di Andrea Cortellessa
tratto da Lucy sulla Cultura del 10 Aprile 2025
Dopo l’uscita del “Meridiano” dedicato a Dino Campana, un’altra effrazione s’è prodotta nel continuum del Canone. Se sino a oggi Campana era “fuori”, per la sociopatia terminale di un personaggio perseguitato in vita da una serie traumatica di esclusioni, la sua poesia da un pezzo era “dentro”, avendo nutrito di sé tanta parte della migliore lirica successiva. Pubblicare nella collana ammiraglia della nostra editoria Philip K. Dick, invece, impone una riflessione su cosa siamo arrivati a considerare “letteratura” oggi, e cosa si considerava tale non più d’una ventina di anni fa. Per la mia generazione è semplicemente un sogno pensare che esista un “Meridiano” (due, anzi!) di Philip Dick. Forse non è un caso che la data d’uscita sia stata fissata al primo aprile; mentre parlo col suo curatore il libro di carta non l’ho ancora visto, e magari si deve solo a un’allucinazione, perfettamente dickiana, l’annuncio di Mondadori che tanto mi ha emozionato.
A testimoniare lo statuto mutato dell’autore, la cura minuziosa (come da tradizione di collana) di un’edizione che nelle premesse poneva non pochi problemi filologici (e già fa strano parlare di “filologia” per uno come Dick). Chi ha letto Dick – o ne è stato psichicamente invaso, piuttosto – negli anni Settanta (come Trevi) od Ottanta (come me), lo ha fatto collezionando, in qualche caso raccattandoli dall’immondizia, i vecchi “Urania”: libretti esili e spiegazzabili, dalla carta ruvida e grigiastra, la cui memorabile grafica di copertina è stata celebrata dalla penna di Michele Mari, ma che a posteriori non si potevano certo considerare dei modelli di accuratezza testuale: per rientrare nel format interi capitoli venivano tagliati, sunteggiati o proprio bellamente saltati, con la conseguenza che certe trame dickiane – già di per sé intermittenti e bucherellate – diventavano del tutto incomprensibili.
AC: … Scott enuclea dall’immaginario di Dick quella componente postmoderna che tu sottolinei nell’introduzione ai “Meridiani”. Non a caso a lui sin dagli anni Sessanta si appassionano personaggi come Thomas Pynchon (che nel ’73 ricalca Tempo fuori luogo nell’Arcobaleno della gravità) e Fredric Jameson. Come dici tu, riletti con occhi postmoderni anche i libri più scassati di Dick possono rientrare in questa archeologia.
AC: Cronologia di Carrère a parte, anche il tuo Profilo di Philip K. Dick intreccia la sua opera alla biografia dell’autore, mostrando come diversi personaggi siano modellati su certi tratti del suo carattere, e questo ben prima che nell’ultimo periodo – nella cosiddetta Trilogia di Valis, pubblicata negli ultimi due anni di vita – autore e personaggio tendano a fondersi in quella che, più che un’immedesimazione, è una vera e propria transustanziazione. Un aspetto fondamentale della sua storia psichica è proprio la percezione di sé, da parte di Dick, come autore. Sino a The Man in the High Castle, Dick si percepiva come un “artista di merda” (Confession of a Crap Artist, scritto nel ’59, viene pubblicato con questo titolo nel ’75), prigioniero delle convenzioni della fiction “di genere” nonché del culto appiccicoso del fandom, e cercava di sfuggirne scrivendo in parallelo una serie di romanzi “realistici”, quelli che definiamo mainstream, quale è appunto Confessioni di un artista di merda. Viveva una scissione insomma fra un sé ideale, il narratore esistenzialista californiano, e un sé tristemente reale, lo sfigato scrittore “di genere” pagato pochi centesimi a parola dalle riviste pulp. Invece noi oggi pensiamo che la prima fosse un’ambizione bovaristica e ben poco “realistica”, mentre quello che amiamo è lo scrittore visionario e fuori di testa che, sino a un certo punto, disprezza sé stesso. Negli anni Sessanta questa scissione, se non una riconciliazione definitiva, conosce diciamo un’omeostasi (che prevede sempre intermittenze, ronzii e rumori di fondo, bucherellamenti vari) e Dick, insomma, comincia a prendersi sul serio. Cura maggiormente la scrittura, si documenta meglio, dismette i ritmi di scrittura forsennati del decennio precedente, e significativamente smette di scrivere romanzi mainstream. Poi, a partire dalla Visione del febbraio ’74, c’è un ulteriore giro di vite: da quel momento in avanti Dick non solo si percepisce come uno scrittore a pieno titolo, ma anche come il depositario di Verità Nascoste da rivelare al mondo. Questi tre stadi nella percezione di sé mi pare individuino anche tre fasi precise della sua opera.
ET: È una buona periodizzazione. La fase giovanile è segnata da una grande ingenuità: nel decennio che va dall’esordio nel ’52 alla pubblicazione dieci anni dopo dell’Uomo nell’alto castello (da noi circolato col titolo, secondo me bellissimo, La svastica sul sole), avendo già un crescente consenso come scrittore di fantascienza, Dick coltiva l’equivoco di albergare dentro di sé una specie di compagno segreto infelicissimo che vorrebbe invece fare della “letteratura”, e si nutre di Sartre, Dos Passos e Steinbeck con un’idea di un realismo esistenzialista che troverà poi autori ben più convincenti di lui nel John Williams di Stoner e nel Richard Yates di Revolutionary Road (anche lui ebbe poca fortuna in vita, ma per noi oggi il suo libro è il Madame Bovary della letteratura americana). Ma per questo tipo di scrittura Dick non ha un senso della forma adeguato, ha ragione Mattia Carratello a definire “opachi” i suoi libri mainstream: opaca è la vita della piccola borghesia americana frustrata del dopoguerra, ma opaca è anche la scrittura del narratore che la ritrae. Non si rendeva conto, a quel tempo, che il suo campo d’azione non è il mondo com’è, ma il mondo come potrebbe essere. È questo che accende la sua scintilla poetica: investire la realtà di un dubbio ontologico. È davvero reale quella che consideriamo “realtà”? E sono davvero io quello che credo di essere?
AC: È convincente il parallelo che fai con Pasolini. Comune ai due è l’idea “figurale” con la quale a un certo punto rileggono la propria opera passata quale profezia di verità – trascendenti o politiche, o le due cose insieme… – destinate a essere scoperte solo in seguito. Gli anni Cinquanta, quelli della giovinezza di entrambi, rivelano a posteriori la loro natura illusoria (è il mondo di Tempo fuori luogo, come verrà ripreso da Peter Weir e Andrew Niccol in The Truman Show).
AC: Questo mi pare l’aspetto più nuovo della tua interpretazione. Ricordo che più grandicello, avrò avuto ventisei o ventisette anni, andai ad ascoltare Fredric Jameson che teneva una conferenza su Dick a Roma. Dovevo avere appena letto Un oscuro scrutare nella traduzione di Frasca e che uno come Jameson, già allora per me fra i massimi punti di riferimento teorici, si appassionasse a sua volta a Dick rappresentava una conferma. Ad ascoltarlo ci saranno state sei o sette persone. La sua era una lettura brillante del primo capolavoro di Dick, L’occhio nel cielo (Eye in the Sky, 1957), in cui il paradiso concepito dalla mente di un personaggio corrisponde all’inferno di quello degli altri coi quali è in una sorta di comunione telepatica. Alla fine della conferenza, gli obiettai che nel suo discorso non citava mai gli ultimi romanzi di Dick, la Trilogia di Valis, in cui di religione si parla in modo esplicito e tutt’altro che parodico. Lui rispose che Dick quei romanzi li aveva scritti dopo essere impazzito, e dunque non andavano considerati testi letterari ma meri documenti da cartella clinica. Mi ritirai in buon ordine, e mi sorprese che poi il grande Jameson venisse a cercare quello studente sbruffoncello per raccomandargli di non leggere più quell’immondizia. Resta per me un autore fondamentale ma quella sua scelta di campo mi pareva, e mi pare, davvero miope (solo tanti anni dopo, leggendo l’Esegesi, vidi che lo stesso Dick se la prendeva coi “marxisti” attoniti per le sue preoccupazioni metafisiche – mi chiedo se non si riferisse proprio a Jameson –: “mi sono dimostrato un idiot savant e questo li ha disgustati molto”).
AC: È il tema della penultimità, che affascinava anche Gilles Deleuze.