tratto da Avvenire del 19 giugno 24
Piccoli segnali di grandi cambiamenti nello sport europeo nei confronti di ciò che accade nel mondo e nella relazione che intercorre tra i grandi atleti (o più in generale il calcio) e la politica. È opportuno sottolineare il passaggio che ho riferito allo “sport europeo”, perché nello sport a stelle e strisce, ovvero nel modello nord-americano di costruzione di un atleta, la capacità di esprimersi, di dire come la si pensa sulla politica, sui diritti sociali o su quelli civili è un fatto acquisito. A partire delle storiche ed eroiche prese di posizioni di Muhammad Ali, che resta “The Greatest” (il più grande) non solo sul ring, ma anche nella sua capacità di espressione di un pensiero politico, tanti altri atleti americani di primissimo livello hanno combattuto tanto sul campo di gioco che nella società: basta pensare ai pugni guantati di nero sul podio olimpico di Messico 1968 di Tommie Smith e John Carlos, alle durissime prese di posizione di Kareem Abdul Jabbar, al “kneeling” del giocatore di football americano Colin Kaepernik, ovvero il gesto di inginocchiarsi durante l’inno da lui inaugurato come forma di protesta contro le ingiustizie e le oppressioni subite dalla minoranza nera negli Stati Uniti, alle dichiarazioni sullo stesso tema di un campione di fama planetaria come Lebron James, giusto per fare alcuni esempi. In Europa non è così; non è stato così da molto tempo, per una sorta di cautela, un po’ richiesta e un po’ auto-imposta, come se parlare di politica o diritti sociali e civili fosse sconveniente per la propria carriera. In Europa, nel 2021, per capirci, Zlatan Ibrahimovic in un momento di fulgida notorietà si rivolse proprio a Lebron James, dicendogli, in sostanza: sei un atleta fenomenale, ma non fare l’errore, in virtù del tuo status, di occuparti di politica; pensa a fare bene ciò che stai facendo, pensa a giocare bene a basket. Opinioni, lecite ovviamente, ma opinioni. Il quadro sembra oggi stia cambiando in virtù delle recenti dichiarazioni, molto esplicite, di due grandi protagonisti dell’Europeo di calcio in corso e che, non a caso, vestono la maglia della nazionale francese. Marcus Thuram (figlio, peraltro, di Lilian, calciatore campione del mondo e protagonista per tanti anni del nostro campionato che dopo la carriera sportiva si è dedicato anima e corpo alla tutela dei diritti civili e sociali) ha fatto un esplicito invito al voto o, meglio, al non-voto per il Rassemblement National, il partito di destra francese primo alle Europee, condiviso dal suo compagno di squadra Kylian Mbappé, che si è rivolto in particolare ai giovani. Mbappé, giova ricordarlo, è una superstar da 118 milioni di follower solo su Instagram, praticamente il doppio di tutti gli abitanti della Francia. Per trovare qualcosa di simile, occorre tornare indietro di settantotto anni, quando dalle pagine dei quotidiani, Valentino Mazzola, Guglielmo Gabetto, Ezio Loik ed altre superstar del “Grande Torino” invitavano i loro tifosi a votare per la Repubblica nel referendum del 1946. Forse questo è un crocevia della storia tale che anche la coscienza civica e il pensiero politico (nel senso più alto e nobile del termine) degli sportivi sta finalmente ritrovando spazio. Per una volta, probabilmente, il classico rimprovero “pensa a giocare” non è sufficiente, perché in gioco c’è molto di più.