a cura di Virginia Varriale
Riprendere il pensiero della filosofa Angela Putino
in I corpi di mezzo e confrontarlo con alcune riflessioni di Lucia
Mastrodomenico, raccolte nell’intervista della scrittrice Conni Capobianco in
Interpreti e protagoniste del movimento femminista napoletano, 1970-1990
(Napoli, coop. Le Tre Ghinee- Nemesiache, 1994, pp. 93-99), diviene una
preziosa occasione per ripensare alla radice le relazioni che s’instaurano tra
i soggetti, a partire dai processi biologici che caratterizzano da sempre la
specie umana nella sua evoluzione sociale, culturale e politica.
Per Angela Putino la questione della
sessualità, considerata sia per i suoi aspetti innati sia per quelli acquisiti,
è centrale nell’ambito della biopolitica, poiché i corpi delle donne sono stati
(per certi versi lo sono ancora) il centro di applicazione di pratiche che
riconoscono il sesso femminile primariamente nell’ordine della sua capacità di
generazione, assimilandolo a un fenomeno riproduttivo, e correndo il rischio di
far emergere in tal modo il “lato temibile” della centralità del fatto
biologico. Nel corso del tempo il pensiero della differenza sessuale ha avuto e
continua ad avere il difficile compito di evidenziare la necessità di
salvaguardare la pluralità dei corpi, senza dare spazio a nulla che tenti di
assemblarli, trasformando i corpi in “il corpo”. Occorre quindi un
“denudamento” da ogni tipo di pregiudizio, o principio prescrittivo, o forma di
civiltà, che possono fungere da punti di resistenza rispetto al corpo nella sua
più estrema nudità.
Il nostro Esserci è materiale, nel senso che il corpo continua ad essere una collocazione destinale piuttosto che una libera espressione del proprio desiderio di vita e di esperienza. Solo il desiderio (quell’Eros, invincibile in battaglia, di cui parla Antigone) è in grado di esporsi al fuori, al non pensato, a ciò che è nel mezzo, garantendo la coesistenza di più voci, di pratiche differenti, di erranze e di cadute.
I totalitarismi del Novecento hanno fatto della biopolitica lo strumento sinistro della investigazione e della sorveglianza dei comportamenti, attraverso l’uso di tecniche che dovevano tutelare la salute della popolazione, ma il diritto consentiva un insieme di regole comportamentali che legittimavano decisioni e azioni degenerative come la “selezione”, assottigliando fino a rendere fumosi i confini tra biologia, diritto e politica. Lo stesso patrimonio genetico era diventato la principale ricchezza della nazione. L’identità dell’essere umano nasceva non dal Sé, ma dalle rappresentazioni della vita, della società, del lavoro e del linguaggio di cui era solo il prodotto. È senz’altro irriducibile la congiunzione-disgiunzione di uomo e animalità: nel mondo greco- classico si univano per trovare un equilibrio o un conflitto, ma è altrettanto possibile ipotizzare tra i due uno scarto incolmabile, poichè proprio quel vuoto diviene il luogo dove l’umano costruisce il suo Sé, e la via indicata da Heidegger dell’Esserci come Cura, come “dedizione” a qualcosa, è illuminante, poiché l’apertura-a è il modo fondamentale dell’Esserci (uomo) in conformità del quale esso è il suo Ci. “L’apertura è costituita dalla situazione emotiva, dalla comprensione e dal discorso, e riguarda cooriginariamente il mondo, l’in-essere e il se-Stesso”[1].
L’animalizzazione dell’uomo e l’umanizzazione dell’animale sono inclinazioni che continuano a incrociarsi nell’essere umano, sebbene gli anelli evolutivi abbiano complicato il gioco e abbiano creato passaggi che sono nel mezzo, determinando un amalgamarsi dell’uno e dell’altro in un intreccio difficilmente districabile.
Eppure l’hitlerismo fece scivolare le fattezze umane verso l’idiozia, strumentalizzando la malattia mentale che, provocando una diminuzione dell’umano e abbassandolo verso l’animale, doveva essere debellata e per tanto lo Stato doveva decretare la morte di quei corpi, perché si trattava di corpi privati dell’humanitas, scesi al di sotto della soglia consentita, biologicamente inadatti a qualsiasi competenza.
L’estetizzazione del corpo sano era un potentissimo strumento di propaganda che coinvolse anche i corpi delle donne, che furono trattati come materiale biologico da sterilizzare o da far procreare. Non vi dovevano essere crepe o decadimenti che avrebbero potuto mettere in discussione la purezza di una razza.
La destinazione spirituale, sottolinea Angela Putino, era iscritta nella biologia che, al tempo stesso, era diventata il compito morale da adempiere, trasformandosi poi in una questione politica, oltre che ontologica. Chi incarnava la “sottoumanità” doveva essere eliminato attraverso la “soluzione finale”, che poteva realizzarsi grazie agli ordini espressi dalla viva voce del Fuhrer, quasi a segnare il nodo dove il biologico diveniva subito legge. Tutto era sottoposto a una tecnica disciplinare portata a regime da funzionari zelanti che con l’utilizzo di registri, telegrammi, note, memorandum, carteggi e una cieca aderenza all’abitudine avevano innescato un sistema di pulizia da cui difficilmente si usciva indenni.
La stessa Hannah Arendt scorgerà nella ripetizione quotidiana il carattere banale e ordinario che quel male stava assumendo, di fronte alla più totale indifferenza e incapacità di pensare. E poi vi erano i corpi che in ambito psichiatrico erano catalogati come “normale” o “anormale”, perché proprio la connotazione di anormalità prendeva il posto di quella di patologia, innescando un rigoroso sistema di eccezioni, di inclusioni, di esclusioni e di controlli: anche in questo ambito s’instaurava un micropotere disciplinare che definiva e posizionava i soggetti.
E oggi nella nostra quotidianità fatta di immagini veloci e cangianti, alla rincorsa di qualcosa che continuamente cambia, che cosa siamo, come abitiamo i nostri corpi?
I corpi sono i “questi qui” e le “queste qui”, così come appaiono, nei loro vestiti e trucchi, nel loro avanzare e retrocedere: essi raccontano di noi, anzi noi siamo le immagini dei nostri corpi. Come pensarci allora? Come un essere continuamente esposti, perché i corpi sono fuori, occupano sempre uno spazio aperto, sono tagli da cui fuoriesce l’interiorità. “Da molto tempo - osserva Angela Putino- nella pratica politica delle donne, una frase scandisce il collegamento tra pensiero e libertà materiale: è “partire da sé”[2].
Al di là dell’essere-carne, bisogna esplicitare il senso che troviamo in noi stessi, a partire dai nostri desideri e dalle nostre resistenze. Oggi, a differenza della Germania hitleriana in cui il corpo si riduceca a vincoli di sangue e a giudizi di salute e “normalità”, le nuove tecniche, i nuovi canali di comunicazione, l’essere-in-rete creano una dimensione orizzontale dove i corpi vengono continuamente sbalzati in un reticolo fatto di promiscuità, di vicinanza-lontananza, sempre interconnessi, decadendo dalla propria singolarità, trasformandosi in una “popolazione priva di soggetto non indirizzata a un fine né particolare, né universale”[3]. Ma anche questa realtà sottostà a strutture di “governamentalità” che minano l’individualità del Sé, destituendo i corpi in un eccesso di assembramento. Il fatto che l’informazione avvenga velocemente su piani di collegamenti che si attuano ovunque e in una pluralità di modi comporta che i corpi siano il “tra”, ciò che è in mezzo, in maniera indifferenziata e anonima, e allora c’è da chiedersi: chi decide del senso? Dovremmo sentirci liberi di riconoscere noi stessi, forzando ruoli e comportamenti ormai cristallizzati e ancora passivamente accettati, altrimenti non sarà possibile un cambiamento a partire dal Sé. Scrollarsi di dosso forme e valori che non sentiamo propri esige un atto di coraggio, questo non significa rinnegare il proprio sesso, piuttosto non ridurre la propria identità all’essere donna e/o all’essere uomo.
Il governo di se stessi è la cura sui- la cura di sé che non può prescindere dal precetto delfico “conosci te stesso”: solo comprendendomi posso veramente occuparmi di me, solo reinventandomi liberamente nel divenire posso dar conto di me. Il governo del mio corpo è un ritornare a me, un ripiegarmi e nella piega si ha la possibilità di produrre la propria soggettività, a partire dai propri desideri. Il corpo allora diviene la forma esteriore di ciò che vogliamo essere e la libertà di parola è il modo con cui manifestiamo il nostro esserci, cosicché il rapporto che si crea tra pensiero e vita è espressione del nostro stile di vita.
Il corpo allora potrebbe essere ciò che è senza contenuto preciso, esposto al non ancora, affinché chiunque possa cercare liberamente ciò che cerca, stando nella vita.
Il nostro Esserci è materiale, nel senso che il corpo continua ad essere una collocazione destinale piuttosto che una libera espressione del proprio desiderio di vita e di esperienza. Solo il desiderio (quell’Eros, invincibile in battaglia, di cui parla Antigone) è in grado di esporsi al fuori, al non pensato, a ciò che è nel mezzo, garantendo la coesistenza di più voci, di pratiche differenti, di erranze e di cadute.
I totalitarismi del Novecento hanno fatto della biopolitica lo strumento sinistro della investigazione e della sorveglianza dei comportamenti, attraverso l’uso di tecniche che dovevano tutelare la salute della popolazione, ma il diritto consentiva un insieme di regole comportamentali che legittimavano decisioni e azioni degenerative come la “selezione”, assottigliando fino a rendere fumosi i confini tra biologia, diritto e politica. Lo stesso patrimonio genetico era diventato la principale ricchezza della nazione. L’identità dell’essere umano nasceva non dal Sé, ma dalle rappresentazioni della vita, della società, del lavoro e del linguaggio di cui era solo il prodotto. È senz’altro irriducibile la congiunzione-disgiunzione di uomo e animalità: nel mondo greco- classico si univano per trovare un equilibrio o un conflitto, ma è altrettanto possibile ipotizzare tra i due uno scarto incolmabile, poichè proprio quel vuoto diviene il luogo dove l’umano costruisce il suo Sé, e la via indicata da Heidegger dell’Esserci come Cura, come “dedizione” a qualcosa, è illuminante, poiché l’apertura-a è il modo fondamentale dell’Esserci (uomo) in conformità del quale esso è il suo Ci. “L’apertura è costituita dalla situazione emotiva, dalla comprensione e dal discorso, e riguarda cooriginariamente il mondo, l’in-essere e il se-Stesso”[1].
L’animalizzazione dell’uomo e l’umanizzazione dell’animale sono inclinazioni che continuano a incrociarsi nell’essere umano, sebbene gli anelli evolutivi abbiano complicato il gioco e abbiano creato passaggi che sono nel mezzo, determinando un amalgamarsi dell’uno e dell’altro in un intreccio difficilmente districabile.
Eppure l’hitlerismo fece scivolare le fattezze umane verso l’idiozia, strumentalizzando la malattia mentale che, provocando una diminuzione dell’umano e abbassandolo verso l’animale, doveva essere debellata e per tanto lo Stato doveva decretare la morte di quei corpi, perché si trattava di corpi privati dell’humanitas, scesi al di sotto della soglia consentita, biologicamente inadatti a qualsiasi competenza.
L’estetizzazione del corpo sano era un potentissimo strumento di propaganda che coinvolse anche i corpi delle donne, che furono trattati come materiale biologico da sterilizzare o da far procreare. Non vi dovevano essere crepe o decadimenti che avrebbero potuto mettere in discussione la purezza di una razza.
La destinazione spirituale, sottolinea Angela Putino, era iscritta nella biologia che, al tempo stesso, era diventata il compito morale da adempiere, trasformandosi poi in una questione politica, oltre che ontologica. Chi incarnava la “sottoumanità” doveva essere eliminato attraverso la “soluzione finale”, che poteva realizzarsi grazie agli ordini espressi dalla viva voce del Fuhrer, quasi a segnare il nodo dove il biologico diveniva subito legge. Tutto era sottoposto a una tecnica disciplinare portata a regime da funzionari zelanti che con l’utilizzo di registri, telegrammi, note, memorandum, carteggi e una cieca aderenza all’abitudine avevano innescato un sistema di pulizia da cui difficilmente si usciva indenni.
La stessa Hannah Arendt scorgerà nella ripetizione quotidiana il carattere banale e ordinario che quel male stava assumendo, di fronte alla più totale indifferenza e incapacità di pensare. E poi vi erano i corpi che in ambito psichiatrico erano catalogati come “normale” o “anormale”, perché proprio la connotazione di anormalità prendeva il posto di quella di patologia, innescando un rigoroso sistema di eccezioni, di inclusioni, di esclusioni e di controlli: anche in questo ambito s’instaurava un micropotere disciplinare che definiva e posizionava i soggetti.
E oggi nella nostra quotidianità fatta di immagini veloci e cangianti, alla rincorsa di qualcosa che continuamente cambia, che cosa siamo, come abitiamo i nostri corpi?
I corpi sono i “questi qui” e le “queste qui”, così come appaiono, nei loro vestiti e trucchi, nel loro avanzare e retrocedere: essi raccontano di noi, anzi noi siamo le immagini dei nostri corpi. Come pensarci allora? Come un essere continuamente esposti, perché i corpi sono fuori, occupano sempre uno spazio aperto, sono tagli da cui fuoriesce l’interiorità. “Da molto tempo - osserva Angela Putino- nella pratica politica delle donne, una frase scandisce il collegamento tra pensiero e libertà materiale: è “partire da sé”[2].
Al di là dell’essere-carne, bisogna esplicitare il senso che troviamo in noi stessi, a partire dai nostri desideri e dalle nostre resistenze. Oggi, a differenza della Germania hitleriana in cui il corpo si riduceca a vincoli di sangue e a giudizi di salute e “normalità”, le nuove tecniche, i nuovi canali di comunicazione, l’essere-in-rete creano una dimensione orizzontale dove i corpi vengono continuamente sbalzati in un reticolo fatto di promiscuità, di vicinanza-lontananza, sempre interconnessi, decadendo dalla propria singolarità, trasformandosi in una “popolazione priva di soggetto non indirizzata a un fine né particolare, né universale”[3]. Ma anche questa realtà sottostà a strutture di “governamentalità” che minano l’individualità del Sé, destituendo i corpi in un eccesso di assembramento. Il fatto che l’informazione avvenga velocemente su piani di collegamenti che si attuano ovunque e in una pluralità di modi comporta che i corpi siano il “tra”, ciò che è in mezzo, in maniera indifferenziata e anonima, e allora c’è da chiedersi: chi decide del senso? Dovremmo sentirci liberi di riconoscere noi stessi, forzando ruoli e comportamenti ormai cristallizzati e ancora passivamente accettati, altrimenti non sarà possibile un cambiamento a partire dal Sé. Scrollarsi di dosso forme e valori che non sentiamo propri esige un atto di coraggio, questo non significa rinnegare il proprio sesso, piuttosto non ridurre la propria identità all’essere donna e/o all’essere uomo.
Il governo di se stessi è la cura sui- la cura di sé che non può prescindere dal precetto delfico “conosci te stesso”: solo comprendendomi posso veramente occuparmi di me, solo reinventandomi liberamente nel divenire posso dar conto di me. Il governo del mio corpo è un ritornare a me, un ripiegarmi e nella piega si ha la possibilità di produrre la propria soggettività, a partire dai propri desideri. Il corpo allora diviene la forma esteriore di ciò che vogliamo essere e la libertà di parola è il modo con cui manifestiamo il nostro esserci, cosicché il rapporto che si crea tra pensiero e vita è espressione del nostro stile di vita.
Il corpo allora potrebbe essere ciò che è senza contenuto preciso, esposto al non ancora, affinché chiunque possa cercare liberamente ciò che cerca, stando nella vita.
[1] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2023, p. 267.
[2] Angela Putino, I corpi di mezzo, ombre corte, Verona 2011, p. 68.
[3] Ivi, cit., p. 71.