Coinvolti in vite che non ci appartengono,
coinvolti in un processo di perdita di noi stessi/e, riscopriamo ogni volta una
vulnerabilità condivisa, una potenza estraniante del lutto. Sperimentiamo
impotenti lo spossessamento che causa il dolore e, contemporaneamente, facciamo
esperienza della potenza che risiede nella capacità di narrare il dolore, ma
senza restarne narcisisticamente ingabbiati. Piuttosto, vorremmo che l’essere
degni di lutto, questo movimento creativamente politico, invadesse per una
volta la sfera dell’azione per ricordarci sempre che “il volto non è
esclusivamente un volto umano”.
Mi sono chiesta, in maniera completamente
dipendente da ciò che accade quotidianamente su questa parte di universo, se
sia ancora possibile determinare lo spazio dell’azione. Parto quindi con il
definire cosa intendo per spazio e cosa per azione. Lo spazio è il luogo del
possibile, del movimento, ma anche il luogo dell’incontro, luogo di un reale
riconoscimento e di una pericolosa de-realizzazione dell’altro. L’azione è ciò
che dischiude la possibilità di una creatività non lineare, un passo danzante
di nietzschiana memoria che dà forma all’imprevedibile, momento di rivelazione
del metamorfico chi dell’agente. Lo spazio, dunque, è il dove che letteralmente
permette la messa in scena del chi e, l’azione, è la performance dell’attore.
Il realizzarsi della pluralità si da’ in questo doppio movimento, dato che
l’agire non può essere realizzato senza quell’incontro che permette il
movimento ek-statico del soggetto. Movimento che ricompensa l’imprevedibilità e
la turbolenza dell’incontro, in uno spossessamento che altera il soggetto e che
esclude categoricamente un ritorno al sé primigenio. Es-propriazione fin
dall’inizio. L’agire come essere-nel-mondo si dà in questa forma “perturbante”
dell’ esser-fuori di sé, dell’essere estraneo a sé, dell’essere “consegnato”
all’altro in questo spazio relazionale che richiede il riconoscimento di una
comune responsabilità, affinché allo spazio indeterminato dell’incontro si
sostituisca la realizzazione di uno spazio etico nel quale si renda chiaro che
“solo la mera violenza è muta”. Lo spazio dell’agire è quindi anche, e
soprattutto, spazio del discorso, luogo relazionale, potentemente creativo,
luogo di auto-creazione e di dispersione, spazio imprevedibile nel quale
l’autopoiesi si accompagna inevitabilmente a momenti di perdita di sé, attimi
che chiariscono il nostro modo di essere spossessati, esposti e dunque fragili,
vulnerabili, sempre nella direzione dello sguardo dell’altro, di quel volto che
senza pronunciarlo direttamente ci ricorda il senso del comandamento “non
uccidere”. Ma la turbolenza scaturita dall’incontro con l’altro è come un
dispositivo che incita a restare coraggiosamente in sé, una tecnica di difesa,
come se ancora ci si potesse trincerare dietro l’idea che questo coraggio di
essere sé potesse garantire un freno allo spossessamento che caratterizza fin
dall’inizio l’incontro stesso. Smettere di aver fede in questo coraggio
rappresenta una possibilità creativa, un congedo eminentemente inventivo. Siamo
esseri fragili rispetto alla muta violenza, alla brutalità e alla forza che
silente passa sui nostri corpi e sui nostri volti perché noi siamo
destabilizzati l’uno dall’altro, e se non lo siamo ci stiamo perdendo qualcosa
e, quello che perdiamo, è precisamente la possibilità di intravedere una comune
e condivisa vulnerabilità attraverso l’atto rivoluzionario di dis-perdere il
coraggio di sé. Bisogna quindi cominciare ad analizzare la questione dello
spazio dell’agire con un atto di rottura, un atto di disidentificazione dalla
prospettiva aperta della possibilità.
Desidero lasciare che lo spazio si apra
indefinitamente, rizomaticamente, sotto l’incedere comune e a partire dalle movenze
del gioco. Solo il gioco, in fondo, può interrompe il flusso degli eventi
ordinari. L’archein, nella sua originaria accezione di cominciare, guidare,
governare, rende chiara la posizione perturbante e destabilizzante di ogni
cominciamento, momento perturbante e imprevedibile di creazione, processo di
deterritorializzazione dello spazio del chi, motore e spinta propulsiva per una
riterritorializzazione dello spazio del noi. Allo spazio dell’esclusione, della
de-realizzazione, lo spazio dello sconfinamento, dell’evasione, della
dispersione dei confini spaziali necro-politicamente escludenti. Qui l’agire
esplode viralmente negli interstizi vuoti della violenza per rilasciare, come
fenomeno di contagio, la perturbante forza creativa dell’imprevedibilità, unico
antidoto per costruire politicamente lo spazio del noi. Un luogo profondamente
relazionale si costruisce nella paradossale perdita di fiducia in ciò che è
stabile, fisso, rigido e nella presa di coscienza che, per scavalcare,
penetrare, saltare oltre le barriere c’è bisogno di muoversi in maniera virale,
imprevedibile e anarchica. Lo spazio dell’agire va quindi primariamente
immaginato, costruito idealmente, attraverso la consapevolezza di una comune
vulnerabilità che non è mai isolamento narcisistico e melanconico. La capacità
immaginativa, giocosa, collegata alla natura infantile, rende fattuale,
possibile, questa fantasiosa capacità di ridisegnare il mondo, capacità
creativamente colorata che porta a de-bordare il confine stabilito, il confine
del noto, per rimettere in discussione, scompaginare la regola dello stare
dentro ad uno spazio che fonda la propria sicurezza sulla brutalità. Scegliamo
quindi, narrando le nostre storie, di costruire non più isole di precaria
sicurezza, ma ponti che permettano a Samir, a Edward, ad Amanda, a Sara, a
Katty, a Scilla e ai tanti altri e alle tante altre senza più nome e più volto, di continuare ad essere con noi, per
costruire – rispetto alle narrazioni tossiche della violenza maschilista,
omotransfobica, xenofoba e specista – delle contro-narrazioni potenti e
creative.
Marianna
Spaccaforno