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Come mai Gramsci piace ai trumpiani

Il più importante intellettuale comunista italiano e il concetto di “egemonia culturale” sono citati e studiati dall'estrema destra americana.

Tratto da Il Post del 5 maggio 2025


Uno degli attivisti conservatori più influenti negli Stati Uniti ha 40 anni e si chiama Christopher Rufo. Da anni sostiene, in libri e interviste varie, che le correnti di estrema sinistra interne al Partito Democratico abbiano preso il controllo delle istituzioni americane. Le sue campagne contro le università di maggiore prestigio, da lui accusate di marxismo e terzomondismo, hanno fornito fondamentali spunti teorici a diverse politiche aggressive recenti del presidente Donald Trump.
Potrebbe quindi suonare contraddittorio che un frequente riferimento culturale di Rufo e di altri trumpiani sia Antonio Gramsci, uno dei più importanti intellettuali, filosofi e politici comunisti della storia. Le sue teorie tra l’altro non sono trattate da Rufo e dagli altri con disprezzo, come una sorta di diario del nemico, ma piuttosto con ammirazione, come una cassetta degli attrezzi utile per qualsiasi movimento o partito politico. «Gramsci fornisce lo schema di come funziona la politica, in un certo senso, e la relazione tra le varie parti di cui è composta: intellettuali, istituzioni, leggi, cultura, folclore», ha detto di recente Rufo al Wall Street Journal.
Non è la prima volta che lo cita. Nel suo libro del 2023 America’s Cultural Revolution. How the Radical Left Conquered Everything Rufo riconduce al pensiero di Gramsci un’influenza fondamentale per lo sviluppo negli Stati Uniti della cosiddetta teoria critica della razza (CRT), la teoria politica degli anni Settanta che descrive la razza come un costrutto sociale e le discriminazioni come un fenomeno sistemico nelle istituzioni. Quei teorici, secondo Rufo, si ispirarono a Gramsci e alla sua idea «che le moderne rivoluzioni di sinistra potessero trionfare attraverso una “guerra di posizione” contro l’establishment».
Nato nel 1891 ad Ales, in Sardegna, Gramsci fu tra i personaggi più influenti della storia italiana contemporanea. Dopo gli studi in Lettere a Torino si iscrisse nel 1913 al Partito Socialista, e nel 1919 fondò il settimanale L’Ordine Nuovo insieme al futuro leader comunista Palmiro Togliatti. Due anni dopo partecipò alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, diventandone segretario generale, e nel 1924 fondò l’Unità, l’organo di stampa del partito (e poi giornale dei partiti eredi del Pci, dopo il 1991).
Arrestato dal regime fascista nel 1926 e condannato a vent’anni di carcere (morì nel 1937), scrisse proprio in quel periodo i suoi testi più conosciuti e influenti: le Lettere dal carcere e soprattutto i Quaderni del carcere, in cui analizza il rapporto tra politica e cultura nelle società contemporanee. Oltre che introdurre categorie di interpretazione del presente entrate nel lessico di varie discipline (su tutte “egemonia culturale”), Gramsci definì un approccio metodologico: studiare la relazione profonda tra le pratiche culturali e i sistemi di potere. Da questo approccio si sarebbe poi sviluppato nel Regno Unito, nella seconda metà del Novecento, uno specifico ambito di studi sociali: i cultural studies.
Le ragioni del successo recente di Gramsci nella destra americana hanno in parte a che fare con la popolarità trasversale e duratura delle sue opere all’estero, dovuta in particolare a un’influente traduzione inglese del 1971 dei Quaderni, tratta dall’edizione critica del filosofo Valentino Gerratana. Il successo di espressioni contenute in quell’edizione inglese e poi attecchite nel lessico politico del Regno Unito (hegemonyhistorical bloccivil society) rese Gramsci un fenomeno globale: di fatto l’intellettuale italiano contemporaneo più citato nel mondo dopo Umberto Eco.

Un’illustrazione di Gramsci sulla copertina della rivista Left durante l’inaugurazione alla Camera 
della mostra “I Quaderni e i libri del carcere”, a Roma, il 27 aprile 2017 (Giuseppe Lami/Ansa)

Ma la popolarità di Gramsci ha anche ragioni pratiche, sia di forma sia di sostanza, secondo Marco Ruggieri, insegnante di cultural studies e italiano all’università di Edimburgo, in Scozia, e autore di studi e ricerche su Gramsci ed Eco.
«In prigione Gramsci scrisse cose che non erano trattati, quindi in maniera molto concisa e accessibile, e c’è chi sostiene addirittura che utilizzasse i concetti di egemonia, subalternità e filosofia della prassi, perché se avesse parlato esplicitamente di marxismo i suoi carcerieri gli avrebbero bruciato i fogli», dice Ruggieri. Questa condizione ha quindi reso il suo pensiero facilmente sintetizzabile e adattabile a contesti anche molto diversi da quello di partenza.
Come altro esempio della versatilità delle idee gramsciane Ruggieri cita la questione meridionale. Gramsci se ne occupò a lungo, in scritti molto specifici, ma che contengono anche «concetti semplici, applicabili ad altri casi storici che lo hanno reso popolarissimo, per esempio, in India, dove tutte le persone con cui lavoro conoscono Gramsci, e ne riconoscono l’influenza quasi come padre del postcolonialismo», dice Ruggieri.
L’estrema versatilità del pensiero di Gramsci potrebbe per altri versi essere considerata anche un punto debole, perché espone i suoi scritti a un maggiore rischio di strumentalizzazioni politiche. Michele Filippini, professore di storia delle dottrine politiche all’università di Bologna, nel suo libro del 2011 Gramsci globale descrisse come una possibile spiegazione del successo internazionale di Gramsci il fatto che «i Quaderni siano diventati una sorta di Zibaldone globale, dal quale ognuno si sente autorizzato a copiare e incollare le citazioni preferite per giustificare questa o quella posizione». Sarebbe peraltro una sorte toccata a molti altri autori famosi, rispolverati soltanto per gli esergo, gli aforismi o le citazioni che ci sono spesso all’inizio di un libro.
Ma la spiegazione più plausibile per la proliferazione di riflessioni che richiamano nozioni gramsciane, secondo Filippini, è che quelle nozioni colgono evidentemente «contraddizioni centrali del nostro tempo». E questo determina anche letture e usi inaspettati – e spesso incoerenti – di quelle nozioni in aree culturalmente e politicamente lontanissime da Gramsci, come la lettura dei conservatori «ossessionati dalla possibile egemonia della sinistra sulla società americana».
Negli anni Novanta, decenni prima di Rufo, uno dei primi e più popolari commentatori politici della destra americana a citare Gramsci fu il conduttore radiofonico Rush Limbaugh, morto nel 2021, dopo avere peraltro ricevuto un anno prima da Trump grandi elogi e la Presidential Medal of Freedom (la più importante onorificenza civile statunitense). In un libro del 1993 che ebbe grandissimo successo, See, I Told You So, Limbaugh aveva attribuito alle teorie di «uno sconosciuto comunista italiano di nome Antonio Gramsci» una fondamentale influenza sui circoli intellettuali della sinistra.
Solo grazie a Gramsci, stando all’interpretazione di Limbaugh, la sinistra radicale si era convinta di potere prendere il potere vincendo una «guerra tra culture», senza bisogno di convincere «la classe operaia a prendere le armi». La sinistra aveva avuto successo in questo modo, negli Stati Uniti, impegnandosi nella tutela delle minoranze, nell’emancipazione delle donne e nell’adozione di politiche sociali di contrasto delle discriminazioni nelle università (le cosiddette affirmative actiondichiarate illegali dalla Corte Suprema nel 2023). Ma «la guerra tra culture è un conflitto fra due eserciti», scrisse Limbaugh, spronando i conservatori a sostenere i loro valori per non vedere la loro eredità culturale scomparire e per ottenere il controllo delle istituzioni culturali.
Nei Quaderni Gramsci cercò di trovare una risposta al perché la classe operaia sostenesse il partito fascista, anziché realizzare la rivoluzione prevista dalle teorie marxiste. Se lo spiegò definendo il concetto di egemonia, una forma di potere che non cerca solo il consenso, ma la costruzione di una cultura e di un senso comune. Le istituzioni, le scuole dell’obbligo e i mezzi di comunicazione non dovevano semplicemente soddisfare dei bisogni collettivi: controllarli era funzionale alla diffusione dell’ideologia della classe dirigente, che poteva in questo modo plasmare i valori della popolazione e, di conseguenza, anche le sue azioni.
Gramsci permette «di pensare al modo in cui la legittimità intellettuale e morale viene mantenuta e rafforzata attraverso pratiche culturali, il che è utile», ha detto al Wall Street Journal Jonathan Keeperman, fondatore e direttore della casa editrice di estrema destra Passage Publishing.
Il modo in cui la destra americana fa riferimento a Gramsci – da Limbaugh fino ad arrivare Rufo – non è troppo diverso dal modo in cui lo fa da tempo anche la destra italiana. Da un lato, dice Ruggieri, l’una e l’altra condividono la stessa tendenza «morbosa» a vedere in Gramsci, da un punto di vista teorico, una sorta di «burattinaio cospiratore, che ha indicato alla sinistra una strategia per conquistare l’egemonia culturale, ascoltato o meno che sia».
Dall’altro lato, il fatto che Gramsci non fosse «un romantico della rivoluzione, ma un pensatore molto pratico, che cerca proprio in termini quasi non marxisti di costruire una strategia politica» lo ha reso nel tempo un riferimento considerato utile da quelle stesse destre, aggiunge Ruggieri.
«Gramsci è stato utilizzato tante volte per capire una cosa molto difficile: perché le persone povere votano le persone ricche invece di fare una rivoluzione? Perché le persone ricche, proprio in virtù della loro ricchezza, hanno spesso il controllo dei media, hanno spesso un potere che è dettato dai loro mezzi economici, hanno un potere di convincimento», dice Ruggieri, citando come altro esempio storico il thatcherismo. Pur essendo espressione di valori ispirati a un liberismo sfrenato, il Partito Conservatore guidato dalla prima ministra britannica Margaret Thatcher ottenne anche il sostegno di parte della classe operaia perché lavorò molto per influenzare il senso comune, propagandando ideali di nazionalismo, individualismo e competizione sociale.
Anche l’amministrazione di un presidente ricchissimo come Trump, in definitiva, riesce ad avere successo perché costruisce attraverso i media, inclusi i social media, «un’alleanza culturale tra ricchi e poveri in nome di un certo numero di ideali», dice Ruggieri. E indipendentemente da quanto siano consapevoli di tutto questo oppure no gli attivisti e gli intellettuali che hanno ispirato le politiche aggressive di Trump, citando spesso Gramsci, «Gramsci è certamente un riferimento culturale utile a leggere l’evoluzione di questa situazione.