero profondo dai voli insondabili
Per una luce che sentivi dentro…”.
Quando il canto
irrompe in urlo – “Dove sarà Edith Stein?”; occorre sentirlo nella versione di
Giuni Russo –, siamo certi che la chiamata, se pure esiste, è esigenza prima,
ci arrischiamo verso ogni spiffero celeste, con le unghie. Pura ipocrisia –
esegesi dell’idolatra – idiozia di chi in ogni corrispondenza scorge la
primizia.
La canzone – di
rara grazia – riassume, appunto, la storia di Edith Stein, cioè Teresa
Benedetta della Croce, proclamata santa da papa Giovanni Paolo II nel 1998.
Nata a Breslavia nell’ottobre del 1891, su Edith Stein si può dire che converge
il secolo, in ogni brama: quella breve donna si è fatta carico della gioia,
dell’orrore, della paura e del coraggio nella sua purezza. Ebrea, atea, assistente
di Edmund Husserl a Friburgo, paladina del diritto di voto alle donne, si
convertì dopo aver letto l’autobiografia di Teresa d’Avila. Battezzata nel
1922, Edith Stein entrò nel carmelo di Colonia nel 1934. L’ebrea convertita al
cattolicesimo sembra realizzare le profezie dell’apostolo Paolo: dovrà
incarnare, sacralizzata alla vita beata, il martirio ordito ai danni del suo
popolo. Ritiratasi a Echt, nel Limburgo, viene arrestata insieme alla sorella
Rosa nel 1942, deportata prima a Westerbork poi ad Auschwitz, dove muore,
quell’anno, in una camera a gas – il suo corpo scompare, arso nei forni
crematori del campo.
Jean-François
Thomas, in uno studio di fatale potenza, Simone Weil ed Edith Stein.
Infelicità e sofferenza (Borla, 2002), sintetizza così il percorso
della santa:
Ai confini della realtà
Mentre ad Auschwitz soffiava forte il vento
E ventilava la pietà
Hai lasciato le cose del mondo
Il pensiero profondo dai voli insondabili
Per una luce che sentivi dentro…”.
“Edith Stein, entrando in convento, non è fuggita dal mondo. Dietro le grate essa si trova in comunione più intima con il mondo, e il suo amore non fa che accrescersi. Non appassisce. Fino alla fine, essa lotta contro le violenze della vita, e nello stesso tempo si prepara a donare la propria esistenza e ad accogliere la morte. Venuto il momento, sarà serena e troverà la forza di distribuire attorno a sé ciò che le resta dell’amore… L’innocente, il giusto, il martire, il santo, rinunciano alla vita senza uno sguardo di odio per il presente, senza nostalgia per il passato. Appartengono già al soprannaturale”.