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A distanza di tempo pubblichiamo un pezzo di Peppe D’Avanzo, amico di tanti di noi che abbiamo amato, qualcuno praticato, lo sport del rugby. Una piccola perla, dagli archivi de “La repubblica”. Va letto come un auspicio,  in tempi, per l’Italia, di cambiamenti (NdR)

Rugby: il sogno di un’Italia diversa

Il corpo lo si può dire veramente “formato” soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un ideale morale. Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine della “formazione morale”. Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la sconfitta, si rafforza la sua stabilità emotiva. Lo si prepara al servizio sociale perché si confronta con grande impegno in un quadro di regole reciprocamente accettate. Gli si insegna a rispettare l’avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad accettare serenamente e senza alibi l’esito della competizione. Un partita – soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby – apre il solco entro cui si definisce un ethos, un’idea di gentlement, un modo di stare al mondo e con gli altri. Offre la possibilità di dimostrare forza d’animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di quella etica del far play, che trova il suo slogan nell’esortazione vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii uomo.
Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi siano indotte da un pratica auto- repressiva, governata dal Super-Io. Credo che non sia coerente allora parlare di “follia” o “caos”, di <<una partita di calcio che va fuori di testa>>.
Il rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in gara per conquistare l’area di meta e schiacciarvi l’ovale. Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato nella sua essenzialità. E’ colto perché, nonostante l’apparenza, è l’esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture. Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l’odio  è paura cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l’arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a quella.
Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il metodo. La furbizia e non la lealtà. L’inventiva e mai la preparazione. Il “miracolo” e mai l’organizzazione. L’individualità e mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del “gruppo chiuso” e mai il desiderio di farsi stimare da chi al “gruppo” (ceto, famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l’ammirazione che suscita nell’avversario. Il rugby – la comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine – spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del nostro stare insieme. Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo all’identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per riformarla.

Giuseppe D’Avanzo

 (tratto da “La Repubblica” del  4/9/2007)