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Quelli che amano il Martini cocktail

 
tratto da “Il Post”del 7 aprile 2025,
di Antonio Stella (ha cominciato nel 1974 come cronista al Corriere d’Informazione, poi ha gestito il negozio di ottica di famiglia. Gli è rimasto l’amore per i giornali. Nel 1979 ha inventato la rassegna stampa di Radio Popolare).

«Nell’unico bar che riconosco superiore agli altri, lo versano in piccoli bicchieri cilindrici pieni fino all’orlo e riposti nell’angolo più freddo del frigo. Non appena il cliente abituale entra, il suo aperitivo gli viene posato sul bancone di marmo con un sonoro clàc, ancora prima che il portoncino di ingresso gli si sia richiuso alle spalle».

L'attore inglese Roger Moore, 007 per sette film dal 1973 al 1985, beve un Martini cocktail. 17 luglio 1968
 (Peter Ruck/BIPs/Getty Images)

Si sa che il Martini cocktail è preparato in modi diversi, a seconda delle “scuole” e delle tradizioni locali. E anche se è una preparazione molto semplice, basta un niente per sbagliarla. Un po’ come un piatto di spaghetti al pomodoro. Sembra facile, è facile, ma. Quello “classico” approvato da IBA, International Bartenders Association, prevede 6 parti di gin e 1 di Martini. Quel che è certo è che va stirred, mescolato, not shaked, non agitato, checché ne dica James Bond.
L’unica altra certezza è che il Martini cocktail si può fare anche senza Martini Dry, con un vermouth qualsiasi, e non si può stabilire se questo sia dovuto all’eterogenesi dei fini, a una geniale trovata di marketing oppure al caso – e infatti c’è chi sostiene che il nome del cocktail derivi dalla città di Martinez, California, dove fu inventato da un barista di nome Jerry Thomas intorno al 1880, in piena corsa all’oro, o ancora a un altro barista, un tale Martini di Arma di Taggia, Liguria, che all’hotel Knickerbocker di New York, prima della Prima guerra mondiale, serviva un intruglio fatto di 50% vermouth e 50% gin, o ancora, e finalmente, alla Martini & Rossi.
 
Quello che si può affermare (con tema di smentita) è che nell’intera storia della “mixology” – parola orrenda che oggi va per la maggiore ma apparve per la prima volta in un testo nel 1862 – non sia esistito un cocktail con più varianti del Martini. Colin Peter Field, un inglese nato nel 1961 che oggi è uno dei barman più famosi del mondo, per trent’anni all’Hemingway Bar del Ritz di Parigi, per esempio, si è inventato il Picasso Martini (un twist Martini, cioè una variante della ricetta classica, che prevede l’uso di un cubetto di ghiaccio composto di vermouth dry e acqua distillata), ma esistono anche il Dirty Martini, che al posto del gin prevede vodka e qualche oliva in salamoia, e il Clean Dirty Martini che, oltre al gin e al vermouth dry, aggiunge due gocce di bitter all’oliva, due gocce di bitter all’arancio e ben quattro gocce di soluzione salina.
Il bicchiere da Martini (cocktail) non ha un nome riconosciuto (calice, coppetta, coppa non mi sembrano appropriati). Fu introdotto – leggo – durante l’esposizione di Parigi del 1925 come versione “modernista”, geometrica della coppa di champagne. In inglese è “Martini glass” in italiano è semplicemente “il bicchiere da Martini”. Le misure variano ma con una buona approssimazione quelle classiche e “generose”  hanno un’altezza di 17,5 cm e un diametro di 12,4. L’alternativa alla coppa di champagne e alla coppa canonica conica – in questo caso, solo in questo caso, “iconico” ci starebbe bene – è il cosiddetto Nick & Nora glass, che prende il nome dall’elegantissima coppia di detective (alcolizzati) degli anni Trenta inventati da Dashiell Hammett e interpretati al cinema da William Powell e Myrna Loy (in Italia il film si chiamò L’uomo ombra).

Nell’unico bar che riconosco superiore agli altri e che non nomino per rispetto del barman morto proprio l’anno scorso, invece il Martini è preparato un po’ prima dell’ora degli aperitivi (verso le sei e mezzo di sera) e versato in piccoli bicchieri cilindrici pieni fino all’orlo, e quindi riposti nell’angolo più freddo del frigo. Non appena il cliente abituale di quel bar che riconosco superiore agli altri entra nel locale, il suo aperitivo gli viene posato sul bancone di marmo con un sonoro clàc, ancora prima che il portoncino di ingresso gli si sia richiuso alle spalle. Questo piccolo/grande rituale è stato elaborato negli anni – immagino – perché il cliente nuovo apprezza la sorpresa mentre quello abituale gode, come accade in molte altre circostanze terrene, più dei preliminari che di quello che segue, che lascia magari un po’ storditi e può complicarti la serata, se non la vita.
La ritualità ha un suo peso sempre, nel caso del Martini di più. Il vermouth, infatti, non andrebbe versato nello shaker ma nel mixinglass colmo di ghiaccio – ghiaccio in cubetti molto freddo, non acquoso – e poi buttato via, il Martini, non il ghiaccio. A questo punto si versa il gin sul ghiaccio vermutizzato e, dopo un rapido movimento circonflesso, si riempiono i calici trattenendo i cubetti con lo strainer. Finalmente si mette l’oliva infilzata o la scorzetta di limone o uno spruzzo della scorzetta stessa che in questo caso va buttata.
 
A complicare le cose c’è il fatto che nel bar che riconosco superiore agli altri il Martini si chiamerebbe Montgomery in onore del generale britannico perché prevede un rapporto di 15:1 – 6 cl di gin e 0,4 cl di vermouth dry – come quello che il generale prediligeva tra i propri soldati e quelli del nemico. Ma soprattutto, assicurano, sarebbe fatto seguendo la ricetta originale di Ernest Hemingway, che era un grande bevitore e di Martini ne trangugiava a gogò. Frederic Henry, il protagonista di A Farewell to Arms (Addio alle armi), esagera: «I had never tasted anything so cool and clean. They made me feel civilized», esagera, «Non ho mai assaggiato niente di così fresco e pulito. Mi fanno sentire civilizzato».
 
Come si nota, la differenza decisiva, più che la guarnizione – ripasso: oliva, scorzetta o cipollina (orrore degli orrori!) – sta nella quantità di vermouth che per Hemingway è decisamente minore: 15:1 contro 6:1. Per i puristi, insomma, la presenza del vermouth dovrebbe essere tendente allo zero, così evanescente da esplicarsi nel semplice sfiorarsi tra gin ghiacciato e Martini Dry – la bottiglia, dico. (Da qualche anno con il contactless delle carte di credito o anche con il telepass accade qualcosa di simile).
È quello che spiega nella sua autobiografia Mon dernier soupir (tradotta in italiano con Dei miei sospiri estremi) il regista spagnolo-messicano Luis Buñuel, che arriva a scomodare perfino Tommaso d’Aquino: «I suoi veri cultori, che lo preferivano molto secco, arrivavano al punto di sostenere che si doveva semplicemente lasciar passare un raggio di sole attraverso una bottiglia di Noilly Prat, prima di accostare il bicchiere di gin. Un buon martini dry, dicevano un tempo in America, deve assomigliare alla concezione di Maria Vergine. Di fatto, lo sanno tutti che secondo san Tommaso d’Aquino il potere generatore dello Spirito Santo attraversò l’imene della Vergine “come un raggio di sole passa attraverso un vetro, senza spezzarlo”».
 
Un accostamento imbarazzante e certamente blasfemo (a me che ho servito messa da ragazzino e poi frequentato assiduamente la Chiesa almeno fino ai 17 anni, coniugare cocktail e soprannaturale fa un certo effetto).  Si spera, benché la formulazione sia ambigua, che Buñuel non si riferisse all’Immacolata concezione, cioè al concepimento di Maria, ma all’Annunciazione del Signore che cade il 25 marzo, nove mesi esatti prima di Natale, e che in pittura, appunto, è spesso rappresentata con un raggio di luce che mette incinta la madonna dopo aver attraversato il vetro della stanza. (L’Immacolata concezione, invece, è il dogma istituito nel 1854 che racconta il concepimento di Maria di Nazareth da parte di Anna, santa nonna, con la partecipazione attiva, classica e fisiologica – more uxorio – di Gioacchino, il nonno materno di Gesù: il nonno paterno è indicibile).
A volte penso che tutto quel che mi resta della mia infanzia cattolica sia proprio l’attrazione per le implicazioni teologiche del Martini cocktail, che comunque io mi faccio a occhio in una brocca, non disponendo di un mixinglass.

(foto Antonio Stella)