Conservo tutti i suoi libri,
da “Contro il Metodo” del 1979 ad “Ammazzando il tempo” scritto da Feyerabend poco
prima di morire, all’età di 70 anni. Per alcuni, della mia generazione, i libri
di Feyerabend contribuirono alla
riflessione sui limiti della scienza, e sull’epistemologia.
Amanti del pensiero di Popper
trovammo, nelle critiche di Paul Feyerabend, più che in quelle di Imre Lakatos
o di Thomas Khun, spunti di approfondimento sul razionalismo scientifico e nuove possibilità di ragionamento sull’intreccio
tra scienza, politica, società.
Per chi, come me, lavorava come medico e voleva ampliare il proprio orizzonte conoscitivo, Feyerabend ha offerto ineguagliabili esempi e occasioni di riflessione teorica, sul significato del prendersi cura del malato e non solo della malattia.
(RL)
tratto da Doppio zero.com del 13 Gennaio 2024
Quando apparve
nel 1979 (Feltrinelli, l’edizione originale è del ‘75), Contro il
metodo – “abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza”, recitava
il sottotitolo – ebbe su molti un effetto liberatorio. Con lo slancio di un
dadaista iconoclasta, l’autore, Paul K. Feyerabend – nato a Vienna un secolo
fa, il 13 gennaio 1924 – si apprestava a demolire l’ultima forma che l’autorità
aveva conservato nel dissolversi del Moderno, quella della scienza. Era stato
ufficiale dell’esercito tedesco durante la guerra mondiale, in cui venne
gravemente ferito alla spina dorsale; tornato a Vienna, dopo aver studiato
Fisica e Filosofia, avrebbe desiderato seguire i corsi del concittadino Ludwig
Wittgenstein a Cambridge, ma il progetto non andò in porto per la morte
dell’autore del Tractatus nel 1952. Feyerabend dovette
“accontentarsi” di un altro supervisor, un viennese di nome Karl
Popper, come racconta nell’autobiografia dal titolo Ammazzando il tempo (Laterza,
1994), in cui brillano le doti che lo hanno reso famoso e scomodo al mondo accademico,
l’audacia e la stravaganza di un intellettuale birichino.
Al cuore
di Contro il metodo sta la rivisitazione della difesa del
copernicanesimo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi. Non
godendo ancora di solide conferme empiriche, Galileo deve far ricorso al
contributo della retorica, a trucchi dialettici e tecniche di propaganda nel
duello contro Simplicio e le credenze ecclesiastiche. Dall’altare dei martiri
della razionalità, il fondatore della scienza moderna finiva così relegato nel
limbo dei ciarlatani, e degli imbonitori, dei sofisti che fanno apparire forte
il discorso debole e confidano nella credulità del pubblico. Non potendo
attenersi ai “fatti”, Galileo deve costruire arte-fatti e spacciarli per dati
oggettivi; ma la realtà, ricorda Feyerabend, non è data, è costruita grazie a
una messa in scena, con dispositivi e apparati analoghi a quelli di cui si era
servito Brunelleschi nell’invenzione della prospettiva pittorica (l’esempio si
ritrova in Scienza come arte, Laterza, 1984). Non c’è differenza in
tal senso fra arte e scienza: in entrambi i casi, il gioco non consiste
nell’imitare una realtà immutabile preesistente, ma nel fabbricare una
rappresentazione, un allestimento teatrale. Anche Galileo ha costruito una
messa in scena, quella dell’esperimento, si è servito di meccanismi di
proiezione, come il telescopio, presentati come specchi veritieri della realtà.
L’analogia fra arte e scienza per Feyerabend non si ferma qui: quel che diciamo
progresso nella scienza non è che un cambiamento di stile, una teoria non viene
giudicata migliore per la sua maggiore corrispondenza con la realtà, ma in
virtù di un mutamento di gusto.
Il Novecento è
stato il secolo dell’epistemologia, emblematicamente racchiuso fra l’anno di
nascita di Popper, il 1902, e quello della sua morte, il 1994, lo stesso della
morte di Feyerabend. L’epistemologia muoveva dalla convinzione che
esistesse un metodo, un insieme di procedure e di regole
vincolanti che garantiscono la validità di una teoria, o almeno una “logica della
scoperta scientifica”, per citare il titolo del libro di Popper del 1934. Al
principio di verificazione del neo-empirismo del Circolo di Vienna – una teoria
è scientifica se può essere confermata dall’esperienza – Popper contrapponeva
il criterio di falsificabilità: una teoria è scientifica se può indicare i suoi
falsificatori potenziali, cioè quali fatti, se accadessero, la renderebbero
falsa. Era un modo per cogliere la lezione della rivoluzione di Einstein, le
cui ipotesi apparivano contro-intuitive, e di contrapporsi alle velleità di
ideologie che si spacciavano per scientifiche come la psicoanalisi o il
marxismo. Il razionalismo critico di Popper indicava come metodo l’elaborazione
di ipotesi da sottoporre a controllo empirico; non per verificarle, perché chi
cerca conferme le trova sempre, ma per metterle alla prova spietata della
critica e della sperimentazione. Si procede per congetture e confutazioni, non
si muove dai fatti osservati per giungere a elaborare teorie, come vorrebbe il
metodo induttivo; al piano della realtà empirica si giunge deducendo dalla
teoria le implicazioni che la rendono controllabile.
È questa la
strada su cui si muove Feyerabend, come attestano i saggi raccolti in Il
realismo scientifico e l’autorità della scienza (Il Saggiatore, 1983)
– risalenti agli anni fra il ’57 e il ’77 – e Problemi dell’empirismo (Lampugnani
Nigri, 1971). Ma la sua “crociata anti-empiristica” finiva per colpire anche il
maestro Karl Popper che del neo-positivismo si era definito l’uccisore; in lui
resterebbero “radicali pregiudizi sul sostegno empirico”, poiché il
falsificazionismo continua ad assegnare ad asserti osservativi il compito di
confutare le teorie. In realtà, rileva Feyerabend, tutti i nostri asserti sono
teorici; i dati dei sensi non sono neutrali, un astronomo tolemaico vede un
cielo diverso da un copernicano. Certo i “fatti” sono indipendenti dal
soggetto, ma sono le teorie a stabilire come relazionarsi a essi; una
concezione realista della scienza favorisce la proliferazione di congetture
concorrenti. Il desiderio di Galileo d’interpretare la teoria copernicana come
descrizione oggettiva del cosmo, e non come strumento più rigoroso per il
calcolo dei moti planetari, lo induce a elaborare teorie alternative alla
dinamica aristotelica e a difenderle strenuamente.
Il Galileo
di Contro il metodo ha condotto la sua ricerca disobbedendo
alle prescrizioni della Ragione, alle norme legiferate dal tribunale
dell’epistemologo. Non si è attenuto né al metodo induttivo dei neo-empiristi,
né a quello ipotetico-deduttivo del falsificazionismo popperiano: non si
possono imporre le rigide norme del balletto classico a chi si accinge a
scalare un’impervia montagna. Il rispetto delle regole è il nemico peggiore
della ricerca scientifica: per continuare a essere inventiva la scienza deve
rinnegare la fedeltà a ogni metodologia che voglia in modo aprioristico
valutare la pratica dei ricercatori. Meglio, suggerisce Feyerabend, affidarsi
al principio “ogni cosa può andar bene”: i metodi sono plurali e circostanziali,
da adattare ogni volta alle specifiche particolarità del libero gioco della
ricerca. Violare le regole assume allora il valore di unico precetto
“razionale” raccomandato alla scienza, un’attività troppo complessa per venire
rinchiusa nei canoni logico-formali imposti dai metodologi; i loro principi
tengono conto solo della “scienza dei manuali”, quella che di sé offre
l’immagine caricaturale di un sistema di enunciati coerenti e ordinati con
rigore. Le proposte degli epistemologi valgono per un mondo ideale, sono simili
a castelli in aria che “hanno molto in comune con le malattie mentali”.
L’imposizione di regole universali “dall’ultima fila di galleria del teatro
della conoscenza” non può che entrare in conflitto con il processo storico
tormentato del farsi della scienza; è quel che metterà in rilievo Imre Lakatos
a proposito della matematica, al quale però Feyerabend rimproverava di essere
un “anarchico che si vergogna”. La salda amicizia che li legava – si veda la
corrispondenza raccolta in Sull’orlo della scienza (Cortina,
1995) – non impedisce a Feyerabend di accusare Lakatos di essere rimasto fedele
all’idea che il progresso delle scienze sia un cammino di approssimazione alla
verità. Ma non sarà la verità a renderci liberi (come vuole il Vangelo di
Giovanni), “sono lo scherzo, il divertimento, l’illusione a renderci
liberi”.
Feyerabend ha
allargato le crepe del “buon senso” epistemologico di Popper, portando alle
estreme conseguenze la tesi per i cui i fatti sono carichi di teoria; non esistono
allora dati “oggettivi” che possano valere universalmente da tribunale per
accogliere o rifiutare una teoria, visto che i fatti sono sempre racchiusi in
“cornici” che danno loro senso. Una prospettiva in cui l’anarchismo di
Feyerabend finiva per incrociare quanto aveva sostenuto Thomas Kuhn con La
struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962, Einaudi, 1969). Ad
accomunarli era anche la lezione del Wittgenstein delle Ricerche
filosofiche: Kuhn richiamava l’oscillazione percettiva di fronte all’immagine
ambigua di un’anatra-coniglio per esemplificare il modo con cui “paradigmi”
differenti orientano lo sguardo sul mondo. L’evoluzione della scienza è un
percorso discontinuo, non cumulativo, in cui fasi di “scienza normale”,
regolata da un “paradigma” (l’aristotelismo nel pensiero medioevale o la
dinamica newtoniana dal Settecento al primo Novecento), vengono rotte da una rivoluzione.
Le teorie sono fra loro incommensurabili: non esiste un terreno solido di
osservazioni neutre a cui ancorare il controllo sperimentale di teorie in
conflitto, dato che il mondo osservato dallo scienziato tolemaico, ad esempio,
non è conciliabile con quello di un copernicano. Una conseguenza inaccettabile
per chi difendeva la razionalità della scienza: Popper si scaglierà contro il
“mito della cornice” (Il Mulino, 1995), contro l’idea che le culture, racchiuse
entro rigidi contorni teorici, non abbiano la possibilità di confrontarsi e
dialogare.
Quel che il
Feyerabend ancora popperiano degli anni Sessanta obietta a Kuhn è di essere
rimasto un teorico della “scienza normale” più che delle rivoluzioni, in
sostanza un conservatore. Lo attesta il progettato dialogo nel ’65 in cui
l’intervento di Kuhn, Dogma contro critica (Cortina, 2000)
doveva essere seguito da quello di Feyerabend (assente per motivi di salute)
dal titolo rovesciato, Critica contro dogma (da quell’incontro
mancato avrebbe avuto origine il convegno collettaneo i cui atti sono in Critica
e crescita della conoscenza, Feltrinelli, 1976). In effetti, per Kuhn il
“necessario preliminare” alla rivoluzione è il dogmatico rispetto delle norme
accolte dalla comunità, l’osservanza rigorosa del paradigma. “Lo scienziato
produttivo, per essere un innovatore […], deve essere un tradizionalista cui
piace giocare complicati giochi seconde regole prestabilite”. La garanzia del
successo delle comunità scientifiche starebbe in tal senso nella resistenza
alle novità, nell’adesione al pensiero convergente; solo grazie a quest’ultimo
il ricercatore può scorgere le anomalie che intaccano il paradigma in cui si è
formato.
Le discontinuità
che spezzano l’apparente linearità del cammino delle scienze sorgono solo sullo
sfondo di una tradizione di ricerca consolidata: per dirla nel lessico della
teoria delle catastrofi di René Thom, è la stabilità strutturale a preparare il
terreno della morfogenesi. L’obiezione di Feyerabend è che solo disponendo di
un nuovo paradigma si rendono avvertibili le anomalie che intaccano quello
antico. Dunque, la cosa migliore è la proliferazione di teorie che possano
mettersi reciprocamente in crisi: “Rivoluzione permanente” diventa lo slogan
trozkista che Feyerabend oppone alla normalità della chiusa cittadella
scientifica.
Popper si era
limitato a contestare l’idea della scienza come episteme, sapere
fondato sulla salda roccia dei fatti oggettivi; è costruita su palafitte, su
congetture che sono frutto dell’inventiva dello scienziato, ardite costruzioni
sempre fallibili. La scienza rientra nell’ambito della doxa, di un
sapere incerto che si muove comunque nello “spazio delle ragioni” consolidato
dal dibattito critico, dalla disponibilità al “dialogo”, dalla sincerità nel
riconoscere il giudizio dei fatti – ed è questo il tratto alla base della
civiltà occidentale. Il percorso senza fine della ricerca resta per Popper un
progresso in cui ci si approssima alla verità per tentativi ed errori,
un’evoluzione darwiniana in cui vengono via via eliminate le teorie inadatte.
Il Feyerabend che prende sempre più distanza da Popper – accusato di non aver
avuto nemmeno un’amante fra le sue studentesse – non si limita a considerare
una favola l’esistenza di un metodo scientifico. Dalla concezione di una
razionalità flessibile, capace di riconoscere i propri limiti (l’opportunismo
dello scienziato di cui Einstein era pronto a vantarsi), Feyerabend giunge al
disconoscimento del valore della scienza, una delle tante forme di pensiero che
l’uomo ha sviluppato, non necessariamente la migliore. Esemplare in tal senso
il caso della medicina affrontato nel Dialogo sul metodo (Laterza,
1989): perché non dovrebbe essere lasciata al cittadino la libertà di scegliere
fra l’invasiva e interventista medicina ufficiale e pratiche dolci come
l’agopuntura? Una società libera è quella in cui tutte le tradizioni godono di
uguali diritti, possono venire insegnate ed entrare in aperta concorrenza, per
poi lasciare che siano gli individui a scegliere la strada che
prediligono.
L’anima
californiana di Feyerabend, docente a Berkeley a partire dal ’68, finiva così
per minare l’autorità della scienza, non più giustificata dal richiamo
galileiano alle sensate esperienze e alle necessarie dimostrazioni. La
posizione eminente che essa svolge nelle società sviluppate non avrebbe
giustificazioni razionali, sarebbe solo il segno della conquista del potere da
parte della “setta” degli scienziati, che hanno sostituito gli antichi
sacerdoti. Il finale di Contro il metodo proclamava
l’obiettivo di “liberare la società dalla presa soffocante di una scienza
ideologicamente fossilizzata, come i nostri antenati ci hanno liberati dalla
presa soffocante dell’Unica Vera Religione”. In La scienza in una
società libera (Feltrinelli, 1978), Feyerabend sosteneva che i
pre-giudizi degli scienziati costituiscono un rischio per la democrazia, in
quanto limitano le possibilità di altre tradizioni culturali (miti, religioni e
credenze condannate perché irrazionali) di esprimersi. Nel volersi custode
esclusiva della verità e unico arbitro delle controversie, la scienza stessa si
fa portatrice di oscurantismo: dall’atteggiamento critico come connotato
proprio alla scienza, Feyerabend passa alla critica della scienza, accusata
proprio di quell’autoritarismo contro cui aveva lottato all’epoca di Galileo.
Seguace di un pensiero liberale che non disdegnava di richiamarsi a John Stuart
Mill, Feyerabend ha annunciato la morte del Dio della scienza; se, ricordava
Popper, per chi ha assaggiato l’albero della scienza non esiste paradiso, la
prospettiva di Feyerabend ci fa precipitare nell’inferno in cui tutto è
possibile e tutto va bene. Non solo verrebbe meno la possibilità di comunicare
fra prospettive diverse, ma, in assenza di criteri “razionali” per distinguere
il vero dal falso, la scelta fra teorie sarebbe affidata solo alla forza dei
gruppi di pressione economica o delle maggioranze politiche del momento. Nel
saggio Addio alla ragione (Armando, 1990), Feyerabend si
schierava in difesa di Bellarmino, il cardinale che aveva invitato Galileo a
parlare del copernicanesimo solo ex suppositione e non come
teoria corrispondente alla realtà (ma era anche il cardinale che aveva condotto
il processo a Giordano Bruno).
Non sorprende
che il pensiero di Feyerabend, pronto a condurre le argomentazioni fino al
paradosso, a schierare la razionalità contro se stessa, abbia subito
l’ostracismo della comunità degli scienziati e degli epistemologi. Negli ultimi
mesi della sua vita Feyerabend rifletteva sul potere totalitario della ragione
che, formando concetti generali, riporta all’identico quel che appare diverso e
disperde sotto l’universale lo specifico e l’irregolare (Conquista
dell’abbondanza, Cortina, 2002; manoscritto ricostruito per volontà della
moglie italiana, Grazia Borrini). “La scienza occidentale ha infettato il mondo
come una malattia contagiosa”, l’astrazione teorica provoca la distruzione
dell’abbondanza, un progressivo (anche nel senso di frutto del progresso)
saccheggio del mondo fisico e mentale, ridotto a una Terra desolata. Lo spirito
polemico di Feyerabend si rivolge all’ideale che sta all’origine del pensiero
dell’Occidente, quell’ideale parmenideo e platonico che, in nome della Verità,
va in cerca di idee perfette e immutabili, della realtà profonda nascosta sotto
il velo dell’apparenza. L’indagine genealogica torna all’origine del miracolo
greco, alla comparsa del logos, quando il presocratico Senofane
sostituisce con un Dio unico l’omerica e variopinta ricchezza delle divinità
olimpiche. È il peccato originale della reductio ad unum che
troverà la sua incarnazione massima nella scienza moderna: il mondo perde la
variegata pluralità di suoni e colori per ridursi nelle gabbie di leggi
quantitative del moto che impongono regolarità e stabilità. Quel trionfo della
Ragione che sarà celebrato dalla Modernità era in realtà l’esito di un percorso
storico singolare, la comparsa di una specifica “forma di vita” (termine
wittgensteiniano) in cui domina l’universale come equivalente generale, analogo
al denaro che sostituisce gli oggetti diversi da barattare. La strategia
logico-argomentativa cancella i saperi incerti delle tecniche artigianali: il
“cuore di tenebra” della missione civilizzatrice dell’Occidente annulla
concezioni traboccanti d’interpretazioni possibili del mondo, in cui
l’esperienza sensoriale manteneva viva una relazione corposa con la
molteplicità degli esseri. Una concezione monolitica, governata dalle
astrazioni fisico-matematiche ed economiche, apre la via al mondo uniformato
dalla globalizzazione che si va “riempiendo di conoscenza, puzza, armi e
monotonia”. Non esiste una sola modalità valida di conoscenza, ce ne sono (ce
n’erano) molte, valide “nel senso che mantenevano la gente viva e rendevano la
sua esistenza comprensibile”. La pretesa dei cultori della Scienza di porsi
come esclusivi e indiscussi portavoce della Realtà non è che l’espressione
tirannica di una tradizione locale che vuole farsi globale.