C’è la Scienza. E poi c’è la scienza,
con la minuscola. La prima ci affascina perché rappresenta il limite ultimo
della nostra conoscenza e, a volte, come ogni frontiera, mette paura. La
seconda è tutto ciò che donne e uomini fanno per allargarla, quella frontiera.
La prima è fatta di formule e teorie. La seconda di persone. La prima è tutta
giusta, almeno fino a prova contraria. L’altra è piena di tentativi, errori,
colpi di fortuna che solo di rado portano a un risultato.
La prima è bella, utile e talvolta terribile. La seconda è, soprattutto, umana. E non si racconta quasi mai. A scuola e nelle università si parla molto delle scoperte e troppo poco dei percorsi — a volte tortuosi e casuali — con cui ci si è arrivati. È un riflesso comprensibile: con tutti i suoi sbagli e i suoi difetti, a raccontare la scienza si teme di macchiare anche la Scienza con la maiuscola, dandone un’idea ancora più nebulosa. Ma non è detto che sia così. Le storie che vedono al centro ricercatrici e ricercatori raccontano come lavorano e cosa hanno davvero in testa. Mostrano che alla base delle loro scelte non ci sono solo conoscenze esoteriche, ma anche passioni personali e pressioni sociali. Di queste passioni e pressioni, in fondo, siamo esperti — a volte più degli scienziati stessi — perché vi partecipiamo in prima persona.
Lo facciamo quando paghiamo le tasse, così garantendo i mezzi perché la ricerca — che si fa quasi esclusivamente coi soldi pubblici — vada avanti Ma lo facciamo anche quando rifiutiamo un vaccino, acquistiamo un pacco di pasta o scegliamo un’auto elettrica, perché scienza e tecnologia pervadono il nostro habitat ben oltre l’immaginazione: nulla è più artificiale del concetto di “naturale”. Per questo abbiamo deciso di raccontare storie di scienza. Come ogni racconto che si rispetti, sono piene di buoni e di cattivi, di pirati e di codardi, di giusti e di malandrini. Le sceneggiature migliori sono quelle in cui i personaggi contengono anche un po’ del loro opposto e svolgono più ruoli in commedia. La scienza non fa eccezione. La parola chiave della nostra epoca è certamente complessità. Sta a significare che il totale è più dell’insieme delle parti, e la ritroviamo in tutte le scienze odierne.
Le conoscenze sul riscaldamento climatico dei prossimi decenni non sono la somma di tante previsioni meteorologiche. E l’intelligenza — naturale o artificiale — non si capisce studiando un neurone per volta. Vale anche per la Scienza. Senza le vicende piccole e grandi di scienziate e scienziati non avremmo la matematica, la biologia o la medicina che si studia nei manuali. Ma il percorso con cui le storie si trasformano in Scienza non è lineare né prevedibile. Perché riguarda tutti noi.
Andrea Capocci
(editoriale che introduce il supplemento “Pecore Elettriche” di “Il Manifesto”)
La prima è bella, utile e talvolta terribile. La seconda è, soprattutto, umana. E non si racconta quasi mai. A scuola e nelle università si parla molto delle scoperte e troppo poco dei percorsi — a volte tortuosi e casuali — con cui ci si è arrivati. È un riflesso comprensibile: con tutti i suoi sbagli e i suoi difetti, a raccontare la scienza si teme di macchiare anche la Scienza con la maiuscola, dandone un’idea ancora più nebulosa. Ma non è detto che sia così. Le storie che vedono al centro ricercatrici e ricercatori raccontano come lavorano e cosa hanno davvero in testa. Mostrano che alla base delle loro scelte non ci sono solo conoscenze esoteriche, ma anche passioni personali e pressioni sociali. Di queste passioni e pressioni, in fondo, siamo esperti — a volte più degli scienziati stessi — perché vi partecipiamo in prima persona.
Lo facciamo quando paghiamo le tasse, così garantendo i mezzi perché la ricerca — che si fa quasi esclusivamente coi soldi pubblici — vada avanti Ma lo facciamo anche quando rifiutiamo un vaccino, acquistiamo un pacco di pasta o scegliamo un’auto elettrica, perché scienza e tecnologia pervadono il nostro habitat ben oltre l’immaginazione: nulla è più artificiale del concetto di “naturale”. Per questo abbiamo deciso di raccontare storie di scienza. Come ogni racconto che si rispetti, sono piene di buoni e di cattivi, di pirati e di codardi, di giusti e di malandrini. Le sceneggiature migliori sono quelle in cui i personaggi contengono anche un po’ del loro opposto e svolgono più ruoli in commedia. La scienza non fa eccezione. La parola chiave della nostra epoca è certamente complessità. Sta a significare che il totale è più dell’insieme delle parti, e la ritroviamo in tutte le scienze odierne.
Le conoscenze sul riscaldamento climatico dei prossimi decenni non sono la somma di tante previsioni meteorologiche. E l’intelligenza — naturale o artificiale — non si capisce studiando un neurone per volta. Vale anche per la Scienza. Senza le vicende piccole e grandi di scienziate e scienziati non avremmo la matematica, la biologia o la medicina che si studia nei manuali. Ma il percorso con cui le storie si trasformano in Scienza non è lineare né prevedibile. Perché riguarda tutti noi.
(editoriale che introduce il supplemento “Pecore Elettriche” di “Il Manifesto”)