Editoriale del 7.2.24
Nel
1954 Angelo Maria Ripellino pubblica il suo capolavoro. Stampata da
Guanda, Poesia russa del 900 racconta – così nella bandella
esplicativa – “cinquanta anni di poesia russa… nel più vasto panorama sinora
apparso in Europa”. Dal 1960, l’antologia è ripresentata da Feltrinelli, con
una ‘quarta’ firmata da Eugenio Montale, in cui il poeta tenta, bonariamente,
di ridurre il cataclisma della poesia russa a un’appendice di quella del resto
d’Europa (ad esempio, quando dice di Mandel’štam e di Pasternak che sono
“liristi ‘puri’” e “presentano qualche affinità coi nuovi decadenti o ermetici
o puristi di altri paesi europei”). Poesia russa del 900, che
Ripellino dedica “a mio padre”, viene costantemente ristampata da Feltrinelli
fino al 1979, per poi uscire, di fatto, dalla scena editoriale.
Allievo
di Ettore Lo Gatto, nel ’54 Ripellino aveva 31 anni, era nato il 4 dicembre del
1923, a Palermo. Amico di Vladimir Holan, il grande poeta ceco, insegnava tra
Bologna e Roma, aveva tradotto le poesie di Anna Achmatova quando Stalin le
aveva messe al bando.
Benché
di Ripellino venga, di anno in anno, rimarcato il genio – anche lirico,
proprio: leggete Lo splendido violino verde –, egli non esce
mai, di fatto, dall’angolo di due libri, Praga magica e Il
trucco e l’anima (quest’ultimo, noto per lo più agli ‘specialisti’).
Il centenario dalla nascita, editorialmente, non ha mutato il consueto
paradigma. Resta un mistero la scomparsa, dal consesso culturale, di Poesia
russa del 900, libro di urticante bellezza, una vera camera delle
meraviglie. Con quel libro, Ripellino ha spostato l’asse della
‘geopolitica poetica’: ha dimostrato, cioè, che il meridiano lirico non passa
per la Francia – il dominio di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Valéry,
Apollinaire – e che non cede il campo all’anglomania (la tirannia di Eliot,
Auden, Pound e poi dei beatnik) o agli abbagli spagnoli (le decisive traduzioni
di Federico García Lorca ad opera di Carlo Bo).
Più
semplicemente, Ripellino ha mostrato che la poesia russa, in ogni sua gamma –
lirica “contadina” e metropolitana, enigmatica e “futurista”, di piccole cose e
di vasti universi, umilissima o imparruccata di neologismi – è il centro del
mondo: più di altre tradizioni liriche, ha detto l’uomo, nella sua disintegrata
integrità, e gli ha strappato il cuore. Già: la poesia russa va mangiata;
la poesia russa ti assale, a notte, fa funi delle tue arterie. E come ci è
riuscito? Miracolo del traduttore, certo – Ripellino è un rabdomante del
linguaggio, sa auscultare i remoti moti verbali di chi traduce, ne intercetta
l’anima. Soprattutto, però, talento del critico. I testi critici di Ripellino
sono un capolavoro di audacia stilistica: antiaccademici, prediligono toni
narrativi, se non epici (in questo, il suo maestro è l’inarrivabile Viktor
Šklovskij, fautore della critica come opera d’arte – ma non di fatui gargarismi
retorici dell’autore-oratore).
I poeti russi, così, sono personaggi del vasto romanzo intitolato Poesia russa del 900: mettiamo di lato i principi – Majakovskij e Pasternak, nell’ottica di Ripellino, sono analoghi, in poesia, al ruolo che Dostoevskij e Tolstoj hanno avuto nel romanzo europeo – e spigoliamo tra i ‘minori’. Dunque, ecco Nikolàj Kljuev (1885-1937), “nipote d’un cantastorie ammaestratore di orsi” che “si vedeva per le vie di Pietroburgo simile a un personaggio d’opera, con un cilindro di feltro rustico e un’assisa pseudocontadina: il suo appartamento pietroburghese era adorno come un’izbà, con il soppalco intagliato, le imposte dipinte e uno scrigno di icone dell’epoca anteriore al patriarca Nikon”. Questa è una poesia di ‘abbà’ Klujev, poeta contadino (in cui si legge, nell’aurora dei versi, il lirismo di Ripellino):
“Il crepuscolo silvestre è un
monaco
dietro un libro d’ore arabescato,
splendono di antimonio le vignette
nell’oro purpureo dei fogli.
E i frati-ceppi con devozione
prestano ascolto ai suoni del breviario.
L’estrema luce, smorzando i suoi fuochi,
si appanna come l’aureola di un’icona”.
E poi c’è Eduard Bagrickij (1895-1934), che “amava Stevenson, i racconti di viaggio e la lirica inglese”, le cui simpatie “vanno ai fuorilegge, non alle guardie né ai personaggi che incarnano l’ordine e la disciplina”, e vide nella Rivoluzione – come altri poeti del suo stampo, più propensi all’immaginazione che al rigore del soldatino – “un riscatto della fantasia; perciò, trascorso il periodo della guerra civile, la sua concezione romantica stentò ad abituarsi alle minuzie quotidiane, all’imborghesimento della vita sovietica”. I Versi sull’usignolo e sul poeta hanno un gagliardo viavai:
“L’amore degli usignuoli è la
mia specialità,
capisco il senso delle diverse inflessioni:
dopo un faunesco piffero un ticchettio sbandato,
la canzone del cuculo ed un trillo venduto a peso…
Io con la gabbia in mano aspetto
il tram.
Mosca rifulge di croci e di stelle
e ci attornia con chiese e bandiere!
Siamo in due:
io, vagabondo, e tu, usignuolo,
occhiuto uccello, precursore dell’estate”.
Il criterio generale di Ripellino è quello di dare risalto alle storie individuali dei poeti in contrasto con la visione del comunismo sovietico, che voleva poeti-falange, poeti in squadriglia tesi, con boccucce uccelline, a cantare in odi i fasti della Rivoluzione e la bellezza dell’Urss. Così, di Nikolaj Tichonov (1896-1979), cauto discepolo di Pasternak, Ripellino esalta la lirica degli esordi ma ne dileggia gli ultimi esiti – “le ultime cose di Tichonov, oggi troppo distratto dalle ricompense, dalle decorazioni, dai premi, dagli incarichi ufficiali, hanno perduto la calda vivezza che animava le prime raccolte” –, dimostrando che l’ardore politico (Tichonov sarà, per diverse legislature, deputato del Soviet dell’Unione) annienta il valore poetico, che l’obbedienza partitica annacqua in niente il ribellismo verbale. Ecco alcune lasse dalla meravigliosa L’uomo del Nord, scritta nel 1922:
“Essi credevano che la gioia fosse
un uccello,
e la gioia batteva la sua grande ala,
si torceva sotto i piedi come una volpe nera,
si levava in cespugli, si stendeva come ghiaccio…
In un Venezuela liquefatto dal
sole
narrerò un giorno agli uomini di palma
dei cuori, dei grandi occhi irrequieti,
del mio paese dov’è soltanto inverno, inverno,
dell’acqua che si può come gioia terrena
ficcare in tasca a pezzetti turchini”.
Ripellino,
a volte, sembra preferire i personaggi di contorno, vuole dare rilievo agli
irrilevanti. È ai miei occhi magnetico il modo in cui descrive Vasilij
Kamenskij (1884-1961), sodale ‘futurista’ di Majakovskij: la sua poesia,
“tutta clangori e barbagli festosi”, contrasta con il collasso fisico:
“benché paralitico, Kamenskij dipinge gioiosi pastelli che raffigurano con
lo stile fanciullesco della sua poesia d’allora spiagge, navi, barche,
cacciatori, aeroplani, anatre fra canneti. E con ottimismo straziante afferma
d’avere ancora vent’anni”.
In
assoluto, a voler trovare rilievi in un panneggio critico impeccabile, Ripellino
non ha compreso fino in fondo Osip Mandel’štam, la cui importanza, nei decenni
successivi, si sarebbe dimostrata impareggiabile (eppure, che bello questo
cammeo: “Senza piegarsi ai temi della contingenza politica, devoto sempre
a un ideale di armoniosa bellezza, egli ha guardato la realtà come dall’alto di
un’acropoli, intendendo persino la Rivoluzione come un ritorno al classicismo.
Ma tutto ciò non significa fredda indifferenza per l’età in cui è vissuto.
Sotto il suo fatalismo talvolta l’immagine tortuosa e delirante del nostro
tempo è più viva che n tanti sonatori d’oricalchi”). Allo stesso modo, nella
gerarchia di Ripellino, ha altra luce, rispetto a quella che oggi la folgora,
la poesia di Marina Cvetaeva, “carica di elettricità, di enfasi, di passione
come certe pagine degli espressionisti”.
Aveva confidenza con Boris Pasternak, che ha tradotto in maniera insuperabile. Si incontrarono, quasi inaspettatamente, a Peredelkino, nel 1957. Il poeta, ormai ossessionato dal passato – “Ci narrò di Marina Cvetaeva…”, ricorda Ripellino – non capiva perché il traduttore italiano idolatrasse le sue prime poesie, dando poco credito al romanzo, Il dottor Zivago, ancora inedito.
“Paragonò la figura del poeta ad un albero che stormisca nel vento… Benché a poche verste da Mosca, Peredélkino era in realtà più remota di un villaggio in Siberia. In quella dacia Pasternak coltivava, come una fragile pianta, la sua solitudine, contrapponendo all’effimero brulichío degli «slogans» la ferma meditazione dei problemi eterni. Eppure questa solitudine era fertile, esemplare, ed agiva sui giovani stanchi delle false fanfare”.
Il capolavoro, per così dire, ‘politico’ di Ripellino è però l’antologia dei Nuovi poeti sovietici, che in qualche modo conclude Poesia russa del 900. Stampata da Einaudi nel 1961 – e ristampata con costanza, finché anche questa, con dolo, è finita fuori dai radar editoriali – l’antologia è introdotta da una lettera di Ripellino al “Caro Giulio”, l’editore. La lettera, in realtà, è un atto d’accusa contro la tracotanza politica – quella del Soviet, in questo caso – che mette a tacere l’estro lirico; è un tiro al bersaglio contro le “legioni di usignuoli impagliati” che inneggiano alla letteratura ‘di parte’, di partito, che optano, senza indugio, per il ‘realismo socialista’ pur di trovare un cantuccio e un pasto caldo, galoppini del potere, inclini a inginocchiarsi al trogolo di Stato.
“Finita la rigogliosa stagione di Esenin, di Majakovskij, di Mandel’štam, di Pasternak, gran parte dei poeti superstiti, nell’età staliniana, scivolò per la china dei concettini morali, dei panegirici, delle formule di benemerenza. Le raccolte apparse subito dopo la guerra mescolavano fanfare di gloria e di trionfo a sciatte composizioni oleografiche, a versucoli per cartoline postali, a mottetti da giornale della domenica”.
Ne
viene fuori, in sostanza, un inno alla libertà del poeta, alla poesia come
estrema arte per divincolarsi dalle pastoie del potere. La scelta di Ripellino,
dunque, registrava quei poeti “sovietici” – da Nikolaj Zabolockij a Boris
Slickij e Aleksandr Tardosvkcij – in grado di evadere dal tema, eroi della
propria scassinata personalità. Tra costoro, spicca Evgenij Evtušenko, “il
giovanissimo poeta, dagli occhi irrequieti, arruffato e
impetuoso”. Ripellino lo conosce che ha 25 anni: è lui ad accompagnarlo a
far visita a Pasternak (“E a un tratto entrò nel dialogo la magica immagine di
Pasternak. Decidemmo d’un colpo di fargli visita senza preavviso, a
Peredélkino, il giorno seguente”).
Come a dire che la poesia, al di là
delle angherie della Storia, è soprattutto una questione di amicizie, una
questione di lignaggio.