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La Pasqua di Faulkner

tratto da “minima&moralia” del 3 giugno 2025
di Adele Errico 

8 aprile 1928. È il quarto tempo di quel “poema sinfonico” che è L’urlo e il furore di William Faulkner, come lo definisce Attilio Bertolucci. È il giorno di Pasqua e la famiglia Compson, al centro del romanzo, è ormai ridotta in macerie, dopo la vergogna di Caddy, che aveva amato suo fratello Quentin “contro la volontà di lui”, dopo il suicidio di Quentin.
È in una mattina squallida e fredda che “una mobile muraglia di luce grigia” rischiara la nera pelle di Dilsey, governante di casa Compson, la “madre nera” alla quale è affidato l’ultimo sguardo su questa anatomia di una caduta. Si è passati attraverso le immagini sfocate del racconto di Benjy, l’idiota, poi scaraventati indietro nel tempo nell’ossessione di Quentin, passando per la rabbia di Jason. Il tutto in tre prime persone allucinate, malinconiche, rabbiose. Fino all’approdo a un racconto in una terza persona più solida e asettica, che raccoglie le braci lasciate dagli altri tre narratori.
Attraverso gli occhi di Dilsey, “scarna, paziente e indomita”, si chiude il cerchio della maledizione dei Compson, nel giorno del perdono, nel giorno della resurrezione. È una Pasqua fredda (“Sempre freddo per Pasqua. Mai una volta che non sia andata così”). Dilsey, Luster (figlio della governante) e Benjy si trovano in chiesa per la celebrazione di Pasqua.
Hanno preso parte alla fiumana dei fedeli che si recava in chiesa e diventano, come tutti gli altri, spettatori di quello che sta accadendo sull’altare in una chiesa del Mississippi, nel cuore della Bible Belt: il tripudio di parole che escono fuori dalla bocca del predicatore che, come una star, ha marciato lungo la navata, un ospite che nell’aspetto non prometteva nulla di buono – “mingherlino”, dal “muso nero e rugoso come quello di una scimmietta in là con gli anni” – ma che, nell’aprire bocca, fa tuonare una voce che sembra non appartenergli, che non è affatto la voce di una scimmietta ma quella di una divinità.
I tre personaggi sono investiti dal sermone e ne derivano tre diverse reazioni. Se Luster si annoia tremendamente, Dilsey è completamente sopraffatta dalle visioni del predicatore, che narra, come profeta prescelto, di cose che a lui solo è dato vedere. È fermo sull’altare, muove solo i muscoli necessari, eppure con il tuono che ha nella voce evoca il più triste e atroce dolore. Quello di Cristo sulla croce. “Ascoltate fratelli! Io vedo quel giorno. Maria seduta sulla porta con Gesù in grembo, il piccolo Gesù. Sento gli angeli cantare i canti pacifici e la gloria; vedo gli occhi che si chiudono; vedo Maria balzare in piedi, vedo il viso del soldato: Uccideremo! Uccideremo! Uccideremo il tuo piccolo Gesù”.
Davanti agli occhi del predicatore sembra formarsi un’immagine mostruosa, un raccapricciante confondersi dell’infanzia di Gesù con il suo crudele destino dei trentatré anni. E mentre il predicatore parla, gli occhi di Dilsey si riempiono di lacrimoni che scivolano giù per le guance e in quel momento, nell’arco di quel sermone, in quella chiesa affollata, “mentre le lacrime seguivano il loro corso profondo e tortuoso”, la governante nera comprende qualcosa e dice al figlio, inconsapevole, imbarazzato dalle lacrime della madre perché tutti li guardano (come se non avessero già abbastanza occhi addosso perché sono neri): “Ho visto il principio e ora vedo la fine”. E il principio e la fine è quello che il predicatore sta raccontando, Gesù al principio della propria vita in un’orrida mescolanza con la sua fine.
Ma quella che Dilsey – probabilmente – vede, ora, più chiara che mai è la fine dei Compson. Lei che ne ha visto il principio, che c’era quando la sorella maledetta è nata, è vissuta abbastanza a lungo per vederne la fine, lo sgretolarsi inesorabile di quella trappola familiare. Le lacrime sono di rivelazione e consapevolezza, di un verbo che si è fatto carne, di un presentimento che si è realizzato. Ma Dilsey non è la sola a piangere durante il sermone.
Non abbiamo certo dimenticato un altro personaggio, narratore originario, il primo che pronuncia parole per dare forma a “quella figura bagnata, fiera, ansimante, incerta e bloccata che profumava di alberi” e che è Caddy Compson, la dannata che “accettò la dannazione senza né cercarla né fuggirla”. Benjy piange durante il sermone. Ma non per consapevole partecipazione alle parole del predicatore, ma per totale inconsapevolezza del proprio stare al mondo. Benjy l’idiota è colto improvvisamente, senza dove e senza quando, da crisi che lo portano a urlare e a piangere, a emettere ruggiti pari a quelli di una belva, la voce piena di orrore e di stupore insieme. Ma Benjy non sa perché lo fa. Lo fa e basta. Nel suo candore. Nel suo essere idiota.
Eppure quel sermone riguarda proprio lui, che non ne comprende nemmeno una parola: “In mezzo alle voci e alle mani Ben sedeva, con un’aria assorta nei dolci occhi celesti”. E mentre lui rimane seduto, docile come un agnello, il predicatore grida “Fratelli! Guardate quei bambini là seduti. Una volta Gesù era così”. I bambini, dice il predicatore, sono innocenti. E lo sono perché non hanno ancora vissuto abbastanza, lo sono perché non hanno ancora memoria di azioni passate. Non hanno rimpianti, non hanno rimorsi. Sono candidi e puri. Ma in quella platea c’è qualcuno che ha ancora più innocenza di quanta ne abbiano loro, qualcuno che ha tre anni da trentatrè anni, che non sa leggere l’ora e che non sa nulla. Benjy è più innocente di quei bambini. È l’incarnazione della purezza e ha la stessa età di Gesù quando viene messo in croce. Benjy si eleva a figura cristologica che raggiungerà, nelle righe finali del libro, il suo massimo adempimento: l’urlo selvaggio pieno di furore e l’immediata calma che ne segue, svuotato della furia precedente, con gli occhi azzurri nuovamente velati da una serena dimenticanza, mentre stringe nel pugno un fiore delicato, spezzato nel crescendo di collera. Benjy è l’Agnello.
Sacrificato sull’altare della disgrazia che ha investito la sua famiglia, non è vero che Benjy non sa nulla. Sa solo una cosa, il profumo di sua sorella Candance, che “aveva l’odore delle foglie”. Sua sorella che lo tiene per mano. Sua sorella che gli accarezza la faccia. Sua sorella che gli scalda le mani. Sua sorella che da bambina era caduta nel fango e si era sporcata le mutandine e Dilsey aveva provato a lavare via la macchia, ma la macchia non andava via. E la macchia non è mai più andata via, l’ha seguita tutta la vita, ovunque andasse, anche quando è stata lei ad andare via. Anche quando ha abbandonato Benjy. Solo che lui non lo sa che Caddy lo ha abbandonato. Perché non sa leggere l’ora, non sa di avere trentatré anni, non sa se è giorno o notte. Però saprà se mai Caddy ritornerà. Perché sentirà di nuovo l’odore delle foglie.