Dopo le elezioni americane del
5 novembre 2024 quali scenari politici,
economici, ecologici ci aspettano? Speriamo non quelle narrati da Philip K.
Dick nel romanzo “Ma gli androidi sognano pecore elettriche” e ripresi (con
molte variazioni) dal regista Ridley Scott nel film Blade Runner, che a tale romanzo si ispira.
(NdR)
(NdR)
Blade Runner, "Ho visto
cose che voi umani..."
Nel film di Ridley Scott con Harrison Ford cacciatore di androidi uno dei più famosi monologhi del cinema.
di Flavia Caprara
tratto da “La Stampa” del 29 Luglio 2012
Nel film di Ridley Scott con Harrison Ford cacciatore di androidi uno dei più famosi monologhi del cinema.
di Flavia Caprara
tratto da “La Stampa” del 29 Luglio 2012
Era il 2019 e la pioggia acida avvolgeva le strade
di Los Angeles in un velo opaco di malinconia frenetica. La gente di mille,
diverse razze, si affannava nel traffico, tra vicoli fumosi e venditori
ambulanti. Nessuno sapeva ancora dell’ultima minaccia, quella per cui l’agente
Rick Deckard era stato frettolosamente convocato: «Non cercano killer nelle
inserzioni sui giornali - dice Harrison Ford che lo interpreta -. Quella era la
mia professione. Expoliziotto, ex-cacciatore di replicanti, ex-killer». E
quella è la nuova missione per cui è stato chiamato, bloccare la marcia di un
gruppo di replicanti, macchine virtualmente umane, dotate di forza e di
intelligenza, destinate a restare sul pianeta Terra non più di 4 anni e ora
decise, in nome della perfezione che le caratterizza, a invocare il diritto
alla sopravvivenza.
Tra loro c’è Rachel (Sean Young), magnifico androide di ultima generazione, capace di coltivare ricordi e forse all’oscuro della propria natura. Dentro l’indecifrabile dolcezza del suo sguardo, Deckard, che è un poliziotto alla Hammett o alla Chandler, stanco, dubbioso, disilluso (in un primo tempo, per il ruolo, si era pensato a Dustin Hoffman), scoprirà la capacità di amare insieme a quella di interrogarsi sulla natura umana.
Al cinema, da quel momento, la fantascienza non sarà più la stessa. La minaccia degli alieni, dei mostri, e di tutto quello che è diverso da noi, si colorerà di interrogativi filosofici, acquisterà significati metaforici. Dentro Blade Runner (traduzione letterale «scorridore della lama»), ispirato al romanzo di Philip Dick Il cacciatore di androidi e diretto da Ridley Scott, c’è quello che oggi è sotto i nostri occhi. Dalla mutazione climatica alla società multietnica, dalla crisi economica ai problemi dello smaltimento rifiuti, dalla cementificazione dei centri urbani al contrasto crescente tra cancellazione delle distanze e sostanziale solitudine delle anime. Tutto senza ricorrere a nessun sottotesto didascalico, solo con la potenza di immagini evocative come le enormi pubblicità luminose che citano il quartiere di Shibuya, nel cuore di Tokyo, o come i tailleur squadrati di Rachel, «dark lady» avveniristica, un po’ fiamma del peccato, un po’ robot in cerca di domani.
E poi, naturalmente, grazie ai protagonisti dell’avventura, la temibile Zhora (Johanna Cassidy), la fascinosa Pris (Daryl Hannah che dice «io penso, quindi sono»), e soprattutto Batty, il combattente invincibile Rutger Hauer, che, in punto di morte, sul cornicione di un grattacielo, dopo aver salvato la vita del nemico Rick, pronuncia uno dei più celebri monologhi della storia del cinema: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione...» Sono le parole che mettono in crisi il cacciatore di taglie convincendolo a tornare da Rachel, la «summa» dei tanti perché disseminati nel tessuto della vicenda. In fondo, semplicemente, la riflessione sul confine tra uomo e macchina. Nel tempo sono diventate una litania sfruttata, la frase fatta di chi vuol dire che ne ha viste tante. Il successo, si sa, aiuta a banalizzare.
Le musiche di Vangelis, la fotografia di Jordan Cronenweth, i costumi di Michael Kaplan sono gli altri personaggi di un’opera nata tra difficoltà grandi, piccole, e anche curiose: « Bladerunner è un film noir di fantascienza - ha raccontato Kaplan -, la sceneggiatura faceva pensare a Humphrey Bogart e a Sam Spade, per questo quando abbiamo iniziato a immaginare i costumi di Deckard, ci è sembrato logico mettergli un cappello in testa». Ma Harrison Ford non ne voleva sapere. Motivo? «Aveva indossato il cappello per sei mesi sul set dei Predatori dell’arca perduta , non ne poteva più». Accolto all’inizio tiepidamente dalla critica e dal pubblico, Blade Runner possiede il suo corredo di leggende e di polemiche, come tutti i capolavori che si rispettano. La più scottante riguarda il «final cut», ovvero la versione della storia voluta dall’autore, più lunga, e diversa da quella scelta e montata in fretta per la prima uscita nelle sale. Nel 2000, Ridley Scott ha ripreso a lavorare alla vecchia stesura e, nel 2007, in occasione della (ri)-presentazione alla Mostra di Venezia, ha dichiarato che Blade Runner: The final cut è la sua versione definitiva del film. Il cambiamento più significativo riguarda la sequenza in cui si insinua il sospetto che non solo Rachel, ma anche Deckard provengano in realtà dalla stessa fabbrica di replicanti. Per i fan più romantici, un vero tradimento. Perché nelle parole della voce fuori campo che accompagna le immagini di lui e lei in volo su un paesaggio montuoso c’è il senso dell’amore minacciato dalla fine sempre possibile: «Rachel era speciale. Non aveva data di termine. Non sapevo quanto saremmo stati insieme. Ma chi lo sa?».
Da tempo si parla di un Blade Runner 2 e, nei mesi scorsi, mentre si preparava a invadere gli schermi del mondo con Prometheus , Ridley Scott ha confermato il progetto. Ma Harrison Ford non è un replicante, ha appena compiuto 70 anni, e il suo fascino stropicciato da uomo che pensa e che agisce non basta a garantirgli nuovamente il ruolo del protagonista: «Non credo che Harry sarà la star del film ha fatto sapere Scott -, però vorrei averlo in qualche altro ruolo, potrebbe essere divertente». O anche triste, vedremo. Per noi umani, purtroppo, il tempo passa, e neanche la fantascienza ha inventato il modo per fermarlo.
Tra loro c’è Rachel (Sean Young), magnifico androide di ultima generazione, capace di coltivare ricordi e forse all’oscuro della propria natura. Dentro l’indecifrabile dolcezza del suo sguardo, Deckard, che è un poliziotto alla Hammett o alla Chandler, stanco, dubbioso, disilluso (in un primo tempo, per il ruolo, si era pensato a Dustin Hoffman), scoprirà la capacità di amare insieme a quella di interrogarsi sulla natura umana.
Al cinema, da quel momento, la fantascienza non sarà più la stessa. La minaccia degli alieni, dei mostri, e di tutto quello che è diverso da noi, si colorerà di interrogativi filosofici, acquisterà significati metaforici. Dentro Blade Runner (traduzione letterale «scorridore della lama»), ispirato al romanzo di Philip Dick Il cacciatore di androidi e diretto da Ridley Scott, c’è quello che oggi è sotto i nostri occhi. Dalla mutazione climatica alla società multietnica, dalla crisi economica ai problemi dello smaltimento rifiuti, dalla cementificazione dei centri urbani al contrasto crescente tra cancellazione delle distanze e sostanziale solitudine delle anime. Tutto senza ricorrere a nessun sottotesto didascalico, solo con la potenza di immagini evocative come le enormi pubblicità luminose che citano il quartiere di Shibuya, nel cuore di Tokyo, o come i tailleur squadrati di Rachel, «dark lady» avveniristica, un po’ fiamma del peccato, un po’ robot in cerca di domani.
E poi, naturalmente, grazie ai protagonisti dell’avventura, la temibile Zhora (Johanna Cassidy), la fascinosa Pris (Daryl Hannah che dice «io penso, quindi sono»), e soprattutto Batty, il combattente invincibile Rutger Hauer, che, in punto di morte, sul cornicione di un grattacielo, dopo aver salvato la vita del nemico Rick, pronuncia uno dei più celebri monologhi della storia del cinema: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione...» Sono le parole che mettono in crisi il cacciatore di taglie convincendolo a tornare da Rachel, la «summa» dei tanti perché disseminati nel tessuto della vicenda. In fondo, semplicemente, la riflessione sul confine tra uomo e macchina. Nel tempo sono diventate una litania sfruttata, la frase fatta di chi vuol dire che ne ha viste tante. Il successo, si sa, aiuta a banalizzare.
Le musiche di Vangelis, la fotografia di Jordan Cronenweth, i costumi di Michael Kaplan sono gli altri personaggi di un’opera nata tra difficoltà grandi, piccole, e anche curiose: « Bladerunner è un film noir di fantascienza - ha raccontato Kaplan -, la sceneggiatura faceva pensare a Humphrey Bogart e a Sam Spade, per questo quando abbiamo iniziato a immaginare i costumi di Deckard, ci è sembrato logico mettergli un cappello in testa». Ma Harrison Ford non ne voleva sapere. Motivo? «Aveva indossato il cappello per sei mesi sul set dei Predatori dell’arca perduta , non ne poteva più». Accolto all’inizio tiepidamente dalla critica e dal pubblico, Blade Runner possiede il suo corredo di leggende e di polemiche, come tutti i capolavori che si rispettano. La più scottante riguarda il «final cut», ovvero la versione della storia voluta dall’autore, più lunga, e diversa da quella scelta e montata in fretta per la prima uscita nelle sale. Nel 2000, Ridley Scott ha ripreso a lavorare alla vecchia stesura e, nel 2007, in occasione della (ri)-presentazione alla Mostra di Venezia, ha dichiarato che Blade Runner: The final cut è la sua versione definitiva del film. Il cambiamento più significativo riguarda la sequenza in cui si insinua il sospetto che non solo Rachel, ma anche Deckard provengano in realtà dalla stessa fabbrica di replicanti. Per i fan più romantici, un vero tradimento. Perché nelle parole della voce fuori campo che accompagna le immagini di lui e lei in volo su un paesaggio montuoso c’è il senso dell’amore minacciato dalla fine sempre possibile: «Rachel era speciale. Non aveva data di termine. Non sapevo quanto saremmo stati insieme. Ma chi lo sa?».
Da tempo si parla di un Blade Runner 2 e, nei mesi scorsi, mentre si preparava a invadere gli schermi del mondo con Prometheus , Ridley Scott ha confermato il progetto. Ma Harrison Ford non è un replicante, ha appena compiuto 70 anni, e il suo fascino stropicciato da uomo che pensa e che agisce non basta a garantirgli nuovamente il ruolo del protagonista: «Non credo che Harry sarà la star del film ha fatto sapere Scott -, però vorrei averlo in qualche altro ruolo, potrebbe essere divertente». O anche triste, vedremo. Per noi umani, purtroppo, il tempo passa, e neanche la fantascienza ha inventato il modo per fermarlo.