Tratto da Linkiesta del 19 novembre 2025
Oggi il costante e graduale upgrade del cervello sembra essersi inceppato. Nel 2023, la ricercatrice Elizabeth Dworak ha deciso di controllare l’andamento dei test del quoziente intellettivo negli anni precedenti. Si aspettava l’ennesima conferma del copione. E invece: «Mi sentivo come in “Don’t Look Up”», ha detto. Il suo database, fatto di 394.378 test tra il 2006 e il 2018, mostra una discesa netta in tre categorie cruciali: i test psicometrici che misurano il pensiero logico-deduttivo, il riconoscimento di pattern in serie di lettere e numeri, e la risoluzione dei problemi attraverso il linguaggio.
Però qualcosa c’è. Ad esempio negli Stati Uniti gli American College Testing – Act, un esame di ammissione universitaria richiesto da molte università – sono ai minimi da trent’anni, gli adolescenti sono incapaci di recuperare le competenze pre-pandemiche, e un quarto degli adulti americani ha capacità di lettura e comprensione del testo minime. E gli esempi potrebbero proseguire più o meno all’infinito. Un recente sondaggio mostra come il numero di americani che leggono per piacere sia diminuito del quaranta per cento negli ultimi due decenni.
Colpa, secondo il New York Magazine, di una cultura che premia routine, intrattenimento e abitudini che chiedono sempre meno ai nostri cervelli. «Forse non è tanto che il nostro software cognitivo sia stato declassato, quanto che abbiamo disattivato i nostri firewall», si legge nella cover story. «Tutti nel mondo sviluppato ora hanno accesso Airdrop alla mente di tutti gli altri. Se stiamo diventando più stupidi, è probabile che ci siamo resi così a vicenda».
La dimensione sociale e l’interazione con altre persone sono un aspetto chiave di questa storia. La specie umana ha sviluppato cervelli ottimizzati per gruppi di 20-50 individui. Ora ognuno di noi è esposto alle idee, alle emozioni e alle idiozie di centinaia di sconosciuti in ogni momento.
Non molto tempo fa, gli idioti tra noi erano liberi di pensare in silenzio, senza un modo semplice per condividerli. Nel peggiore dei casi, una persona si limitava a mettersi in imbarazzo di fronte alla propria famiglia o nello spogliatoio del calcetto o al bar. Le cattive idee restavano incagliate nella loro stessa palude.
La situazione si complica quando Brown introduce la parabola dell’informazione compressa: per sopravvivere nell’ecosistema digitale, ogni contenuto deve essere ridotto, distillato, semplificato. C’è sempre un podcaster che riassume l’aneddoto più interessante di un’intervista, un tiktoker che spiega il Medio Oriente in trenta secondi secondi, un tweet con lo screenshot della sintesi minima di un articolo lungo. Ogni passaggio distorce il significato originale, e banalizza il pensiero. Per paradosso – ma era inevitabile – è successo anche con lo stesso studio di Dworak: era stata molto cauta nel diffondere i risultati, poi un sito ne ha ripreso il tema centrale con un titolo clickbait e Tucker Carlson in tv ne ha stravolto ulteriormente il senso. La prima conseguenza è che Dworak si è trovata a difendersi da migliaia di critiche sui social.
I media protagonisti del secolo scorso – libri, film, tv, giornali – richiedevano la nostra attenzione e la nostra immaginazione, mostravano il mondo nella sua enorme complessità e richiedevano una certa dose di sforzo intellettuale. Mentre i media di oggi fanno quasi l’opposto: rimpiccioliscono la nostra visione del mondo, insistono sull’idea che tutto sia più semplice di quanto non sia in realtà.
A giugno, il Reuters Institute ha scritto che i social media sono diventati la principale fonte di informazione degli americani, superando per la prima volta i canali tradizionali, mentre TikTok è una fonte di notizie affidabile per il diciassette per cento delle persone in tutto il mondo. Come se non bastasse, spesso sono le istituzioni a inquinare il dibattito: l’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ne è una dimostrazione.
Per questo, forse, l’unico approccio possibile è quello adottato da Lane Brown in coda al suo articolo. Una specie di resa all’imbecillimento collettivo. Una nuova consapevolezza. Non è solo che stiamo diventando più sciocchi, è che stiamo imparando a vivere in un ecosistema che non richiede, e forse non tollera, altro.