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Jafar Panahi, il regista clandestino

Con la Palma d’Oro a It was Just an Accident diventa il secondo regista, dopo Michelangelo Antonioni, a vincere tutti i grandi festival europei. Un traguardo incredibile, soprattutto per un uomo che da 30 anni sopravvive a censura, repressioni, incarcerazioni.

di Elisa Giudici
tratto da “Rivista Studio” del 25 Maggio 2025


Grande Slam, Triplete, Tripla Corona: scegliete voi la metafora sportiva più calzante per descrivere l’incredibile traguardo raggiunto da Jafar Panahi, vincitore della Palma d’Oro con It Was Just an Accident e da adesso unico regista vivente ad aver vinto tutti i quattro grandi premi del circuito festivaliero europeo (in poco meno di trent’anni): Cannes, Venezia, Berlino, Locarno. Prima di lui c”era riuscito soltanto Michelangelo Antonioni.
Statistiche e record rischiano di essere comunque insignificanti a confronto con questa eccezionale figura del cinema d’autore, con una carriera senza passi falsi. Tanto che, insieme all’amico e doppio premio Oscar Asghar Farhadi, Jafar Panahi è l’unico possibile erede di un gigante come Abbas Kiarostami, traguardo che ha raggiunto facendo quotidianamente i conti con cosa significhi girare oggi film in Iran.
 
Nessuno è profeta in patria.
Come si diventa una leggenda del cinema con un regime che fa di tutto per impedirti di lavorare? La risposta che si è dato Panahi ne spiega il successo nei festival europei, che ha usato come trampolino di lancio per la carriera prima, scudo per la sua arte poi, facendone interlocutori forti nelle precarissime relazioni diplomatiche con la tua stessa nazione.
Nel 1997, godendo ancora di una certa libertà autoriale, Panahi inizia la sua scalata della montagna del cinema con Lo specchio, portandosi a casa il Pardo d’Oro a Locarno, alla prima partecipazione. Appena tre anni dopo arriva il Leone d’Oro per Il cerchio. La prolificità di Panahi (assieme alla qualità della sua scrittura e della sua regia) lo rendono una certezza: se la competizione non è serratissima, come in un’annata priva di film davvero forti come quella appena vissuta sulla Croisette, lui vince. D’altronde, Panahi combatte una lotta tutta interna, preventiva: con l’aumentare della sua popolarità internazionale, infatti, le sue storie, colorate anche dalle tinte fosche del regime, sono sempre più osteggiate in patria.
Le malelingue dicono che è la crescente difficoltà a girare di Panahi a “costringere” le giurie a premiarlo in continuazione. Un assunto così diffuso, anche fuori dall’Iran, che la presidente di giuria Juliette Binoche, nel consegnargli la Palma d’Oro, ha subito premesso che nella sua vittoria la politica c’entra poco. Invece la politica c’entra eccome, ma di certo l’essere un regista politico, osteggiato, censurato, incarcerato non ha contribuito al successo di Panahi. Lo ricordava anche Darren Aronofsky, presidente di giuria alla Berlinale del 2015, dove al posto del vincitore Panahi c’era una sedia vuota. A ritirare l’Orso d’Oro per Taxi Teheran fu la nipote Hana Saeidi, dato che il regista non aveva potuto lasciare il Paese.
 
L’artista che ha sfidato il regime.
Nell’assegnare il premio Aronofsky sottolineò come i limiti imposti da agenti esterni all’artista possono essere una sorprendente fonte di creatività, ma è un ragionamento che ha esso stesso dei limiti: un conto è rendere la vita difficile a un artista, un conto è impedirgli fisicamente di fare il suo lavoro. Questi limiti Panahi li sfida da 15 anni, sin dal 2010, quando il suo governo lo condannò a non girare film e a non lasciare l’Iran per i successivi vent’anni.
Taxi Teheran era una sfida aperta, una risposta pericolosissima alla sentenza che lo condannava al silenzio. Un film girato per le strade di Teheran dopo pellicole confinate negli appartamenti suoi e di amici, conoscenti, collaboratori. Un cinema scritto e montato sempre con il timore dell’arresto, come capitato a tanti colleghi frequentatori abituali degli stessi festival. Taxi Teheran venne girato in semi clandestinità a bordo dell’auto del regista, che interpreta sé stesso nei panni di un tassinaro che riprende di nascosto i clienti. Guarda caso, nel film fanno capolino collaboratori storici, attivisti per i diritti umani e guardie della rivoluzione a cui lui lascia una rosa sul cruscotto. Chiuso nell’abitacolo, ma finalmente all’aperto, costretto a un cinema clandestino ma capace di rivendicare la sua voce in un gioco metatestuale. La pressione fu tale da produrre un film minimo, scarnissimo nella forma, ma potente nel raccontare le ferite personali del suo creatore.
Come sarebbe il cinema di Panahi oggi senza la censura subita per aver fatto la scelta di rimanere in Iran – a differenza del collega Ali Abbasi – e di parlare apertamente di come funziona la società iraniana? Sarebbe un altro regista, Panahi, se non fosse finito in carcere più volte, spesso per aver chiesto notizie di colleghi come Mohammad Rasoulof, Mostafa Al-Ahmad e Saeed Roustaee, arrestati per film che raccontavano le stesse cose che racconta lui?
Girare intorno alla censura, sfidarla a viso aperto e colpirla alle spalle ha plasmato lo stile di scrittura e regia di Panahi. Ha reso ricorrenti certi movimenti di camera, l’uscire e l’entrare dall’abitacolo, le scene in notturna in cui le luci di posizione tingono di una sinistra sfumatura rossastra i suoi protagonisti, alle prese con dilemmi morali che vanno oltre i confini serratissimi della società iraniana.
 
Un semplice incidente.
Esplorando il cinema di Panahi abbiamo capito negli anni che le maglie della censura si aprono e si chiudono, imprevedibilmente: It Was Just an Accident (curiosità: per il Nord America la distribuzione se l’è già accaparrata Neon, alla sesta Palma d’oro in sei anni) arriva dopo anni in cui il regista è rimasto chiuso in una morsa quasi asfissiante, da cui sono nate leggende metropolitane che è stato pure costretto a smentire. No, a quanto pare il documentario Questo non è un film non è arrivato a Cannes su una chiavetta Usb nascosta in una torta.
Quel che è certo è che, alla prima minima distrazione della censura, Panahi ha tirato fuori un film che cita Brecht e ricorda Pirandello. Come nella grande tradizione iraniana “un semplice incidente” scatena una catena di eventi che pone i protagonisti di fronte a un enorme dilemma etico, cui ciascuno dà la sua risposta. Dilemma scatenato proprio dalle repressioni del regime iraniano.
Cinque personaggi alla ricerca di un torturatore, ovvero un uomo con una gamba prostetica chiuso in una cassa che potrebbe o non potrebbe essere colui che ha rovinato la loro vita. Un coppia di sposi alla vigilia del matrimonio, una fotografa, un manovale irascibile e un tuttofare si ritrovano a chiedersi se quanto hanno subìto giustifichi la violenza che la loro vendetta prevede. Perché, ovviamente, il supposto aguzzino è a sua volta un essere umano, ha una famiglia anche lui, esistono persone che soffrirebbero per la sua morte.
Risposte giuste non ce ne sono, come sempre: il cinema iraniano non offre mai soluzioni, né personaggi che non siano allo stesso tempo vittime e carnefici. Il cinema di fortuna, clandestino di Panahi raggiunge qui il suo apice, con una regia che ritrova e raffina gli espedienti appresi negli anni dei film girati di nascosto, unendo il racconto di una nazione a un ritratto universale. Riesce persino a essere comico, Panahi, anche se il suo umorismo è di colore nerissimo. La Teheran che racconta qui è un luogo in cui tutti chiedono una bustarella o una tangente, tanto che le guardie della rivoluzione girano col Pos in tasca, metti caso che trovino uno a corto di contanti.
It was Just an Accident è un film povero, persino per le abitudini dello squattrinatissimo cinema d’autore. Ma per Panahi la questione non ha che fare con i soldi, ma con la ritrovata libertà d’espressione e  di movimento, uno spazio finalmente abbastanza ampio per contenere la grande umanità dei suoi personaggi, senza (troppi) compromessi. Il suo cinema è grande anche per la pressione che la censura ha operato su di lui, comprimendo i suoi spazi e le sue risorse, insegnandogli con le cattive a trasformare storie minuscole in immagini potentissime. Trasformandolo in un maestro del cinema contemporaneo, a cui manca solo l’Oscar. Per ora.