Confesso: la mia
vocazione a indagare, raccontare, esplorare la memoria dei luoghi origina nel
profondo – oltre la superficie degli studi, dell’impegno a riportarla in vita,
dei pensieri – nasce anche dalla lettura smaniosa che ho fatto in un passato
lontano dei libri di Marguerite Yourcenar: in quegli snodi in cui storie di
famiglia e luoghi sembrano quasi indistinti. Penso alle pagine degli Archivi
del Nord uscito per Einaudi nel 1982 (che il recentissimo libro Nord
Nord di Marco Belpoliti, stesso editore, mi ha richiamato alla mente).
E alle sue notazioni intorno agli antenati delle Fiandre, i Cleenewerck (poi
Crayencourt) quando sostiene che non le interessa tanto la storia della sua
famiglia quanto “l’insieme di persone vissute negli stessi luoghi durante le
stesse epoche”.
Cleenewerck,
l’antenato lontano, un piccolo personaggio, comparso all’inizio del XVI secolo,
da cui la Yourcenar discende in tredicesima linea: minuscolo ai suoi occhi,
simile alle figure che pittori come Bosch e Brueghel collocavano in strada,
sullo sfondo dei loro dipinti “per servire da scala ai paesaggi”. Antenati, in
gran parte sconosciuti, incapaci di offrire altro interesse che la poesia
sonora dei nomi fiamminghi punteggiati qua e là di nomi francesi: “Enumerandoli
– precisa – ho l’impressione di passare la mano sui piani, le cavità e i
rilievi di una provincia che cambiò spesso padrone ma dove la stabilità dei
gruppi umani, almeno fino allo sconquasso delle due grandi guerre del secolo,
lascia stupefatto uno spettatore del 1977”.
Immagini potenti
– uomini e donne parte quasi fisica di un territorio, dei suoi piani, delle
cavità e dei rilievi – che risalgono alla sensibilità dello stesso amato padre
Michel. È lui a riconoscere influenze familiari legate da tempo immemorabile ai
luoghi, ai suoi luoghi: il Mont-Noir votato alla discordia e agli odi
familiari; Fées, al contrario regno della dea Venere… Uomini e natura, come
quei celti antichissimi che, secondo la leggenda, hanno marciato in armi,
durante una delle prime puntate sulle coste basse del mare del Nord, contro le
grandi maree che minacciavano i loro accampamenti. Quei popoli dal cuore
generoso che nei libri di scuola della Yourcenar sembravano non temere nulla se
non che il cielo cadesse. Più disperati di loro – conclude – ci siamo abituati
dopo il 1945, ad aspettarci di vederlo proprio cadere il cielo.
Poi c’è il Nord
Nord (ma relativamente meno Nord) di Marco Belpoliti: anzitutto ci aiuta a
capire, e forse è già evidente in questo gioco di Nord, che nella sua
relatività il Nord in realtà non esiste. Come affondare allora nella memoria di
questo Nord che è un equivoco ma che ci parla comunque di memorie conservate,
spesso, fra le sue pietre? Tra i suoi antichi ghiacciai, da cui prendono
l’avvio, non a caso, le prime pagine del libro. Lì nella lingua quasi terminale
di un grandissimo ghiacciaio che si estendeva dalla Valtellina fino alla
Brianza: colate di ghiaccio e neve che serravano sotto di sé quelle valli ora
invase dal lago di Lecco e di Como e dal fiume Adda. Natura in origine
glaciale, scistosa – come suggerisce – filtrata nello stesso carattere di quei
Lombardi: quasi evocando, su altri piani caratteriali, la litigiosità per così
dire “di luogo” degli abitanti del Mont-Noir o il sentimentalismo di quelli di
Fées…
Mi ha colpito
nel libro Nord Nord il bisogno quasi archeologico, “etico” di
fare memoria di un Nord progressivamente “fragile”, divorato, più di altre aree
della Penisola, dal paesaggio scomposto e disordinato dei capannoni industriali
e dalla cementificazione. Una sensibilità “ecomemore” presente anche nella
Yourcenar fin dagli anni Settanta quando, soprattutto in Care Memorie (che
rileggo negli Oscar Mondadori 1999) ricorda nei dintorni del castello di
Flémalle in Belgio, un tempo proprietà della sua famiglia “la fine della terra,
uccisa dall’industria come per effetto di una guerra di logoramento, la morte
dell’acqua e dell’aria”. Ma nel Nord Nord di Marco Belpoliti,
risalente al Duemila avanzato, c’è un Nord padano con un futuro drammatico,
forse da ricordare perché potrebbe tornare ad essere di nuovo sommerso dalle
acque come lo era in origine “il Golfo pliocenico padano” con poche contigue
propaggini montuose. Il Nord che ridiventa un mare, avvicinandosi ad altri già
noti Mari del Nord in un rimescolio di materia e acque che rimettono in gioco,
nelle voragini delle trasformazioni del pianeta, tutti i nostri Nord, tutti i
nostri “ieri”….
Almeno per ora c’è ancora un Nord nel Nord, e non sembra destinato, in base alla cartina riprodotta nel libro di Belpoliti, ad essere sommerso dalla acque: penso al mio Nord (non l’avevo mai fatto in questa forma prima di leggere il suo libro) dato che sono nata a Ivrea, Nord di Torino e di cui ho un ricordo geometrico (autotopografico direbbe Mario Barenghi): un mix di linee razionaliste proprie dell’architettura olivettiana con quelle scolpite nella natura circostante. Ho in memoria i parallelepipedi degli stabilimenti Olivetti in metallo e vetro, e insieme, le abitazioni bianche, basse allungate (secondo la tipologia dettata dagli architetti Figini e Pollini) coi tetti piani (tra cui la mia); in parallelo con la linea, pure quella retta, del corso del fiume Dora Baltea che osservavo da casa, e, ancor più, con il tracciato orizzontale delle colline moreniche (lascito di ghiacciai in ritiro, come quelli valtellinesi-brianzoli a fare da sfondo). Luoghi che riflettono un senso del Nuovo sperimentandolo però, per così dire, dall’interno del paesaggio naturale. Quel paesaggio orizzontale non sfidava l’ambiente circostante, piuttosto lo assecondava. Ma quel mondo Nuovo, proprio perché Nuovo, lo si poteva ricordare mi chiedevo?
Luoghi e memoria. Per lungo tempo non mi è venuto spontaneo associare la memoria, l’atto dolceamaro del ricordo, al paesaggio della piccola città fabbrica (one company town) della grande utopia industrialista di Adriano Olivetti. È vero infatti che memoria e modernità – nella connaturata sfida al tempo di quest’ultima – sono parole in gran parte antitetiche ma poi quel Nuovo è progressivamente invecchiato, come ho scritto più volte, e allora ho compreso che non potevo eludere il gioco complicato della mia memoria di quel mondo nuovo, ora, che si è fatto paradossalmente vecchio (e in apparenza muto al pari di tutte le macerie del moderno secondo Marc Augé). Solo di recente però, a molti anni di distanza – complice il soccorso di Salvatore Settis con il suo, di nuovo Einaudi , Il futuro del classico 2004 – ho percepito, al cospetto del complesso paesaggio olivettiano, un sentimento diverso di quel tempo trascorso ma in certo modo ancora lì a fare scuola: un Nuovo divenuto storia, elevato, per così dire, alla stregua di Classico. Ma un Classico – mi chiedo – rispetto a quali altri mondi del Nuovo di un Nord che, sembra, finirà sott’acqua? Sommerso da un mare del Nord, così lo chiama sul finire del libro Marco Belpoliti, simile a quello contro cui combattevano i celti nelle leggende raccontate dalla Yourcenar.