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La vera storia delle false teste di Modì.


Lo scorso inverno, presso il Palazzo Blu a Pisa, fu organizzata una mostra su Amedeo Modigliani, intitolata “Amedeo Modigliani et Ses Amis", grandioso evento del quale, camminando per la città, un occhio attento può ancora osservare brandelli di vecchi manifesti che lo pubblicizzavano. L’eccezionalità dell’occasione non era solo frutto delle opere importate dal Centro Pompidou di Parigi: la mostra infatti proseguiva presso il Museo Nazionale di San Matteo, che ospitava le tre false teste protagoniste della “Beffa di Modì”.
Non sono particolarmente un’amante della storia dell’arte, eppure quell’episodio, spiegatomi tra i banchi di scuola, ricordo mi affascinò moltissimo. Facciamo un salto indietro di circa trent’anni: correva l’anno 1984, e nella torrida estate livornese si consumava la trepidante attesa del centenario della nascita dell’artista Amedeo Modigliani. In tale occasione, Vera Durbè – direttrice del museo Villa Maria di Livorno- e suo fratello Dario, volevano organizzare qualcosa di straordinario, tale da far puntare finalmente la luce dei riflettori su Livorno e, perché no, irrobustire lo sparuto numero di turisti che visitavano la città. Leggende narrano che l’artista livornese in giovane età, in preda allo sconforto di essere schernito dai suoi concittadini, gettò nel Fosso Reale alcune sue sculture.
E se non fossero solo leggende? Il Comune di Livorno, esortato dai fratelli Durbè, durante quella famosa estate decise di cercarne la risposta, dragando i canali della città vecchia, alla ricerca delle presunte sculture di Modigliani.Passò quasi una settimana, e di opere d’arte neanche la traccia. Ma proprio quando tutto sembrava perduto, quando già la stampa cominciava a criticare l’inutile spesa pubblica, l’ottavo giorno venne ripagato tutto il duro lavoro di ricerca: furono trovate ben tre teste, scolpite in perfetto stile Modigliani. Così i fratelli Durbè ottennero il successo auspicato: i mass media di tutto il mondo volsero l’attenzione verso l’accaduto, triplicando la quota di turisti e visitatori. 
Putroppo per i Durbè – e per il mondo dell’arte- Veritas filia temporis.  “Dè si, ci si son messe noi”, confessò lo studente Pierfrancesco Ferrucci. I veri autori delle teste di Modì non erano altro che giovani livornesi, aiutati da un Black and Decker, a dispetto di tutti i critici d’arte che affermavano l’autenticità dei reperti. La goliardia –che da sempre contraddistingue noi toscani- ebbe la meglio sull’opinione dei teorici di storia dell’arte. È davvero così semplice mettere in dubbio le convinzioni di un’intera comunità di esperti?
Mi chiedo cosa sarebbe successo se nessuno avesse mai confessato.
Se nessuno avesse mai gridato “l’imperatore è nudo!”, ad oggi avremmo guadagnato tre opere d’arte, vivendo però nella menzogna. Con tutta probabilità nel nostro patrimonio culturale sono già presenti alcune “finte teste di Modì”, la cui autenticità non verrà mai dubitata.
Quando osserviamo un’opera d’arte quindi, non possiamo far altro che abbandonarci in una Coleridgiana “sospensione del dubbio”, e godere dell’atmosfera che tale opera ci regala, piuttosto che indagare sulla veridicità della mano d’autore.
Aristotele sosteneva che l’arte fosse “più filosofica e più elevata della storia perché espressione dell’universale mentre la storia del particolare”. Se questo è vero, se davvero esiste un linguaggio universale dell’arte, tale si rivolge all’anima degli uomini di tutti tempi e di ogni luogo, senza discriminazioni.
Risulta artistico tutto ciò che consente all’uomo di attingere a un’idea, ad una sensazione, indefinite e soggettive; pertanto chiunque osservi un’opera d’arte, ancor prima che la ragione se ne renda conto, viaggia nel mondo delle emozioni proprio grazie al “linguaggio universale” ed egualitario di cui sopra.
L’esperienza della “beffa di Modì” ci insegna che non occorre chiamarsi Kandiskij, Van Gogh o Modigliani per veicolare un’emozione. Arte è comunicazione, e chiunque è in diritto di goderne.


Fiorenza Orsitto