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Il reportage. Il corpo delle haitiane come campo di battaglia

di Lucia Capuzzi,
tratto da “Avvenire” del  30 maggio 2025
 
Quando una banda conquista un territorio, abusa le abitanti per terrorizzare la popolazione e affermare il proprio dominio. Molte sono tenute prigioniere per mesi, altre uccise.

Una donna con il figlio sulle spalle in una baraccopoli di Port-au-Prince - Ansa

«Pa fè mal…» Non fare male. La gola d’ebano di Vanessa Jeudi freme al ritmo della melodia modulata dalla voce. Le parole creole sembrano fondersi in un lamento di note. La mano accompagna il movimento quasi a scrivere uno spartito di vento che solo i suoi occhi chiusi riescono a leggere. Quando li riapre l’aria è carica di vibrazioni. E le labbra della giovane finalmente si distendono in un sorriso. È la sua risposta. L’unica che riesce a formulare quando le viene domandato dell’impatto sulle haitiane della guerra di tutti contro tutti ormai cronica.
Il canto è la sua resistenza. «Kembe fem», «tener duro», come si dice nell’isola. «Questo brano l’ho scritto per loro: le troppe massacrate, torturate, violentate. Nessuno saprà mai il numero preciso. Nessuno… Parliamo di molte cose: elezioni, referendum, missioni internazionali. A volte che penso che dovremmo cominciare con il fare un momento di memoria per quante non hanno avuto nemmeno un funerale. E solo dopo cercare delle soluzioni, immaginare il futuro», racconta l’artista e fondatrice dell’associazione Danton, insieme ad altre colleghe dei tempi dell’università. «Raccogliamo e rilanciamo il grido femminile. Per questo abbiamo scelto di chiamarci Danton: nella religione vudu è il “loa” – lo spirito – che protegge le donne e i bambini. Cosa facciamo in concreto? Ci siamo dove nessun altro c’è».
 
Un anno fa il Merie Janne era un liceo. Ora il cortile del caseggiato bianco di Bois Verne, ai piedi delle colline di Port-au-Prince, è un groviglio di tende, cucine da campo, taniche e rifiuti. Migliaia di esseri umani – almeno quattromila ma nessuno conosce la cifra esatta – si contendono lo spazio centimetro per centimetro. Solo i “vecchi” sono riusciti a ritagliarsi un frammento d’aula all’interno, vicino agli unici due bagni ancora funzionanti seppure privi di acqua corrente ed elettricità. I nuovi arrivati s’insinuano dove capita. Il moto in entrata sfida le leggi della fisica in questo come negli altri campi profughi sparsi per la capitale haitiana. Duecentoventotto, quasi il doppio rispetto al 2024. Piazze, scuole, case, perfino ministeri. L’oltre un milione di sfollati metropolitani si accampa in qualunque luogo disponibile nel vagabondaggio da un quartiere all’altro di Port-au-Prince in fuga alla violenza delle gang che ormai, di fatto, l’hanno catturata un frammento alla volta.
Non possono varcane i confini: gli accessi sono controllati dai gruppi armati. Woodline, 24 anni, è alla terza tappa del moto perenne e circolare dei profughi della capitale. Nel febbraio 2024 ha lasciato il suo quartiere, Carrefour Feuilles. «Non ricordo la data. Solo che tutti sparavano e io mi sono nascosta». L’indomani mattina, ha preso i tre figli ed è scappata verso il centro. Si è fermata in uno slargo di Champs de Mars ma il conflitto l’ha inseguita. Un anno fa, le bande hanno preso la zona. E Woodline è fuggita di nuovo per approdare approdata su un materasso dell’ex liceo Marie Jeanne dove è accucciata, dietro un telo giallo, l’unica parete del suo “alloggio” nel «settore delle donne». Lo chiama così Luc, 40 anni, uno dei responsabili più o meno auto-proclamati della comunità. In realtà ci stanno le sfollate giunte in condizioni più estreme: l’unica forma di protezione rudimentale è concentrarle in un’area in modo da allentare almeno un po’ la prossimità forzata con gli altri. «Soprattutto con i maschi. Ne hanno già passate troppe», sottolinea Luc. La parola non la dice, la sussurra con un sibilo dal suono sinistro. «Stupro di gruppo».
 
Da anni, l’Onu ha ripetutamente denunciato l’impiego della violenza sessuale come arma di guerra sistematica da parte degli oltre 200 gruppi armati haitiani. Quando una banda conquista un territorio, abusa le abitanti per terrorizzare la popolazione, affermare il proprio dominio, sopraffare i rivali. Molte sono tenute prigioniere per mesi, altre uccise, tutte brutalizzate. Il fenomeno, denunciano le organizzazioni umanitarie, è in crescita esponenziale. Gli ultimi dati parlano di 40 casi al giorno. E considerano solo quante chiedono assistenza medica. Una minoranza, comunque. Ancora più esigua dato che la gran parte dei centri è stato chiuso a causa dei ripetuti attacchi. Secondo le Nazioni Unite, l’incremento per quanto riguarda i minori è del mille per cento rispetto al 2024. A marzo, oltre 180 organizzazioni della società civile hanno scritto al nuovo presidente del Consiglio di transizione, Jean Fritz, per chiedere di intervenire. Nonostante gli sforzi, però, l’organismo non riesce a ristabilire il proprio controllo sul territorio, strappandolo alla legge feroce delle gang. E a farne le spese sono i gruppi più fragili, donne e bambini in primis. «Il corpo femminile è campo di battaglia. Ogni gang ha i propri metodi per stabilire ed esercitare il potere. Ma gli stupri tra quelli più diffusi. Ogni cifra rende a malapena quanto accade in realtà. Nessuno può fare un bilancio preciso. Anche perché le sopravvissute stesse fanno fatica ad ammetterlo», spiega Vanessa che prova ad accompagnarle.
A Bois Verne viene di frequente: visita il «settore delle donne», ascolta, non domanda. «Sono entrati di notte. Erano in cinque, avranno avuto 15 o 16 anni. Prima hanno ammazzato mio marito, poi hanno cominciato a picchiarmi. Mi hanno detto di spogliarmi. Ho detto di no. Mi hanno strappato i vestiti. Li ho supplicati di lasciarmi stare perché ero incinta. Niente....». Michelange parla veloce, dopo un lungo silenzio. In braccio tiene Dansky, il secondo dei due figli, nato lo scorso ottobre. «Lui ce l’ha fatta. E anche io». Claire, la primogenita, di 8 anni, le trotterella intorno. La madre non ha i venti dollari annuali per pagare l’unica scuola raggiungibile. La piccola, dunque, trascorre la giornata nel minuscolo antro che Michelange è riuscita a ritagliarsi nel caos. Un lenzuolo a mo’ di tenda, un altro copre il materasso, accanto un trolley aperto da cui spuntano vestiti, due spazzolini, tre pentole. Gli averi della famiglia sono tutti qui. Eppure nella disposizione degli oggetti e nel modo in cui sono piegati gli abiti c’è una certa cura. «Casa è dove stiamo insieme. Siamo fortunati. Alla signora laggiù, dopo averla violentata, le hanno ammazzato tutti i cinque figli…».
 
Nessuno sa il suo nome. Nemmeno lei lo ricorda. Sta tutto il giorno sdraiata a pancia ingiù sotto una sedia di plastica, in mano uno quaderno dai fogli strappati che gira ininterrottamente. Qualcuno della comunità di tanto in tanto le porta del cibo che distribuisce qualche Ong. E lei va avanti, senza vivere ma rifiutandosi di morire. «Magari prima o poi tornerà. A volte accade», conclude Vanessa mentre indica con la testa una ragazza giovanissima.
La gang l’ha sequestrata e tenuta come schiava sessuale per quattro mesi prima di gettarla via. In frantumi, dentro e fuori. Ora è tra quante si occupano della cucina e di far giocare i bambini. Quando finisce si siede in un angolo e, nel frastuono asfissiante del campo, legge. Sempre lo stesso libro, “Il piccolo principe”: glielo ha regalato un operatore internazionale. Spera di trovarne un altro. Nel frattempo lo finisce e lo ricomincia. «Ogni volta mi convinco che sia nuovo – spiega -. Così la storia può portarmi via dal dolore». «Pa fè mal», non fare male.