di Emiliano Ceresi
tratto da Lucy sulla Cultura del 6 settembre 2023
tratto da Lucy sulla Cultura del 6 settembre 2023
Il documentario sulla poeta scomparsa un anno fa è un ritratto intimo e ironico delle passioni, delle contraddizioni, dei ricordi e della malattia di Cavalli.
“Amore mio, ma che è successo? / sarebbe un pezzo di teatro di successo”
Con questo distico si conclude una delle poesie più belle di Patrizia Cavalli: versi che risuonano al principio del documentario, presentato in anteprima all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia, che Annalena Benini e Francesco Piccolo hanno dedicato al racconto dell’ultimo tratto della vita della poeta.
Non stupisce che l’aggettivo teatrale sia il primo che viene in mente a Diane Kelder, accademica inglese e storica amica (e amante) della scrittrice quando le viene chiesto di raccontare il loro primo incontro (“Piacere, Patrizia Cavalli: horses!”). E come definire il modo in cui la poeta racconta di fronte a una platea per lei accorsa che se ha preso a camminare in maniera anchilosata e afflitta è per via delle tasche troppo basse del suo trench?
Con un simile repertorio, ci si chiede osservando la protagonista gesticolare, sgranare gli occhi, sprofondare gradatamente nella poltrona listata d’azzurro da cui ripercorre la sua storia, perché nessun regista abbia pensato prima di metterla in scena.
Una ragione forse c’è ed è tra i pregi di questo documentario: Cavalli, di fatto, si dirige. Lo si intuisce sin dalle prime scene quando la scrittrice, seduta al tavolo, impone agli intervistatori lo stile della loro conversazione: sarà digressiva, in linea con una tempra intermittente o, forse, in spregio di un ordine che non apparteneva del tutto al suo carattere. Ma più ancora quando interrompe uno scambio che per lei sta diventando insopportabilmente cheap.
Del resto Cavalli, come si inferisce dai suoi versi o dalle risate procurate ai suoi spettacoli, era persona di irresistibile autoironia (“ero una delinquente; “ridicolissima”, “cerco di darmi un tono”) talvolta, in queste confessioni con sistematiche diminutio, affiora persino quel dialetto così evitato nelle liriche (“so’ rimbambita”; “ero ‘mbriaca”; “Do’ sta?” detto rivolto a una raccolta di Emily Dickinson).
E, d’altronde, di fronte alla domanda sul perché abbia scritto tutto sommato poco (12 libri, se non ci inganniamo) difficilmente si immagina una risposta più definitiva di questa: “so’ pigra”. L’understatement, si capisce, è quello tipico di chi aveva da tempo inteso che le sue poesie non avrebbero cambiato il mondo, eppure.
A volte a Cavalli bastano poche esclamazioni, quasi da fumetto –lei che prima di scoprire l’Amleto leggeva solo Tex Willer – per definire un intero stato d’animo: “Uffa”; “accidenti; “un disastro” detto stavolta sospirando mentre suona una delle sue canzoni a uno xilifono portatile.
I momenti più
rivelatori sono forse quelli in cui il discorso sulla sua vita si raccorda
attorno alla figura cardine della sua lirica, la tautologia. Se nelle poesie Cavalli poteva scrivere versi
definitivi come: “le stelle se ne stanno dove sono” qui, tornando sui pochi
libri scritti, osserva che dopotutto non serve pubblicare tanto se “scrivi quel
che scrivi”; dal periodo del gioco d’azzardo impara che “più sei sconfitto e
più sei sconfitto”, dalla ripugnanza che “il disgusto è disgusto”; delle sue
prime poesie confessa invece che, pur di piacere a Elsa Morante, arrivò a
ideare “un falso che fosse più falso del vero”.
E questo, in
particolare, ci pare quasi un ambito approdo sapienziale, forse dovuto
all’età, se anche Joan Didion, in Il centro non reggerà,
documentario per molti versi analogo a questo, affermava che “uccidere un
serpente è come avere un serpente.”
Nel ricordo di Cavalli, più che la California, riaffiora però tutta una provincia umbra odiata (in quanto “orribile”) e da cui fuggire il prima possibile: tra i pochi svaghi quello di farsi lasciare a una stazione Agip per scommettere a morra coi camionisti (“li distruggevo”!): un’euforia verso il gioco d’azzardo che torna intatta nel racconto della sua bruciante passione per il poker, tavoli a cui, nonostante le ingenti perdite, si è seduta fino al disgusto: perché l’unico denaro degno di essere posseduto è “quello vinto per sorte o regalato” – mai quello sudato. E poi perché il disgusto è salvifico, persino “più importante dell’amore!”.
“Di fronte alla domanda sul perché abbia scritto tutto sommato poco (12 libri, se non ci inganniamo) difficilmente si immagina una risposta più definitiva di questa: “so’ pigra” .
Quando le domande si fanno generiche (o troppo intrusive) Cavalli non ha remore nel maltrattare chi chiede. Il documentario, alternando immagini del passato più o meno recente, ci mostra come di fatto, nel tempo, lei cambi poco nel verso acuminato come nel carattere spigoloso – il riconoscibilissimo caschetto scintillante durante il periodo del girato si è fatto, intanto, rado, ormai spettinato dalla malattia.
La memoria invece latita più o meno da sempre e tende a disperdere i versi più belli. A un reading la vediamo alle prese con un’amnesia vissuta senza disperare: “Come può essere una fretta? una fretta, una fretta… una fretta…” e poi d’improvviso il ricordo: “una fretta pietosa!”
Da giovane rispondendo con sprezzatura al giornalista che le chiedeva di situarsi tra i poeti contemporanei: “non posso fare una lista!”
Da anziana sull’amore nella sua vita e, dunque, nella sua lirica: “è stato fondamentale, no!?” come a dire “che domande!”
Eppure sorprende osservare come senza mai incappare nelle da lei aborrite definizioni, Cavalli dimostri per l’intera durata del documentario una totale fiducia nella conversazione – un ripetuto atto di fede dichiarato nei confronti di una lingua e dunque nell’esercizio di una scrittura che, secondo lei, possedeva il potere di istituire la realtà. Ancora un’ultima tautologia, o quasi, decisiva: “finché una cosa linguisticamente non è avvenuta non è avvenuta”.
E difatti dell’amica Diane Kelder a darle fastidio, più di tutto, sono gli “automatismi”: cioè a dire le pigrizie del linguaggio; laddove l’aggettivo “letterario”, nel suo personalissimo idioletto, è piuttosto sinonimo di ‘falso’– o, peggio, di ‘orribile’.
Accade così che senza quell’aggettivo venga mai evocato la poeta racconti tra le righe di cosa fosse l’eros omosessuale negli anni ’70, un’epoca in cui amarsi con gelosia ma silenti (“come mi dichiaravo? ma scherzi!”). Lo stesso genere di ritrosia e di sfrenato trasporto che si può ritrovare, e forse non per caso, in certe arbasiniane lettere de L’anonimo lombardo.
Dell’adorata Elsa Morante, che Cavalli in una bellissima poesia tra le sue ultime immaginava con sé in paradiso, ammette senza timidezze: possedeva “il genere di sguardo che avrei voluto si posasse su di me”.
Nel ricordo di Cavalli, più che la California, riaffiora però tutta una provincia umbra odiata (in quanto “orribile”) e da cui fuggire il prima possibile: tra i pochi svaghi quello di farsi lasciare a una stazione Agip per scommettere a morra coi camionisti (“li distruggevo”!): un’euforia verso il gioco d’azzardo che torna intatta nel racconto della sua bruciante passione per il poker, tavoli a cui, nonostante le ingenti perdite, si è seduta fino al disgusto: perché l’unico denaro degno di essere posseduto è “quello vinto per sorte o regalato” – mai quello sudato. E poi perché il disgusto è salvifico, persino “più importante dell’amore!”.
“Di fronte alla domanda sul perché abbia scritto tutto sommato poco (12 libri, se non ci inganniamo) difficilmente si immagina una risposta più definitiva di questa: “so’ pigra” .
Quando le domande si fanno generiche (o troppo intrusive) Cavalli non ha remore nel maltrattare chi chiede. Il documentario, alternando immagini del passato più o meno recente, ci mostra come di fatto, nel tempo, lei cambi poco nel verso acuminato come nel carattere spigoloso – il riconoscibilissimo caschetto scintillante durante il periodo del girato si è fatto, intanto, rado, ormai spettinato dalla malattia.
La memoria invece latita più o meno da sempre e tende a disperdere i versi più belli. A un reading la vediamo alle prese con un’amnesia vissuta senza disperare: “Come può essere una fretta? una fretta, una fretta… una fretta…” e poi d’improvviso il ricordo: “una fretta pietosa!”
Da giovane rispondendo con sprezzatura al giornalista che le chiedeva di situarsi tra i poeti contemporanei: “non posso fare una lista!”
Da anziana sull’amore nella sua vita e, dunque, nella sua lirica: “è stato fondamentale, no!?” come a dire “che domande!”
Eppure sorprende osservare come senza mai incappare nelle da lei aborrite definizioni, Cavalli dimostri per l’intera durata del documentario una totale fiducia nella conversazione – un ripetuto atto di fede dichiarato nei confronti di una lingua e dunque nell’esercizio di una scrittura che, secondo lei, possedeva il potere di istituire la realtà. Ancora un’ultima tautologia, o quasi, decisiva: “finché una cosa linguisticamente non è avvenuta non è avvenuta”.
E difatti dell’amica Diane Kelder a darle fastidio, più di tutto, sono gli “automatismi”: cioè a dire le pigrizie del linguaggio; laddove l’aggettivo “letterario”, nel suo personalissimo idioletto, è piuttosto sinonimo di ‘falso’– o, peggio, di ‘orribile’.
Accade così che senza quell’aggettivo venga mai evocato la poeta racconti tra le righe di cosa fosse l’eros omosessuale negli anni ’70, un’epoca in cui amarsi con gelosia ma silenti (“come mi dichiaravo? ma scherzi!”). Lo stesso genere di ritrosia e di sfrenato trasporto che si può ritrovare, e forse non per caso, in certe arbasiniane lettere de L’anonimo lombardo.
Dell’adorata Elsa Morante, che Cavalli in una bellissima poesia tra le sue ultime immaginava con sé in paradiso, ammette senza timidezze: possedeva “il genere di sguardo che avrei voluto si posasse su di me”.
Tramite il loro
avvicinamento rimandato a più riprese, ci si affaccia così su un’epoca remota
in cui le poesie potevano rivelarsi fatali per il prosieguo di un’amicizia
(“voglio vedere come sei fatta!”). E altro si sarebbe voluto sapere di quegli
appuntamenti, come della famiglia della scrittrice che, con misterioso riserbo,
viene tenuta fuori dal racconto.
Colpisce allora vedere Cavalli nelle ultime sequenze rallegrarsi alla visione di ragazzini che la camera ci preclude lasciandoci allo sguardo incredulo della poeta, gli stessi che Morante immaginava a salvare il mondo, e che distraggono invece Cavalli dalle puzze e dall’afa umida, davvero insoffribile per la sua meteoropatia, della capitale.
Del resto la sua era una lirica fatta di odori, cappelli, farmaci, divani sfatti, tavole da sparecchiare: il crepuscolarismo proprio di chi percepisce la poesia sorgere dal “cuore” per poi convergere, più prosaicamente, “tra la bocca e il naso”.
Colpisce allora vedere Cavalli nelle ultime sequenze rallegrarsi alla visione di ragazzini che la camera ci preclude lasciandoci allo sguardo incredulo della poeta, gli stessi che Morante immaginava a salvare il mondo, e che distraggono invece Cavalli dalle puzze e dall’afa umida, davvero insoffribile per la sua meteoropatia, della capitale.
Del resto la sua era una lirica fatta di odori, cappelli, farmaci, divani sfatti, tavole da sparecchiare: il crepuscolarismo proprio di chi percepisce la poesia sorgere dal “cuore” per poi convergere, più prosaicamente, “tra la bocca e il naso”.
I movimenti di
macchina sono minimali e seguono la protagonista procedere incerta nelle stanze
della sua abitazione: negli ultimi giorni l’obiettivo si avvicina di poco, sul
dorso della poltrona, mentre il malessere si fa via via più rapido, frigido
(“saranno due anni che non verso lacrime”).
Naturale allora
che più volte nel corso del racconto lo slancio del ricordo (“è
interessantissimo capire come succede”), si presti alla ricaduta malinconica
che Cavalli scaccia ridisegnando le sopracciglia, ricordando di quella volta in
cui per gelosia recise i capelli alla compagna, cantando perlopiù.
Non sempre però
basta: nella seconda parte del film, scoraggiata da una “stupida malattia” e
dalla difficoltà nel passeggiare tra i sampietrini di Roma (ossia le strade al
di sotto di una bella casa che si intuisce tra Piazza Navona e Campo dei
fiori), afferma di avere avuto una “vita orribile”: ed è inevitabile, per chi
l’ha letta, che il pensiero vada a La vita meravigliosa, titolo
della sua ultima raccolta.
“Del resto la
sua era una lirica fatta di odori, cappelli, farmaci, divani sfatti, tavole da
sparecchiare”.
Gianluigi
Simonetti scrivendone aveva
notato con acutezza esserci in quel titolo una certa “dose di ironia” visto che
in quei versi vi era “più solitudine che mai, più oblìo, più senso di
morte” che nelle sillogi precedenti.
Nell’opera di
Cavalli questi sentimenti ambivalenti, trasfigurati in sguardi, hanno del resto
sempre coinciso – e il documentario ha il merito di tenerli insieme: quello
buio rasente il suolo a “perlustrare il fetido selciato / orribile di Roma a
valli e a dossi […] quei sanpietrini ormai sempre sconnessi / in tante larghe
tenebre, reticoli / dove ogni cosa sembra che precipiti” e quello che, come il
titolo di una sua raccolta (Il cielo), punta invece verso l’alto:
“guardando il cielo, girando gli occhi/intorno, in questi istanti incerti / io
sono certamente un’immortale”.
Emiliano Ceresi è ricercatore universitario, editor e autore di Lucy.