Siamo stati alla
festa popolare organizzata a Calitri dal cantautore in cui si «sospende il
tempo dell’utile e si celebra la cuccagna senza opulenza», per la prima volta
in edizione invernale. Un’uscita d’emergenza dai post cenoni, una safe zone da
indigestioni famigliari, tre notti memorabili di musica. Il quarto Re Magio ha
sponzato anche l’inverno.
Di Jacopo Taddia
Tratto da Rolling Stones del 7 Gennaio 2025
«È meglio di Goran Bregović».
Mi giro. Il mio compagno di quadriglia lo riconosco. È il direttore artistico di questa festa, Vinicio Capossela, colui che – letteralmente – ha messo in piedi tutto ‘sto circo. Lancio lo sguardo al di là del cerchio, Mimmo dice uno. Tutti sanno cosa devono fare, parte l’assalto al tendone.
«Siete qui per lo Sponz?».
«Sì».
Lo Sponz Fest è la festa che Vinicio Capossela organizza da 12 anni (con una pausa proprio la scorsa estate per mancanza di fondi) a Calitri. Figliol prodigo di queste terre, Vinicio, da Hannover, poi Scandiano, si riconcilia con le sue origini portando il suo strampalato seguito nel paese scenografia della sua mitologia famigliare, una volta all’anno, allestendo un evento unico in Italia. E forse non solo. Lo Sponz Fest – dal dialetto locale sponzare – ovvero imbevere, inzuppare, ammollare, quindi lasciarsi andare, sciogliersi, “rendersi fradici come una spugna”. L’espressione del “ricreo massimo”, tipica degli “accampanti”, ovvero coloro che si intrufolavano nei grandi matrimoni paesani senza essere stati invitati, per unirsi a festeggiamenti e balli, e ritrovarsi a fine giornata tutti sponzati, come baccalà.
Quest’anno lo spirito dello Sponz, sino al 2023 sempre esploso nelle serate di tarda estate, si intreccia con un altro marchio del funambolico cantautore irpino-emiliano: il “periodo di euforia sentimentale” delle feste. Capossela è un cultore dal Natale, e non è una novità. Da più di 20 anni lo celebra tutti i 25 e 26 dicembre al Fuori Orario di Reggio Emilia, con uno scatenato concerto-cabaret burlesque, una sorta di uscita d’emergenza dai post-cenoni, una safe zone da indigestioni alimentari e famigliari. Ha scritto una favola di Natale sui Cerini di Santo Nicola, ha letto e musicato il Canto di Natale di Charles Dickens, ha fatto un podcast sulle feste, un film sul Natale, ha organizzato concerti natalizi per i senzatetto di Piazza Duca D’Aosta, di fronte alla stazione centrale di Milano. Ad ottobre ha fatto uscire un disco per le feste, Sciusten feste n.1965, che è un po’ la sintesi massima del suo intenso rapporto con le festività.
Fatta la playlist, serviva l’occasione per farla suonare, ed ecco allestita in un baleno la prima edizione dello Sponz Viern, versione invernale delle sponzate estive. Dal sole cocente del far west irpino, ai falò per tenersi caldo. Da Per un pugno di dollari a The Hateful Eight. Dai matrimoni bagordi sul Danubio di Gatto nero gatto bianco di Kusturica, alle scorribande notturne sotto la neve nel Capodanno del ’47 di Dean Moriarty, Sal Paradise e gli altri pseudonimi da Beat Generation nelle cantine di New York, sudando e strabuzzando gli occhi di fronte a George Shearing alla ricerca di “quella cosa”.
Il tendone aspetta il pubblico. Foto: Luigi Zannato
Corso di orientamento a Calitri. Foto: Barbara Pasquariello
Foto: Mono Foundation
Per l’occasione,
il direttore artistico Capossela ha radunato la sua personalissima famiglia,
per tre giorni di celebrazioni in attesa della dodicesima notte – quella
dell’Epifania, che chiude i 12 giorni di feste comandate. Lo Sponz Fest è la
più bizzarra tavolata della vigilia di Natale che si possa immaginare. Ci sono
tutti. C’è il mago Christopher Wonder, lo zio acquisito d’America che viene
ogni anno con un animale domestico diverso e a notte inoltrata sai già che
canterà – stonato – Fairytale of New York. C’è Peppe Leone (Magic
Tambourine), che è lo zio di tua madre che passa giusto per una grappa a fine
pasto, perché ci teneva a fare una cena della vigilia intima da solo, con il
suo tamburello – gliel’aveva promesso. C’è Nadia Addis (circense), la cugina di
qualche anno più grande di te che ti è sempre piaciuta e la osservi arrossendo
mentre fa le marionette per i nipoti più piccoli. C’è Andrea Tartaglia
(cantante), il ragazzo bono di tua cugina che tra i secondi e il dessert prende
la chitarra e inizia a suonare Happy Xmas, a tuo discapito,
divinamente. Poi ci sono i Patagarri (band), i cugini piccoli, quelli che ti
stanno simpaticissimi fintanto che non ti battono al torneo di biliardino di
Natale, e qualche mese dopo il nonno decide di regalare a loro la macchina, e
non a te. Ci sono le Sorelle Marinetti (trio a cappella) – o meglio, ci
dovrebbero essere –, le zie zitelle che puntualmente danno buca all’ultimo
perché non se la sentono di dover ulteriormente giustificare il loro nubilato.
C’è Vincenzo Costantino Cinaski (pusher di poesie), lo zio di tuo padre che al
terzo bicchiere di vino, o inizia a declamare versi, o ad asserire con vemenza
che Giacomo Leopardi è come Gigi d’Alessio. E, tendenzialmente, prima degli
auguri di mezzanotte ti ha convinto.
Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è, la tavola è apparecchiata, inizia l’abbuffata. Si entra nel centro storico di Calitri.
C’è un clown nel vicolo. Ride a fatica. Deve fare uno spettacolo, vuole farlo: è la sua grande occasione. Ma lui è timido, e tu lo incoraggi. Si presenta: si chiama Boris, viene dalla Bulgaria, e ti racconta una storia sugli specchi, o forse sulle bugie degli specchi, sicuramente su una donna che si credeva brutta. La ascolti, e poi ci ripenserai. Giri l’angolo, e c’è una grotta. Nella grotta un mago. Un mago con cappello e un cane piccolissimo. Lo chiama Little Prince. Giordano Bruno per gli amici. Sulla guancia, una goccia. Sulla gota, una lancia. A terra il cappello, straccio sporco senza mancia. Sogghigna con accento straniero, estrae sigarette dalle orecchie e petardi dal mantello. Ogni tanto spara in aria e lancia coriandoli. Alle sue spalle, due ombre scure. Indossano un lungo tabarro e parlano piemontese. Intonano cori di chiesa e di casa, mentre affettano salami e bevono Nebbiolo. Esci stordito, cambi spazio e ti dirigi verso la grotta più a Sud. C’è silenzio, un poeta seduto al tavolo. Non ride. Scrive poesie per chi si vuole confidare. Enuncia versi per chi vuole essergli complice.
Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è, la tavola è apparecchiata, inizia l’abbuffata. Si entra nel centro storico di Calitri.
C’è un clown nel vicolo. Ride a fatica. Deve fare uno spettacolo, vuole farlo: è la sua grande occasione. Ma lui è timido, e tu lo incoraggi. Si presenta: si chiama Boris, viene dalla Bulgaria, e ti racconta una storia sugli specchi, o forse sulle bugie degli specchi, sicuramente su una donna che si credeva brutta. La ascolti, e poi ci ripenserai. Giri l’angolo, e c’è una grotta. Nella grotta un mago. Un mago con cappello e un cane piccolissimo. Lo chiama Little Prince. Giordano Bruno per gli amici. Sulla guancia, una goccia. Sulla gota, una lancia. A terra il cappello, straccio sporco senza mancia. Sogghigna con accento straniero, estrae sigarette dalle orecchie e petardi dal mantello. Ogni tanto spara in aria e lancia coriandoli. Alle sue spalle, due ombre scure. Indossano un lungo tabarro e parlano piemontese. Intonano cori di chiesa e di casa, mentre affettano salami e bevono Nebbiolo. Esci stordito, cambi spazio e ti dirigi verso la grotta più a Sud. C’è silenzio, un poeta seduto al tavolo. Non ride. Scrive poesie per chi si vuole confidare. Enuncia versi per chi vuole essergli complice.
Può capitare, a
volte, mentre il poeta canta, il mago ammalia, il clown stupisce, il cane
piccolissimo abbaia, che un figuro entri in scena, con fare disinvolto. Battuta
pronta e postura d’ombra. Si siede al piano, batte mani su spalle e rincarando
la dose rincuora la voce. Vinicio, il quarto Re Magio, appare a piacimento tra
le statuine del suo paese presepe, e ci ricorda che non siamo ne La
strada di Fellini o nel circo di Big Fish di Tim
Burton, ma semplicemente allo Sponz Viern, in cui si «sospende il tempo
dell’utile, e si celebra la cuccagna senza opulenza». Il direttore artistico si
è sognato un treno – espressione calitrana per indicare il mettersi in testa
qualcosa di irrealizzabile – e ha sponzato anche l’inverno, per un
ammutinamento collettivo delle feste comandate. Brutalizzando il dialetto,
tanto per capirci: si è sognato il Polar Express.
Al disperato
erotico Sponz non sai se stupirti maggiormente dell’incredibile eterogeneità
degli artisti sui palchi e degli eventi in programma, o di quella del pubblico.
Vinicio riesce ad alternare sul palco Tonino Carotone, Vincenzo Vasi, mostro
sacro del theremin, che ha collaborato – tra gli altri – con John Zorn e Chris
Cutler, le star localissime de A Cunv’rsazion, che in scaletta hanno solo canti
popolari calitrani, la Rekkiabilly Swing Punk Orchestra, le tarantelle di
Tonuccio Corona & Pink Folk, le commistioni folk dei Makardìa,
l’apparizione del «miglior tenore del mondo» Ciccillo di Benedetto, che per
nove anni ha fatto il manovale a New York, e nelle pause pranzo i colleghi gli
chiedevano di cantare, mentre si lavorava alle fondamenta delle Torri Gemelle.
E prima dei concerti, incastonati nel centro storico di Calitri, dispute
filosofiche, proiezioni di film di Charlie Chaplin e Stanlio e Ollio,
spettacoli teatrali, laboratori di giocoleria, presepi parlanti e presentazioni
di libri.
Tre notti di
musica memorabili, per un pubblico altrettanto non catalogabile: i fedelissimi
arrivati con i bus, quelli scesi in macchina dalla Lombardia, una comitiva
belga, i bambini che tra una canzone e l’altra escono nel gelido piazzale a
giocare a calcio, i locali che vengono a ballare la quadriglia, i fan di X
Factor per una foto con i Patagarri, le nonne che vengono a sentire il
nipote che suona (o il marito), i paesani che vengono a vedere che sta
succedendo in quel tendone che è sbucato dal nulla con l’anno nuovo, i ragazzi
dei paesi limitrofi, che magari non sapevano che fare ed entrano in pista, dove
proprio in quel momento c’è silenzio assoluto con Vinicio che legge un brano
di Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, per il
cinquantesimo anniversario della morte dell’autore.
Una carovana – o
meglio, una slitta – strampalata, che anche senza coordinate sta in piedi, e
tutti vi sono parte e contribuiscono a farla filare dritta (vino permettendo).
Dritta fino a Piazzale Giolitti, sotto le stelle e la luna crescente, per il
rogo della befana. Dal tendone al falò, per un nuovo ritrovo. Le zampogne, i
cacicavalli che escono da garage bui, il Mago Wonder che spara fuochi
d’artificio come bengala e ride, le tammorre e i tamburelli che scandiscono il
rito, e le voci che cantando scaldano. La Befana brucia altissima nella
dodicesima notte.
Immerso in un
folto gruppo di musicanti Vinicio mi vede e si avvicina. Fissa stralunato il
falò, non ci può credere che sia venuto così bene, guarda le scintille che
salgono e volano via, mentre le fondamenta sono marmo rovente. Impacciato, mi
complimento per il concerto e per l’impeccabile esito di tutto il programma del
festival. Lui ha sguardo sognante, di chi sta vedendo qualcosa che si
immaginava da tanto, ed è finalmente lì, davanti a lui. Ed è anche meglio.
Sembra guardare – dietro a quelle faville – il suo tendone che ha spiccato il
volo.
«Guarda il
fuoco, è altissimo. Guarda quanto è bello. Qui non c’è nulla da programma, qui
c’è solo un miracolo».
In preparazione
a questo reportage avevo letto una vecchia intervista natalizia a Vinicio, del
2001. Gli venivano chiesti i progetti per il futuro, una sorta di lista di
propositi per il nuovo anno. O, se vogliamo, una lettera per Babbo Natale.
Diceva di voler imparare a suonare il ballo costaricano tico tico, di voler
registrare un disco di canzoni per le feste, di voler tenere qualche concerto
sotto Natale, e poi – fatte queste cose – di voler sparire. Nel pieno della
notte, quando improvvisamente nessuno riusciva a dirmi dov’era finito, questa
nefasta intervista è riapparsa nella mia memoria. Qualcuno sosteneva di averlo
visto salire su un’automobile, altri l’avevano visto sparire con un amico, un
tale giurava di averlo visto addentrarsi nel bosco, da solo.
Preso dal
panico, ho iniziato a domandare a chiunque mi si parasse davanti se il Maestro
avesse, in questo quarto di secolo, effettivamente imparato a suonare il tico
tico, e fossi sciagurato e impotente testimone di un’uscita di scena alla Bilbo
Baggins. Nessuno sapeva dirmi nulla a riguardo, e ignari della fatale profezia
di Lombardia Oggi di inizio millennio ridevano di me, che
indagavo le passioni musicali centro-americane del maestro alle 4 di notte. Ma
non potevo farne a meno, non avrei chiuso occhio. Le parole di Santo Nicola,
declamate dallo stesso Vinicio qualche ora prima dal palco, non facevano altro
che alimentare inesorabilmente questa funesta sensazione.
Fare attenzione a quel che si desidera che poi magari è capace che si avvera.
La mattina
seguente Vinicio era alla Chiesa dell’Immacolata, alle 10 in punto, presente e
di ottimo umore, per la Pastorale dell’Epifania. Non era fuggito, né tanto meno
svanito. Non era caduto nel bosco. Probabilmente, era semplicemente andato a
dormire.
Sicuramente, non è ancora diventato un virtuoso del tico tico.
Sarà per il prossimo Natale.
Fare attenzione a quel che si desidera che poi magari è capace che si avvera.
Sicuramente, non è ancora diventato un virtuoso del tico tico.
Sarà per il prossimo Natale.